Prenderei una bicicletta e mi farei un giro. Nei campi di quando ero bambina, che le gambe spingevano sui pedali a più non posso ed erano gambe forti e andavo veloce, più veloce del vento. Ho perso forza alle gambe, temo. Sarei lenta e pesante, sarei meno veloce nel mio andare. Il vento avrebbe la meglio sul mio corpo e la corsa ne sarebbe frenata. Temo.
Ma il vento in faccia mi farebbe pur sempre bene.
Invece devo affrontare una giornata che è programmata per essere una estenuante prova di nervi. A saperlo prima non serve a niente, non è che ti puoi preparare alla tensione, la vivi e stop. La anticipi più che altro, quindi già si parte con il mal di testa e con la voglia di spaccare tutto. Ma, elegantemente, si finge che sia tutto a posto. Perché anche se non convinci te stessa c’è pur sempre un contesto che deve essere rassicurato dal fatto che non sclererai.
Sì, un po’ di vento fresco di campagna, la campagna di primavera, mi farebbe bene.
Mi vengono in mente scene assurde, fughe improbabili e presagi di distruzione, insomma cosette del genere.
È mattina, non ancora le 8.00, non ho trovato traffico, ho trovato subito parcheggio (il mio preferito), mi sono ricordata di portare con me il mio caffè-guaranà (dose tripla) e sto prendendomi dieci minuti per scrivere della mia ansia e della mia frustrazione, della mia giornata che tutto sommato è iniziata bene e che si srotolerà come potrà e come dovrà.
Alla fine rimarremo io e il mio scrivere, per darci la buonanotte e per rincuorarci del fatto che è passata. Comunque sia cadrò in piedi e non sarò da sola. Rimango una fortunata, dopotutto.