Sono stata intervistata e per me non è la normalità, di solito le interviste le faccio io. Grazie all’ascolto e alla capacità di gestire la situazione dei miei intervistatori è stata un’esperienza molto piacevole. Non ricordo esattamente cos’ho detto, perché non c’era nulla di preparato, ma lo saprò appena la riascolterò in radio.
Ho smesso di preoccuparmi, per questo. Forse sono una sconsiderata, per questo. Nonostante ciò faccio affidamento soltanto su una cosa: la mia incapacità a fingermi chi non sono. Questo mi mette al riparo da qualsiasi strafalcione io possa dire.
Nel tempo le cose escono, quelle vere e quelle non vere. Non voglio preoccuparmi di quel che sarà, quindi se resto fedele alla mia piccola verità non corro rischi inutili. C’è una grande apprensione nel cuore di chi non sa affermare la propria piccola verità e si affida al proprio talento narrativo gonfiando la portata del racconto. Le cose poi sfuggono di mano e la valanga ti travolge. Preferisco evitarlo.
Io scrivo storie, racconto storie, ma non mi racconto storie. Sono limitata, finisco presto. Quello che sono fa capo a quello che faccio e quello che faccio non è memorabile, non è magnifico, è soltanto onorevole. Ecco perché chi la racconta troppo grossa mi fa dubitare. Ecco perché chi si proclama umile mi fa scattare come una molla dall’altra parte della stanza. Ecco perché non faccio leva sull’opinione che ho di me per presentarmi agli altri, soltanto sulla realtà che ho potuto/saputo costruirmi e che per me può parlare senza menzogna.
Questa è soltanto una riflessione di fine giornata, non vuole di certo essere una esternazione egoica per prendermi un applauso. Anche perché finché non sono io ad applaudire me stessa nessun altro applauso potrebbe convincermi di essere la persona che vorrei essere. Che tipo di persona vorrei essere? Semplice: una che vive senza paura di essere o non essere, avere o non avere. E resta sempre questo il problema, aveva ragione Shakespeare.