(949) Posa

A volte ci viene chiesto di metterci in posa affinché qualcuno ci possa scattare una fotografia mentale che diventerà il suo imprinting per far sì che noi, immortalati per sempre, non potremo più sfuggire da lì.

Ci capita più sovente di quel che pensiamo, spesso non ce ne accorgiamo se non dopo tanto tanto tanto  tempo che siamo stati congelati in quel gesto o in quel pensiero o in quel dettaglio. Quando ci arrivano le conseguenze spiacevoli, solitamente (e quelle arrivano sempre).

Il punto è che metterci in posa per la foto ci costa fatica, perché è un artificio e – se non sei un bel talento nella recitazione – l’artificio si sgonfia con nulla, basta una distrazione e puf… esci con gli occhi chiusi. Maledizione!

Vivere tutto il giorno in posa è una follia, credo sia impossibile per chiunque, anche per il più sgamato. Quindi di prassi veniamo colti di sorpresa e siamo ricordati per cose assurde che di noi qualcuno ha colto e che noi ignoriamo. Ma come? Non ti sei accorto del mio cuore enorme? No, ma sono sicuro che hai il naso che pende a destra… [delicatezze di questo tipo, intendo]

Diamo per scontato, allora, che nella testa degli altri (“perché gli altri siamo noi”  cit. Tozzi 1991) siamo qualcosa di talmente assurdo e diverso da come noi intendiamo noi stessi che a volte sarebbe meglio non saperlo. L’ignoranza è beata, lo dicevano i nostri nonni.

Bisognerebbe non farci caso, bisognerebbe essere fatti soltanto di luce e non di ombre così le foto uscirebbero bruciate… bisognerebbe fare qualcosa, lo so. Forse è meglio, però, non fare niente. Mandare al diavolo le pose e le foto e i fotografi e viverci serenamente perché tanto ogni originale è meglio di qualsiasi immagine mentale o reale che possa mai essere scattata.

Nei pregi e nei difetti, ovviamente.

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(352) Fotografia

Catturi un istante e lui rimane lì per farsi ricordare. E si fa ricordare non con un’interpretazione del tuo sguardo o con una variazione sul tema, no: esattamente così come tu lo hai guardato, amato, e saputo congelare nella tua mente.

Ho mille istanti che avrei voluto fotografare della mia infanzia, ma non l’ho fatto e mi si sono congelati dentro e non mi permettono di lasciarli andare perché se lo facessero io li dimenticherei.

E la mia mente è stanca di questo carico, che è prezioso ma per niente leggero. Certe volte spero di dimenticare, altre ho paura di dimenticare e allora scrivo. Ma le parole – per quanto siano contenitore ed espansione e immersione e volo e chissà cos’altro ancora – non sono un’immagine pura, sono un piccolo mostriciattolo in movimento che può manomettere il ricordo e renderlo opaco o sfocato o distorto. Un incubo si può trasformare in sogno e un sogno in un’ossessione da incubo e tu comunque non sapresti più da che parte sta la verità.

In una fotografia la verità è lì davanti a te, immobile e pura. Tutto lì. Tutto quello che stavi vedendo e che hai voluto catturare sta lì di nuovo davanti a te, per tutte le volte che lo desideri ti ci puoi infilare dentro e trovarci un rifugio che ha il tuo sapore. Non servono parole, basta che la guardi ancora e ancora e ancora e ti si calma lo stomaco, si placa la chiacchiera della mente e il cuore un po’ rallenta e un po’ rincorre i suoi stessi battiti cercando di doppiarli, forse con una certa dose di dolore, ma di quelli diluiti, come acquerelli.

Non lo so il perché, ma così sembra meno crudele. Sembra solo un po’ meno crudele e, spesso, questo ci basta. Ci può bastare. Almeno per un po’.

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