La velocità d’abituarsi al lusso (fosse anche un piccolo lusso) è immensamente più alta rispetto a quella d’abituarsi ad una mancanza (anche piccola). Sembra ovvio, ma può non esserlo nella pratica, soprattutto quando è il nostro benessere a crescere e assieme a lui la nostra noncuranza.
Una cosa, però, ho imparato in questi miei anni ed è qualcosa che mi ha messo fortemente in crisi, ovvero: quando per lungo tempo vivi con una mancanza, quando l’hai addomesticata, quando le hai tolto potere, quando l’hai tradotta in un semplice e piccolo vuoto… a quel punto capisci che puoi farne a meno.
Se puoi farne a meno, ed è un dato di fatto visto che sei sopravvissuta, allora significa che forse quella mancanza non pregiudica la tua esistenza (e questo è un bene), ma piuttosto pregiudica la tua felicità (e questo è anche un bene, perché la felicità è sempre un bene) e se reputi che quella felicità sia giusta per te allora sarebbe bene che tu la recuperassi.
Dato per scontato che ogni Essere Vivente ha il diritto sacrosanto alla felicità, allora bisogna anche valutare che la felicità può assumere diverse forme e un numero smisurato di colori. Ci sono felicità sane e felicità meno sane, altre proprio avariate, e la cosa che dovremmo fare – quella più intelligente – sarebbe prenderci cura della nostra idea di felicità.
Cos’è che ci rende felici? Perché? Già rispondere a queste due domande potrebbe risolverci la vita.
La pienezza della felicità non tiene conto delle mancanze, ma delle presenze. Ecco cosa voglio ricordarmi ogni giorno finché avrò respiro: le presenze, non le mancanze.
Ce la farò?