Tra una cosa è l’altra, tra una parola e l’altra, tra un’emozione e l’altra ci sono gli spazi bianchi. Bianchi perché vuoti? Vuoti perché pensiamo siano da riempire? Horror Vacui.

In realtà, gli spazi bianchi servono per staccare una cosa dall’altra, una parola dall’altra, un’emozione dall’altra. Altrimenti sarebbe tutto attaccato, un filo continuo e infinito. Non ci sarebbero pesi né misure, né accenti e intonazioni. Tutto piatto. Gli spazi bianchi danno volume, in qualche modo.

Solitamente non ce ne accorgiamo, ma quando mancano qualcosa ci fa risvegliare. Sentiamo che non va bene, non c’è respiro. Quando, invece, ce ne sono troppi non sappiamo dove appoggiarci e ci sentiamo scivolare via. Gli spazi bianchi sono solidi se posizionati giusti e ti risucchiano come sabbie mobili se ce ne sono troppi uno dopo l’altro. Intrigante sortilegio.

Alcuni di noi ne hanno troppi dentro, altri ne hanno pochissimi. Quelli bravi stanno in equilibrio. Siamo strane melodie difficilmente replicabili.

Credo che uno spazio bianco sia la nostra possibilità di essere tutto e niente in contemporanea. Senza che nessuno se ne accorga. L’apoteosi delle possibilità.

Ho letto un romanzo [“Almond. Come una mandorla” di Won-Pyung Sohn] dove il protagonista, affetto da alessitimia, notava gli spazi bianchi tra le parole e tra le righe, poi questa frase che mi sono annotata in un post it:

Qualsiasi cosa perde significato se la ripeti abbastanza a lungo.

Ci sto ancora riflettendo sopra, forse non qualsiasi cosa… forse alcune cose sì però.

Gli spazi bianchi che ci portiamo dentro e addosso non hanno un nome, a meno che tu non riesca a tracciarne i confini e ti ci vuole parecchio impegno, quindi sfuggono alla regola del significato. Possono non averne alcuno o possono cambiarlo assecondando il contesto, possono anche scomparire e poi ricomparire oppure sparire per sempre. Gli spazi bianchi non devono nulla, il loro potere è illimitato.

Basta sapere che ci sono, non serve altro.

Bello, vero?

🙂

 

 

 

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