Dare un nome per poi richiamare quel nome – portatore di presenza, di concetto, di sostanza – quando ne senti il bisogno è un privilegio degli Esseri Umani. Non solo ci rende un servizio indispensabile alla gestione del nostro vivere, ma sotto sotto ci dà la sicurezza che – anche se il mondo si dovesse rovesciare – noi prima o poi troveremmo di nuovo le cose che si sono perdute. E le persone che non ci sono più non smettono di essere, sono comunque presenti nella nostra mente oltre che nel nostro cuore appena le nominiamo. Una sorte di magia, vero?
La parte più delicata è stata trovare il giusto nome alle emozioni, ai sentimenti, a quei pensieri che fuggono da ogni catalogazione. Alcuni ancora ci risultano inafferrabili, ma con parafrasi o facendo un giro più lungo, alla fine ce la facciamo a individuarli e a fermarli con uno spillo come fossero farfalle.
Lo facciamo per bisogno d’ordine, vero, ma soprattutto per bisogno di controllo. La vita si muove senza posa, si intreccia, si ingarbuglia e noi con lei a starle dietro. Cerchiamo di bloccarla almeno quando le cose sono belle, cerchiamo di far durare quegli istanti un po’ di più, ma raramente ce lo lascia fare. Forse perché nel momento in cui ti abitui al bello, il bello smette di brillare adeguandosi ai tuoi occhi che ormai non vedono più.
Nominare qualcosa di brutto ti mette a disagio, come se lo stessi chiamando affinché si materializzasse davanti a te all’istante. Eccolo qui, ancora una volta quel sentore di incantesimo, quasi di maledizione. Abbiamo più paura di nominare il brutto che il bello, non è un caso, il brutto ci sente meglio ed è di bocca buona.
Il punto è che tutto ciò che non nominiamo s’ingigantisce nel nostro inconscio e ci avvelena con un sottile tremore dell’anima. Temiamo ciò che non sappiamo nominare, c’è in quel vuoto del suono un vortice che ci risucchia nella pancia dell’uomo nero. E noi bambini siamo senza speranza.
Ribellarci al silenzio omertoso non è più una scelta, rimane l’unica via.