(976) Dipingere

Certo che i colori sono fondamentali. Certo. I colori parlano di chi siamo (come vediamo e come le cose ci fanno sentire), parlano di come vorremmo il mondo e di come viviamo il mondo e l’oltremondo. Certo. Pochi però si rendono conto che il pennello che usiamo per dipingere questo nostro “fuori” e il nostro “dentro” ha una determinata fattezza e che la dimensione e la disposizione e la quantità di setole di cui è composto pesano in modo consistente. 

Ci sono tratti sottili e precisi, altri grossi e pastosi, altri morbidi e acquosi e via dicendo. Il tratto sbagliato produce un risultato fuori tono. Lo percepiamo noi e lo percepiscono gli altri. C’è qualcosa che non va. Ma cosa? Beh, quella cosa lì. Hai usato un pennello a spatola anziché a goccia, o un tre al posto di un cinque, e hai rovinato tutto.

Mi rendo conto che l’ho presa di nuovo larga, ma la riflessione di stasera è che va bene dare una mano di colore, ma poi si deve andare di dettagli perché altrimenti rimaniamo imbianchini (e va benissimo) anziché diventare pittori. E dovremmo ambire a diventare pittori che sanno fare gli imbianchini, così non c’è parete che tenga noi sapremo sempre cosa fare. E cosa aspettarci.

Quindi, arrivata fin qui posso ammettere tranquillamente che sono in cerca di dettagli da dipingere (dentro e fuori) per una sorta di evoluzione del pensiero a cui non posso negarmi. Non è che so spiegarlo meglio, ma so cosa fare.

E ogni tanto sapere cosa fare è già qualcosa.

Eh.

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(34) Goccia

Quand’ero bambina sentii, in un discorso da adulti che non capivo, questa frase:

(…) la goccia che scava la roccia (…)

Non feci fatica a immaginarmi la scena, la riportai all’acqua sotterranea che sgocciola e schiocca facendo piccoli echi misteriosi dentro a una caverna quasi buia. Non ricordo dove quell’immagine l’avessi catturata, forse da una delle fiabe del mio libro preferito. Non lo so.

Questa goccia è rimasta con me per quarant’anni. Ha scavato la mia roccia interna creando degli stravaganti percorsi emotivi di cui a volte perdo le tracce. La Bellezza del lavoro di erosione è qui davanti ai miei occhi e non m’importa di considerare com’era prima che la goccia perpetua cadesse (e ancora cade).

In certi punti non riesco neppure più a ricostruire le fattezze della roccia originaria, tutta levigata e rotonda com’è adesso.

Alzando lo sguardo lo scenario mi affascina.

Colgo il gocciolìo nel mio orecchio interno e mi accorgo che lo posso trasformare in base ritmica sulla quale scrivere la melodia che più mi ispira in questo momento, nel punto preciso in cui mi trovo.

Le gocce sono tante e non smettono di cadere dentro di me lisciando con pazienza gli spuntoni e le crepe della mia roccia, trasformandomi davanti ai miei stessi occhi, ma lentamente. Con costanza, ma lentamente.

Mi reputo fortunata, fossi fatta di acciaio o di vetro non avrei ottenuto lo stesso risultato.

b__

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