(1065) Manufatto

Fare con le mani è una meraviglia che ci appartiene così strettamente, così intimamente, che la diamo per scontata. Se ci fermassimo a riflettere a quando lavoro diamo alle nostre mani, SEMPRE e ININTERROTTAMENTE, e quanto le nostre mani imparino a fare le cose anche più complicate sempre meglio e in automatico (come se si muovessero con un’anima propria connessa ma non necessariamente succube della nostra stessa anima), resteremmo senza parole.

Ogni tanto ci penso e mi stupisco ogni volta.

Allora ricordo una vecchia poesia in friulano che trovai da ragazzina nel bollettino che la parrocchia distribuiva periodicamente in paese. Una poesia scritta da una nonna e si intitolava “Les mes mans” (trad. “Le mie mani”). Raccontava con delle rime delicate il lavoro di ogni giorno di quelle mani che toccavano la terra per far crescere le verdure nell’orto, che pulivano e tagliavano il cibo per cuocerlo in grandi pentole, che trovavano il tempo di rammendare ciò che doveva essere sistemato e di accarezzare i nipoti in cerca di consolazione. Erano mani di donna, di donna abituata a non stare ferma un attimo perché in una casa c’è sempre tanto da fare, di donna cresciuta per rendersi utile e per sostenere tutta una famiglia senza domandarsi se per lei ci fosse anche altro nella vita.

Ricordo che leggevo e rileggevo quella poesia e pensavo alle mani di mia nonna che erano state educate alla stessa vita, ma che avevano qualcosa di ribelle: le unghie lunghe molto resistenti che ogni tanto dipingeva di rosso. Guardavo le mie mani e notavo una certa somiglianza, in certe curve soprattutto. Rivedevo le sue mani alla macchina da cucire, a creare camicie per i clienti e vestitini per me e mia sorella e pensavo che le mani devono essere educate. A fare di più, a fare cose diverse, a fare anche cose matte. Così per divertirsi un po’.

Non sono cambiata, rivedo ancora tutto e ricordo bene quella poesia e mi guardo ogni tanto le mani mentre fanno e disfano e rifanno e trovano modi diversi per non fermarsi. Sono state educate da una tradizione che le ha forgiate e da una ribellione nei geni che le ha liberate. Certo, nel tempo le ho viste cambiare, ma sono proprie mie e io appartengo a loro. Tutto questo mi piace. Mi piace molto.

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(954) Sorso

Un sorso per volta ci si può bere tutto. Ti fai l’abitudine e impari a fare finta di niente. Il primo sorso può essere un bel trauma, ma al secondo sai cosa aspettarti e al terzo entri nell’ottica: ok, così è, vediamo di farci i conti e andare avanti.

Sorso dopo sorso ti convinci che non può essere che così.

Non è vero, è solo una delle scelte, forse quella che ti comporta meno sbattimento. Quelle coraggiose ti impongono un certo rigore e anche se al berti veleno a sorsate preferiresti ubriacarti di libertà, ti adegui.

Scolarsi un’intera esistenza senza soffermarsi a sentirne il sapore per raccontarsi che la vita è sofferenza e fatica, è ridicolo. Una brutta storia, semplicemente una brutta storia. Perché una storia bella, una che funziona davvero, è quella che ha alti e bassi, che ha gioia e sofferenza mescolate insieme, che ha momenti di tensione e altri di pace, che prevede incontri e scontri, salti e rincorse e stop. È ricerca dell’armonia e frustrazione del fallimento, è ballare contro vento e veleggiare nella tempesta. È poesia senza rime, prosa senza senso. A volte, e a volte no.

Un sorso di cielo grigio e un sorso di cielo terso riequilibrano l’umore, gli eccessi fan bene solo se sporadici e di breve durata. Credo. 

E poi il resto si inventa. Sorso dopo sorso.

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