Cosa succede a chi resta? Chi resta qui mentre il Mito se ne va, cosa può combinare? Lo abbiamo visto in queste ultime settimane, quelle successive alla perdita di Kobe Bryant.
Non è mia intenzione parlare dell’uomo e neppure del personaggio, ne hanno parlato tutti e non serve un’altra voce in aggiunta (specialmente la mia). Vorrei, però, soffermarmi sulla comunicazione che ruota attorno a quel “dopo” che probabilmente ha un riverbero ben più potente se la vita che si è appena spenta ha significato tanto per tante persone sparse ovunque.
Molto probabilmente, tutti vogliamo diventare famosi per una questione di vita e di morte. Ciò che è la vita di una persona famosa (ricca e felice – così la immaginiamo, vero?) e ciò che è la morte (rumorosa e piena… nonostante il vuoto della perdita).
Se alla morte di Marilyn o di Elvis o di John Lennon, lo shock si è propagato veloce attorno al globo grazie ai media esistenti al tempo (tv, radio e giornali), ora la velocità e la portata enorme del web rende tutto più scenografico. Stordente e scenografico. Lo show della morte non è mai stato così ricco di commenti e di discorsi celebrativi e di video (tanti tanti tantissimi video) e di chi-più-ne-ha-più-ne-posti. E non lo si sente come troppo, ma come mai-abbastanza.
In circostanze come questa, la classe fa la differenza. L’omaggio contenuto in una forma che mantiene un certo rigore e, nonostante ciò, sa trasportare in sé un’emozione dignitosa e profonda vince su tutto. Credo che la Nike ci sia riuscita.
Non servono commenti, non servono spiegazioni.
Respect.