(1076) Veleggiare

Non smettere mai di veleggiare, questo bisognerebbe tenerselo bene a mente. Se getti l’ancora sei fottuto. Questo bisognerebbe tatuarselo ovunque per non pensare di poter far finta di nulla e farla franca. 

Chi si ferma è perduto. Raramente i proverbi si sbagliano.

Lo so che la stanchezza ti fa fare scelte di comodo, che sembrano una comodità almeno, ma alla lunga le si paga tutte. La stanchezza è una brutta bestia. Quando sei stanco le cose ti escono dalla bocca in modo sgarbato, fai danni soltanto con un’occhiata di traverso. Quando sei stanco il mondo lo odi a prescindere. Tutto ti dà fastidio. Vuoi solo dormire. E dovresti farlo perché sei veleno allo stato libero che dove si posa fa danno. Dormire aiuta. 

Tutte le scelte che fai pensando di mettertela via e stare tranquillo ti si rivoltano contro. Ti sposi perché così ti risolvi il problema di trovare l’anima gemella, ti tieni quell’anima che hai e te la fai andare bene. Chiudi un sogno e ti adegui. Oppure ti fermi al lavoro che ti dà due soldi (sì, soltanto due, ci si vende per poco ormai) e ti fai passare sopra il rullo compressore ogni giorno, tanto più di così non hai trovato e alla fine del mese le bollette si devono pagare. Smetti di veleggiare, smetti addirittura di cercare il vento, smetti di proiettare te stesso sulla rotta che ti eri ripromesso di mantenere per costruirti una vita a tua misura. Soddisfacente. Semplicemente.

Veleggiare costa fatica, il movimento snerva, è vero. L’immobilità, invece, mummifica e non è che si soffra di meno.

Io sono stanca e non so se riuscirò a veleggiare, ma non è che la vita ti chiede il permesso prima di ribaltarti. E la vita non ha pietà. Rendiamocene conto una volta per tutte. 

Ok, vado a recuperare la bussola. Chissà dove diavolo l’ho messa…

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(478) Dolcetto

Ce la metto tutta a scovare l’aspetto consolante negli eventi bastardi. Ce la metto talmente tanto tutta da risultare patetica a me stessa. E non è affatto consolante. Nella mia stravagante forma mentis non è prevista la sconfitta totale. Francamente, non riesco a valutare una qualsiasi sconfitta come intera, completa, la considero sempre sconfitta per massimo il 97%. Sospetto il perché, però mi sembra una conclusione semplicistica e sono portata a pensare che non stia tutto lì.

Entra in ballo il concetto di umiltà, virtù della quale probabilmente sono sprovvista ma che ho in grande considerazione. Forse, quel 3% che ripara le mie sconfitte dall’essere complete è proprio il mio dolcetto. Lì ci metto quello che mi può tirar su un po’ il morale: il fatto che comunque ci ho provato, che comunque ho imparato qualcosa in più, che comunque se dovessi affrontare di nuovo la stessa situazione me la caverei meglio. Cose così, cose che mentre le pensi ti fanno sentire meno fallita, cose che ti racconti perché non vuoi infierire, hai compassione di te stessa e facendo un paio di conti non fai torto a nessuno se ti crogioli due minuti in quel benedetto 3% che ti concedi come premio di consolazione.

E non voglio dilungarmi sul fatto che nessuno mai ti offre un dolcetto quando crolli sconfitto, ti viene data una pacca sulla spalla che sa di pietà più che di comprensione, pertanto il dolcetto che riservi per te può essere il serbatoio segreto di energia a cui attingere quando tutto sembra finito.

Certo, se apri il dolcetto non trovi mai il biglietto della fortuna che ti fa fare la svolta, ma anche se disfatta mica sei così idiota da pensare il contrario. So con sicurezza che nessuna sconfitta se assorbita come totale, completa, intera, può portarti a un pensiero positivo, è sempre devastazione. E visto che di devastazione si può anche morire, scelgo una punta di arroganza zuccherina per ogni sconfitta che mi piomba addosso. Di meglio non so fare, purtroppo.

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(289) Annacquato

Te ne accorgi subito: se lo allunghi con l’acqua, sa di acqua. E l’acqua va benissimo, ma non se quella che hai davanti è una birra o una coca-cola o uno spritz (o-che-ne-so-io). Insomma, ci siamo capiti.

La questione – semplice e per questo disarmante – è che si tratta sempre di una mancanza di coraggio che si esplicita con un tergiversare, buttare fumo negli occhi, tirare in ballo cose che non c’entrano niente e… aggiustare con l’acqua quello che ti pare troppo forte per essere bevuto così com’è.

L’ho fatto ogni volta che ho provato una sorta di compassione (anche di rimbalzo), e a mia discolpa posso dire che sono ancora convinta di aver fatto bene perché colpire senza pietà non fa parte del mio carattere. Eppure la mancanza di coraggio non dovrebbe mai essere giustificata. Però, in un certo qual modo, la gentilezza – quella innata e sincera – dovrebbe essere sempre apprezzata perché cosa rara.

Ecco, quando mi si esplicita davanti l’ingratitudine anche violenta per un mio gesto compassionevole/gentile… bé, non è che mi viene proprio spontaneo porgere l’altra guancia. Infatti, giro i tacchi e me ne vado.

Così è se mi pare.

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