(1032) Mosse

Quando sei in partita, qualsiasi mossa tu faccia può essere l’inizio del tuo fallimento o della tua vittoria. Ogni dannata mossa. Se non dimentichi questo dettaglio la cautela può giocare contro di te, se te lo dimentichi la leggerezza potresti pagarla cara prima di finire la partita. Comunque sia son cavoli tuoi.

Dosare cautela e leggerezza diventa cosa di primaria importanza. Se vuoi vincere. E tutti vogliono vincere.

Il valutare la mossa e calibrare la potenza dell’azione dovrebbe essere anche divertente, altrimenti che giochi a fare? Se non ti diverti, chiediti il perché. Non sei obbligato a giocare, puoi sempre scegliere di lasciare la partita e chi s’è visto s’è visto.

A me piace giocare quando si rispettano le regole, quando la vittoria non è scontata, quando il sorriso accompagna l’azione. Sono pochi i giochi che sanno garantire queste premesse. Col tempo ho perso la predisposizione al gioco. Scelgo bene, anzi ci penso su parecchio prima di scegliere. Sperando di scegliere per il meglio. Non sempre ci riesco.

Le mie mosse al momento sono cervellotiche, sulla difensiva. Mi ritrovo a calcolare troppo le eventuali perdite e le cadute. Sono più preoccupata di subire una cocente sconfitta piuttosto che focalizzata sul vincere. Giocare così non ha senso.

L’unica mossa intelligente che posso permettermi al momento è non giocare affatto. Aspettare. Osservare. Ascoltare. Lasciare che il gioco sia condotto da chi si sta divertendo e che può impiegare il suo tempo senza altro scopo se non il vedere-come-andrà.

Rimando al futuro ciò che nel presente non so maneggiare.

Passo e chiudo.

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(993) Vacuità

È la trappola che le parole ti tendono, continuamente. Ti sanno incantare con niente, basta un niente. Devi farti forte di questo niente, spesso, per tenerti su. Per continuare a credere a quello che tu, soltanto tu, hai “sentito” dentro quelle parole, ma che in realtà nessuno ha mai pensato di dire, di promettere. 

Perché nascoste in queste piccole vacuità ci sono intenzioni più o meno ispirate e più o meno degne di lode.

Se le attacchi a un gesto, invece, qualcosa di concreto, restano a terra e puoi valutare quanto contenuto si portano dentro. E ce lo dicono tutti che i fatti valgono molto più delle parole, eppure continuiamo a scordarlo e ci aggrappiamo alle voci delle sirene. Perché?

Perché abbiamo bisogno di sognare.

Perché tutto quello che è concreto ci àncora e ci dà la sensazione che qualcosa-di-più-ci-deve-essere. Anche se quello che c’è è già tanto, anche se quello che c’è potrebbe bastare. Noi vogliamo di più. Che cosa di più o quanto di più non lo sappiamo. Solo di più.

Abbiamo bisogno di sognare. 

La vita che non avremo mai, le cose che sono troppo lontane da noi, le occasioni che non potremmo mai prendere al volo, le chiavi per aprire stanze in cui non oseremmo mai entrare. 

Il sogno è vacuità di contenuti, di sostanza, di valori. Non siamo tenuti a esserci, siamo beneficiari di un mondo che si mette a nostra disposizione e noi non dobbiamo far altro che goderne senza freni, senza inibizioni, senza pudore.

Amiamo la leggerezza del disimpegno, dell’irresponsabilità, dell’apatia, e il sognare ci regge l’utopia con grande dignità. Chi osa trasformare un sogno in qualcosa di reale? Soltanto chi si riporta a terra, chi progetta, chi si impegna e con fatica si dedica. Ben pochi. Perché un sogno che si àncora al suolo perde si ricopre di polvere, si sporca. Diventa gesto, non più pensiero.

Per chi fa, le parole prendono un altro significato e anche i sogni cambiano e il cuore si trasforma. 

La vacuità diventa fastidiosa per chi non si limita a sognare.

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(833) Ananas

Se le mangi non ancora mature fanno schifo. La maturazione conta, questa è la grande lezione che ci dà la frutta. E la domanda sorge spontanea: perché la maturazione dovrebbe contare soltanto per i vegetali e non per gli umani?

Ragioniamoci su un attimo: ai miei tempi (sì, io lo posso dire, la mia età me lo permette) mi sentivo ripetere “quando sarai grande farai come vuoi tu” e io anziché arrabbiarmi e basta, mi arrabbiavo e m’immaginavo tutte le cose pazze e divertentissime che avrei fatto una volta diventata grande. Diventare grande significava essere abbastanza maturi da riuscire ad affrontare le cose da grandi, che erano ben più complicate di quelle riservate ai bambini. Ovvio.

Ok, ci ho messo un bel po’ per rendermi conto che non sempre si affrontano le cose quando si è pronti – spesso la vita te le anticipa per vedere come saprai reagire – ma è chiaro che le capisci davvero, le cose, quando sei abbastanza maturo per notare certi collegamenti.

Un frutto maturo è più buono, dà il meglio di sé, è pronto per essere quello che è destinato ad essere, al 100%. Non rimpiange il tempo in cui era striminzito e acerbo, col fisico asciutto e verdognolo… eh!

Un uomo/una donna in età matura invece lo fanno. Si guardano indietro e rimpiangono com’erano. Non si rendono conto che il loro stato adulto, più consapevole, più denso, li innalzano a una condizione benedetta dove la vita acquista un valore che non ha mai avuto prima. Se sei davvero una persona matura, non ti proietti nel passato per recuperare la tua verde età, gioisci del fatto che è tempo andato e che sei sopravvissuto abbastanza a lungo da goderti davvero la vita perché stai cominciando a capirla.

Chi ti dà un morso, ora, prova soddisfazione. E tu ti fai mordere da chi scegli e non dal primo che passa soltanto per fare un’esperienza selvaggia e divertente.

[ho sintetizzato un concetto che può comportare qualche fraintendimento, ma ho deciso che me ne frego, sono abbastanza matura per accollarmi le conseguenze del caso]

Insomma, quello che voglio dire è: forse abbiamo un’idea della maturità piuttosto triste e claustrofobica. Come se fosse obbligatorio perdere qualcosa di caro (l’ingenuità, la spensieratezza, la leggerezza, l’irresponsabilità, l’immediatezza) per caricarsi di una croce (la vita stessa) che sicuramente ci porterà alla tomba senza grandi gioie o soddisfazioni. Credo che ci stiamo facendo un torto. Invecchiare così è davvero un’agonia.

Io rivendico il mio diritto di essere una fragola a giugno, un fico a settembre, un grappolo d’uva a ottobre, un melograno a novembre, un’ananas che se la spassa ai Caraibi tutto l’anno!

E chi mi ama mi morda… Ahia!

 

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(809) Spensieratezza

Quando è stata l’ultima volta che ho fatto qualcosa in spensieratezza? Sarà stato nei primi anni ottanta, immagino. Un giro in bici, forse. Che ne so. Non ricordo. Non è terrificante? Non ricordare cosa si prova facendo qualcosa in spensieratezza è terrificante. Sotto ogni aspetto.

Ne faccio mille al giorno di cose mentre sono distratta da un pensiero o l’altro, non è questo il significato che voglio dare a spensieratezza, mi riferisco piuttosto al fare qualcosa con leggerezza, con gioia pura. Ebbene… ho la sensazione di aver perso un potere magico che mai più riavrò. Peggio del mantello dell’invisibilità che mai è stato mio, tra l’altro. Peggio.

Come diavolo è potuto succedere? Non è una cosa che puoi fingere, mica funziona se fingi. Non è qualcosa che riproduci a memoria, contando pure che non ne ho proprio memoria sarebbe ben difficile. Non è qualcosa che t’inventi nuovamente, che anche se non è la stessa precisa sensazione almeno ci assomiglia. No. No. No!

Devo proprio rassegnarmi, devo mettermela via, devo far finta che ne ho avuta tanta di spensieratezza in tenera età da aver dato fondo a tutta la scorta e ora non posso che continuare a esistere senza. Già il pensiero è deprimente, figuriamoci la consapevolezza che sia davvero così.

E se l’avessi soltanto messa da parte, dimenticata in un angolo e lei è ancora lì che mi aspetta? E se ci fosse una fonte magica da cui attingerla e io non dovessi far altro che trovarla? E se me ne fossi messa da parte un po’ per i tempi bui e mi comparisse davanti appena il buio arriverà? Eh. E se. Sarebbe bello, ma mi faccio poche illusioni al riguardo.

Se solo ricordassi l’ultima cosa spensierata che ho fatto nella vita, forse il ricordo mi basterebbe a colmarne la mancanza. Sarebbe bello. Eh.

 

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(673) Fenicottero

Credo di assomigliare molto ai fenicotteri, non tanto per piumaggio e abitudini alimentari, quanto piuttosto per gli escamotage per non disperdere calore corporeo quando si trovano con le zampe nell’acqua: ne alzano una, infatti, e per questo sono conosciuti. Non che io mi trovi spesso in ammollo con le zampe, specialmente quando fa freddo, ma nelle situazioni in cui disperdere anche solo un neurone diventa pericoloso io alzo la zampa e cerco di limitare il danno.

In poche parole, per una corretta manutenzione del mio cervello – quando in pericolo – divento di botto stupida.

Lo faccio istintivamente, una sorta di difesa naturale per non soccombere agli attacchi del mondo crudele. La stupidità ti mette al sicuro. Poi lascia stare che lo fai soltanto per sfangartela – altrimenti sarebbe un bel problema – lascia stare che decidi tu quando-come-dove-perché-perquantotempo – e anche questo è un tema – rimane il fatto che se ti fai stupido, chi ti sta attaccando un po’ di scrupoli se li fa. Tu prendi al volo la leggera titubanza che hai suscitato nel tuo interlocutore e te ne vai. Ecco, ti fai fenicottero accorto e risparmi energia per un prossimo quando. Peeeeeeeeeeerfetto.

Bisogna, per onestà intellettuale, mettere in chiaro che in tutto questo la questione dell’eleganza è fondamentale. Non devi sembrare tonto, né debole o vulnerabile, no. Soltanto stupido. Quella stupidità che è anche leggerezza… vuotezza, direi. Quel gap sinaptico che non è ben individuabile come tara genetica o défaillance momentanea, che lascia tutti nella perplitudine, nel limbo delle domande inespresse per una sorta di pudore o imbarazzo vergognoso. Ecco. In poche parole: un’Arte.

Non è che ci si riesce al primo colpo, bisogna allenarsi un bel po’, ma col tempo i risultati ripagano dello sforzo. La strategia è semplice e per questo disarmante. Non resta altro da fare se non provareprovareprovareprovareprovare…

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(520) Brina

La brina è un ghiaccio gentile. Si scioglie con poco, è discreta. Fa luccicare qualsiasi cosa quando si appoggia, i cristalli si animano e sembra tutto più bello. Ha origine nella rugiada e lì ritorna, appena la temperatura glielo permette. L’ho già detto: è discreta.

Le persone-brina sono le mie preferite. Non ce ne sono tante in giro, ma quando ne incontri una non puoi che riconoscerla come Essere Delicato. Senti un fresco luccicore nella spina dorsale e appena te ne rendi conto se n’è già scivolata via come solo una goccia sa fare.

Non rimangono mai troppo a lungo, sono sensibili a ogni cambio di temperatura, sanno quando brillare e quando sciogliersi – senza che nessuno glielo abbia mai insegnato, è una dote naturale. 

Le persone-brina non hanno il ghiaccio nel cuore, altrimenti non potrebbero cambiare forma e sostanza. Le persone-brina non si appiccicano come colla, loro sono libere di andare appena l’aria gira.

Le persone-brina se si posano su di te non lo fanno per coprirti o per schiacciarti, ma solo per farti un po’ compagnia e darti quella luce che ti manca.

Le persone-brina non si fanno abbracciare, e questo è un peccato, e non si fanno neppure possedere, e questa è la loro fortuna. 

Ne vorrei incontrare di più, ma come ho già detto sono rare e silenziose, se non presti attenzione rischi di calpestarle senza neppure capire cosa ti sei perso.

La vita è lieve per le persone-brina, anche se la solitudine a volte può pesare più di un macigno. Almeno così lo immagino io, che sono poco brina – probabilmente.

 

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(457) Gravità

Temo sia un sintomo di invecchiamento, la gravità ti piomba sul coppino e da lì non si muove. So dire con precisione quando mi è successo e la cosa non è che alleggerisca in qualche modo il carico. Quindi non serve capire il quando, non serve capire il come, non serve capire il perché… servirebbe, invece, capire come fare a togliersela di dosso e questo diventerà il mio obiettivo per il prossimo anno.

Mi rifiuto di pensare che sarà così per sempre (il per sempre che mi rimane, ovviamente) perché sarebbe come ammettere che non ci sarà respiro leggero per i miei prossimi decenni. Sarebbe una cattiveria imperdonabile da parte della vita, come sparare sulla Croce Rossa. Sono già un caso umano patetico, a che serve infierire?

Dopo questo sfogo intriso di autocommiserazione con utilità pari a zero, posso riprendere il discorso imponendomi un certo decoro: sì, la gravità farà anche parte di me – ammesso e non concesso che non me ne potrò più sbarazzare – eppure non è detto che si debba prendere la gran parte di me. Voglio dire: sarò ben capace di non farle gestire la mia vita nonostante lo sconforto che mi porto appresso!

Questa forza che ci spinge a terra, per non farci prendere il volo, ci permette di fare molte cose. Noi ci sforziamo di oltrepassare i limiti che ci impone, c’è chi ci riesce davvero spingendosi oltre e ottenendo un brandello di immortalità, ma la sfida vera è di guardarla come opportunità e non come limite. Dalla gravità succhiare via la leggerezza e ingoiarla come fosse elio che ci fa papereggiare ridicolmente e piano piano riprendere consistenza e ritornare a essere densi, dentro un corpo che ci contiene e ci garantisce la vita, poggiando i piedi al suolo che è lì che raccogliamo le forze e possiamo tentare di abbracciarci l’un l’altro senza scivolare via.

Se partissi da qui, forse, riuscirei a riconsiderare anche la mia me gravosa… va bene, mi sono convinta, riparto da qui: papereggerò!

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