Tutto quello che vogliamo è una piccola casa in cui rifugiarci. Vero? Poi quella casa la arrediamo come più ci piace, o semplicemente come siamo capaci, e ci rintaniamo per scampare al mondo che resta fuori. Che male c’è?
Diventa claustrofobico il nostro rifugio quando pensiamo che tutto quello che ci abbiamo messo dentro ci possa bastare. Non è così. Il mondo là fuori, nel bene e nel male, ci è necessario per riempirci. Non di cose, di esperienze.
Tutto molto semplice detto così, vero? Sì, ma perché dovrebbe essere tanto più complicato? Perché abbiamo così paura a ridurre il carico per poterlo sostenere? Pensiamo che sia troppo per noi e lo guardiamo sconsolati. “Mi dispiace, ma non ce la faccio”, ci prostriamo davanti a quel mucchio di roba che manco sappiamo riconoscere più cos’è. Siamo costernati davanti all’abbondanza.
Quando abbiamo meno siamo più focalizzati, vero? Less is more? Bah. Chi non ha niente potrebbe non essere dello stesso parere, suppongo. Fatto sta che rifiutando il mondo ci sentiamo rifiutati dal mondo. Un gioco perverso che non ci vede vincitori, ma sopravvissuti scontenti. Lamentosi. Rabbiosi. E dentro la nostra casa ci nutriamo di robaccia che attraversa l’etere per depositarsi nei nostri neuroni sfiniti.
No, non siamo felici, neppure dentro il nostro rifugio. Non siamo felici quando camminiamo per strada, non siamo felici quando raggiungiamo il picco della montagna, non siamo felici quando attraversiamo gli oceani baciati dal cielo. Non siamo mai felici. Ci risvegliamo, di tanto in tanto, e sorridiamo. Sì, ma quella cosa che senti in mezzo al petto e che ti fa posare sul mondo come una farfalla, quella cosa lì è lontana, così lontana da non sapere più neppure come desiderarla.
Forse non ho capito niente.
Neppure di quello che ho scritto.
Eh.