Pensavo di dover lavorare molto per ottenere ciò che volevo. L’ho fatto, ma non sono mai riuscita a ottenere quello che volevo, mi sono sempre fermata un passo prima. Non lo so il perché.
Pensavo di dover impegnarmi molto per diventare ciò che volevo essere. L’ho fatto ma ancora non sono riuscita a essere ciò che voglio veramente essere. Non credo ci riuscirò mai.
Questa presa di coscienza non è recente, risale perlomeno a un quindicennio fa, eppure faccio fatica a digerire certe verità, mi ci vuole davvero molto molto tempo. Mentre passa il tempo faccio conti e bilanci, rimurgino, rivivo vicende e circostanze nella stanza buia delle memorie e mi tormento non poco. Il Perdite e Profitti non torna mai, ancora oggi non so come io abbia fatto a prendere 8 nel compito di ragioneria degli esami di maturità. Culo, non c’è dubbio.
Fatto sta che tutto questo struggimento senza fine, senza senso e senza possibilità di rivalsa perché ciò che è stato è stato, ha un luogo dove viene sospeso e per quel tempo in cui sono lì non esiste più.
Quel luogo è stretto e spaziosissimo, è profondo, altissimo e claustrofobico. Un luogo non sempre accessibile, non sempre comodo, non sempre solido. Fa caldo e fa freddo, è umido e secco. Un inferno, raramente un paradiso. Eppure, arrivo lì e non esiste più nulla di certo, il reale si rende effimero, l’effimero si concretizza.
Quella catarsi mi mantiene viva. Mi fa sopportare tutto quello che non sarò mai, tutto quello che non avrò mai, tutto quello che non oserò mai sognare, tutto quello che non so neppure di ignorare. Non lo so dire meglio, ma credo di essere fortunata.