(1058) Fermata

Ogni tanto mi succede di perdere un po’ l’orientamento. Non so a che fermata devo scendere. Così non scendo e continuo ad andare. A volte mi domando se la mia fermata sia già passata – senza che io me ne rendessi conto – e se magari non sia il caso di tornare indietro. Rifare il percorso per verificare. Lo so, follia.

È molto probabile che io abbia fatto attenzione durante il viaggio, con l’ansia che mi contraddistingue è probabile che io abbia controllato tutte le mappe possibili e immaginabili per essere sicura di non scendere alla fermata sbagliata. È così probabile che per la maggior parte del tempo lo do per scontato. Ovvio. Non può essere. Eh.

Quando meno me l’aspetto, però, mi prende un guizzo di panico e mi faccio la domanda fatidica: non è che la fermata a cui dovevo scendere per caso sia già passata?

Ora, che io debba scendere e il perché debba scendere mi sembra neppure questione da discutere. Giusto? Sì. Certo. Ma se leggiamo tutto questo nell’ottica di un viaggio lungo una vita e quindi la fermata ultima è quella della morte, non sarò di certo io a decidere. Se, invece, vediamo il nostro procedere come un normale saliscendi dall’autobus e che a ogni fermata c’è qualcosa lì per noi, che ci aspetta, e quindi mancarne una è un vero peccato… ecco, il film cambia. Giusto?

Vedi che ci si perde a un certo punto del ragionamento? Si entra in un vortice spazio-temporale che non ha nulla a che fare con la realtà bensì con le supposizioni. E di supposizioni ci si può morire. Altroché.

Riprendendo il filo del discorso, agganciandomi al titolo del post, ho la sensazione di essermi persa delle fermate importanti. Ma ho anche la consapevolezza che io abbia volutamente tirato dritto perché non sembravano granché per quella che era la mia aspettativa. Con il senno di poi sono ancora più certa della giustezza di quella sensazione (anche se potrebbe essere una pura costruzione mentale per non mangiarmi le mani dal nervoso), rimane però in ballo la questione del: e se la fermata – quella giusta, quella per me – mi fosse sfuggita da sotto il naso e io – ignara e ansiosa – stessi proseguendo aspettandomi chissà quale meraviglia e invece non ci sarà niente?

E qui sale l’ansia.

Va bene. Facciamo così: alla prossima scendo e vedo cosa c’è.

Ok.

Forse.

Vedremo.

Eh.

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(852) Scontato

Entrare dentro i mondi delle persone è sempre questione delicata. Devi esserci portato o come ti muovi fai danni. Spesso le persone ti invitano e ti aprono la porta, ma soltanto perché non sanno i rischi che corrono. A saperlo, uno ci pensa più di una volta prima di farlo. 

Mi sono fermata spesso sulla soglia. Ho fatto fermare spesso le persone sulla soglia. Non so se ho fatto bene o male. L’ho fatto e basta.

Sono giorni che mi passa dentro un fastidioso aratro, non so che cavolo voglia scavare ancora, mi sembrava che il più fosse venuto in superficie. Sbagliarmi mi rende nervosa. Ieri non ho scritto nulla, oggi faccio fatica (si capisce?), forse dopo 850 giorni così me lo posso anche permettere, no? Scrivere non è scontato, neppure se non vorresti fare altro al mondo.

Conosco un migliaio di persone che continuano a ripetersi che un giorno scriveranno un romanzo. Raramente lo fanno. Scrivere non è scontato, è una scelta e una fatica. Seppur non vorresti fare altro.

Fatto sta che in questi giorni di aratura, mi infastidisce anche solo il pensiero che tra la tastiera e le mie dita ci siano degli spazi. Horror Vacui. Che ne so. Non ci dovrebbero essere spazi, ci dovrebbero essere soltanto parole, una attaccata all’altra come quando non esisteva la punteggiatura. Tu pensa che artista, però, chi ha inventato le virgole e i punti e gli spazi. Uno che del respiro e del ritmo ha saputo far altro che mera sopravvivenza.

Vabbé, riprendo il filo della non-logica di stasera. Sto vagando in questi spazi e le parole non mi si legano ai concetti, un po’ la febbre e un po’ che-ne-so-io, il punto è che non so come uscirne. Sono partita pensando ai mondi e alle persone che li abitano, ho pensato anche al mio mondo e a chi permetto di abitarlo e devo ammettere che pensarci  è già un inizio. Magari mi porterà da qualche parte, prima o poi. Oltre la soglia.

Dai, intanto oggi ho scritto. E non era proprio per niente scontato. Per niente.

 

 

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(835) Perfetto

Perché uno pensa che può essere felice solo se tutto è perfetto, si danna l’anima per far sì che tutto sia perfetto senza mai riuscirci, senza mai essere felice neppure per un istante. Il tempo passa, però. Perfettamente.

Stasera non sono stanca, di più. La prima settimana di rientro dopo la pausa natalizia è stata come essere sollevata da un tornado e provare a ballare la macarena senza ribaltarmi. Impegnativo.

No, non solo a livello professionale, anche a livello emotivo, perché il mio cuore e il mio cervello sono ormai talmente mescolati che non si distinguono più. Fatto sta che sono così e che funziono così e che non c’è niente che non mi tocchi e – molto spesso – quello che mi tocca finisce con il lasciare il segno. Impegnativo anche questo.

Eppure, tra tutto questo ho notato dei momenti perfetti che mi attraversavano da parte a parte e avrei voluto dire tanto e invece sono stata zitta, in contemplazione estatica. Come un incantamento. Perfetto. Sentivo una voce che mi riempiva con delicatezza ogni sbandamento per aiutarmi a restare in equilibrio. Non posso spiegarlo meglio, è tutto quello che so scrivere.

Eppure, in modo perfetto sentivo e mi ritrovavo fatalmente in accordo con quel sottile filo lucente che si dipanava da me all’ovunque che mi stava intorno. E allora posso affermare che perfetto è ogni istante in cui in presenza di me stessa so testimoniare della vita e di quel sentimento che a nominarlo fa paura eppure c’è. Eppure c’è. A occhi aperti e a occhi chiusi. Giorno e notte. Eppure c’è.

Mi sento quasi male a pensarci, la perfezione così com’è davvero (sottile e lucente) mi schianta il petto e le parole non sanno più che fare di sé stesse, se non posarsi qua e là con cautela, come se la terra bruciasse e tutta l’acqua del mondo non fosse sufficiente per chetare l’anima.

Perfetto.

Vero?

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(497) Oro

Mantenere la tua posizione quando senti che è giusta, vale oro. Fare un passo indietro quando ti accorgi che ti sei sbagliato, vale oro. 

Guardare negli occhi chi ti sta di fronte mentre affermi il tuo essere libero, vale oro. Fermarti e riconoscere che stai abusando della tua libertà per mortificare quella di chi ti sta di fronte, vale oro.

Ma quale oro? Non quello che si gratta dalle viscere della Terra, quello vale poco, non quanto le vite di chi consuma i suoi giorni affondato laggiù. L’oro è quel filo che ci percorre dai piedi alla testa e che ci tiene su, ci sorregge. Non si mescola al sangue, non lo puoi confondere con nient’altro. Lo vedi brillare in superficie in un bimbo che sbatte i pugnetti sul pavimento quando piomba giù al suo primo passo. Una bella culata, parata dal pannolone, non fa altro che rinvigorire il bagliore. Tempo due secondi ed è in piedi, quel nuovo tentativo non vale oro, è oro.

Mi sconvolge vedere che qualcuno lo ignora, che c’è chi non prende in considerazione quel filo d’oro che lo attraversa. Mi chiedo il perché. Forse non lo vede? Forse lo vuole negare? Forse pensa di averlo perso?

Se sto su, se sono in piedi, è per quel filo d’oro che sorregge ogni osso del mio corpo. Quel filo è sottile, sta facendo una fatica della miseria, ma ancora non si spezza. Sono sbalordita dalla sua forza. Riconoscerla ora, con la stanchezza che è sparsa ovunque, vale oro. Questa volta il mio.

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(390) Dicotomia

dicotomia /dikoto’mia/ s. f. [dal gr. dikhotomía “divisione in due parti”]. – 1. (filos.) [divisione logica di un concetto in due nuovi concetti distinti e contrapposti: la d. cartesiana mente-corpo] ≈ bipartizione, polarizzazione. ↓ divisione, separazione, suddivisione. ‖ antinomia, dualismo, dualità. 2. (estens.) [netta opposizione tra due entità, due punti di vista e sim.: una d. insanabile nella sinistra] ≈ contrapposizione, frattura, spaccatura. ↓ divisione, separazione.

Vediamo di fare il punto della situazione: non sempre so cosa voglio e non sempre quello che voglio è coerente con quello che sono. Di fronte a bivio di questo tipo prediligo la via che mi fa dormire sonni sereni.

Giusto precisare, però, che le cose che voglio e che non metto in atto sono pessime. Davvero pessime. Pessime non significa necessariamente oltraggiose, spregiudicate e bastarde (anche se non le escludo mai dalle opzioni), ma sicuramente da evitare perché inutili o dannose. Spesso mi immagino le scene in cui agirei in modo pessimo e me le costruisco nei dettagli, come se le stessi vivendo. A volte mi riesce talmente bene che mi sembra di averle vissute davvero, se arrivo a quel punto le archivio e non ci penso più. In questo modo ho evitato il carcere quando volevo menare a sangue una tipa o di finire sfracellata in un dirupo. Dico questo non per vantarmi, ma per far presente che se fino a ora non ho mai fatto cose di quel genere è perché ho scelto di non farlo. Per i miei motivi – né buoni né virtuosi – e questi motivi non è detto che siano a tenuta stagna. Non è detto che prima o poi non si frantumino lasciando il campo libero alla follia.

Bisogna far bene i conti con i sentimenti e l’emotività delle persone, giocare sul filo del rasoio non è cosa intelligente. La tolleranza ha un limite, la pazienza idem e il buonsenso non parliamone neppure. La stanchezza ti fa alzare le spalle e la noncuranza è cattiva consigliera. Il fastidio può portarti a sbroccare, la paura può trasformarti in un drago sputa fuoco. Ho reso l’idea?

Siamo tutti appesi a un filo, smettiamola di mettere alla prova la resistenza del nostro filo e quella degli altri, smettiamola di tormentarci e tormentare. Smettiamola di sputare sentenze, di sguainare il fioretto per infilzare il malcapitato di turno. Smettiamola.

 

 

 

 

 

 

 

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