(953) Genetliaco

Sto andando a letto e in questa giornata sono mille le cose che mi voglio tenere stretta. I visi splendidi dei miei compagni in ufficio, gli auguri di amici che sono lontani ma non poi così tanto nel cuore, la mia famiglia che ritrovo come rifugio e salvezza ogni santo giorno, un abbraccio importante… e la lista la potrei anche continuare ma non serve scrivere tutto, serve tenere al sicuro per ricordare quando il buio incombe.

E penso sempre che ci sono istanti importanti e che bisogna riconoscerli e dargli spazio perché l’Inferno dei viventi è feroce e non dorme mai, lo ha scritto meglio di tutti il Maestro Calvino.

Nascere è un privilegio che noi ben conosciamo, ma rinascere ogni anno (sopravvivendo al precedente) è forse la cosa più incredibile… come riusciamo a farcela? E, soprattutto, perché lo diamo per scontato?

Non credo si tratti di fortuna, non quella che ti cade dal cielo, ma non m’importa trovare un nome per definire meglio il miracolo perché tanto si compie con uguale potenza e uguale candore. Com’è possibile?

Porto con orgoglio i miei 74 anni perché li porto addosso un gran bene, ho ancora tante cose che voglio fare e ho la voglia di provarci e di crescere. Niente di tutto questo è scontato né regalato. Ci vuole tenacia per mantenere alta la fame di vita, è un lavoro che non finisce mai.

Mettendo tutto in conto, me la sto cavando onorevolmente.

Ovviamente c’è ancora un buon margine di miglioramento.

Daje.

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(952) Ospitalità

Dare accoglienza è uno dei grandi piaceri dell’incontro tra gli Esseri Umani. Noi  contemporanei ce lo siamo dimenticato. Sono cresciuta in una famiglia dove all’ospite veniva riservato il cibo migliore, i sorrisi migliori, e il tempo che lui stesso decideva bastasse. Ti mettevi a disposizione di qualcuno che poteva fregarsene di quanto risultava inopportuno o invadente, tu facevi comunque il tuo dovere. Se l’ospite ne approfittava, non riceveva più alcun invito. Ognuno a casa sua.

Questo imprinting è difficile da bypassare, ma non mi dispiace. Parla di totale rispetto dell’altro, in quanto persona ospitata, senza condizioni. Una cosa proprio generosa, una cosa senza senso per i criteri odierni. Ripeto: non mi dispiace affatto di aver imparato a tenere questa posizione, credo sia una grande lezione.

Ho anche imparato, sempre grazie alla mia famiglia, a come ci si deve comportare a casa degli altri: non toccare niente, non parlare ad alta voce, non occupare troppo spazio e non restare per troppo tempo. Il giusto. Seguendo ancora oggi queste semplici regole mi sento a posto con me stessa. Il rispetto non è una parola di concetto, ma di fatti. Piena di piccoli fatti che costruiscono e danno sostanza al concetto.

Sono stata fortunata a crescere in una famiglia che mi ha saputo guidare in questa visione dell’altro-che-non-sono-io. Molto fortunata.

Riflettendo su questo è ovvio che altre culture, altre usanze, altre tradizioni, altre teste possono seguire altre vie –  chi più pudiche, chi più sfacciate – e queste differenze possono causare tensioni e fraintendimenti con conseguenze spiacevoli. Possono. Eppure, se mi rifaccio al mio benedetto imprinting, lo posso comprendere e lo posso maneggiare senza per questo pensare che io sono nella ragione e gli altri – quelli diversi da me – nel torto. Perché il mio spazio me lo curo e me lo proteggo senza fare drammi, per piccoli spostamenti. Perché sono un Essere Vivente e in quanto tale sono in perenne movimento, perché la vita si muove dentro di me e con me (a volte anche contro il mio volere, ma sono una pigra, ormai è risaputo).

In poche parole: benvenuti a voi, chiunque voi siate… ma non sbattete la porta, parlate a volume normale e siate discreti, così che io vi possa accogliere sempre con enorme piacere. 

 

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(951) Priorità

Si fa presto a dire priorità. Al momento la mia sarebbe quella di prendere un aereo e volarmene un po’ in giro, per assorbire dagli occhi e dalle orecchie e dal naso e dal cuore il mondo. Davvero. 

E ora mi trovo a fissare una lista di cose da fare che seguono uno pseudo-ordine dettato dalle priorità. L’ho letto tre volte e ancora non mi capacito. Queste non sono le mie priorità, queste sono le priorità del mondo che mi sta attorno. Le mie si riducono a una sola ed è quella che ho scritto lì sopra. 

Quindi si procede come da manuale, si prende la lista e, una ad una, si spunta tutto ciò che riesco a fare appena sono riuscita a farlo. I pensieri che ci stanno dentro non sono una priorità, sono soltanto un mezzo. E anche qui ci sarebbe di che discutere: i pensieri non dovrebbero essere il focus del mio agire quotidiano? Non dovrebbero essere la materia principe del mio vivere? Temo di averli ridotti a strumenti di lavoro… mi servono per fare qualcosa. Non per Essere, ma per fare. E non ho messo la effe maiuscola apposta.

Nell’Antica Grecia sarei stata una filosofa o una schiava? Temo la seconda. Non è che mi faccia impazzire di gioia questa riflessione. Trovare un appiglio per tirarmi un po’ su il morale potrebbe essere fare una lista di pensieri che mi servono soltanto perché sono pensieri. Nient’altro. Una bella sfida…

Si pensa per pensare meglio, al di là di quello che poi si potrebbe concretizzare, no? Il pensiero ha una sua Dignità a prescindere dal suo esplicitarsi in fatti, no? Sì, credo di sì. Toccherà che ci rifletta meglio. 

Lo metto nella lista: priorità assoluta.

 

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(950) Performance

Come prima di uno spettacolo: la pressione aumenta e la tensione si fa densa e appiccicosa. Come avere dentro quella plastica d’imballaggio con le bollicine e tu le scoppi una ad una e non ti fermi finché non le hai passate tutte, una ad una. Come un presagio di disfatta, come una speranza di rivalsa, come un aereo da prendere. Ecco, così.

Se non lo hai provato non sai. Non sai che vorresti allontanarti da te il più in fretta possibile, che vorresti teletrasportarti in un altro corpo e un’altra mente, che vorresti delegare a chiunque ti passi davanti ogni singolo atomo della tua esistenza. Lasciatemi in pace, finitela di tormentarmi.  Ecco, così.

E c’è, come sempre, un buon modo di affrontare questo stato d’animo e uno meno buono. C’è uno pessimo e uno ancora peggiore. Le variazioni sul tema possono essere diverse e di diversa consistenza, dipende da quanto vogliamo pensarci e da quanto siamo disposti a sbatterci per sistemare le cose dentro di noi. Ci vuole metodo anche nel fare le pulizie. 

Allora, so benissimo che è soltanto un passaggio, che in linea di massima non sto così tutto il tempo, e che tra qualche giorno si sistemeranno le cose e io potrò finalmente scrivere. Lo so. Eppure rimane il dubbio che l’Apocalisse si presenterà alla mia porta e che suonerà con tono allegro fingendo di essere lì per caso e che tutto finirà in un istante, le mie paure più bastarde si concretizzeranno in contemporanea e mi toglieranno il senno. 

So anche che tutto andrà bene appena sentirò in un angolo del mio orecchio Lucio Battisti che mi canticchia “lo scopriremo solo vivendo” e io avrò la voglia matta di dargli una testata. Solo allora avrò ripreso possesso di me stessa. 

Attendiamo pazientemente.

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(949) Posa

A volte ci viene chiesto di metterci in posa affinché qualcuno ci possa scattare una fotografia mentale che diventerà il suo imprinting per far sì che noi, immortalati per sempre, non potremo più sfuggire da lì.

Ci capita più sovente di quel che pensiamo, spesso non ce ne accorgiamo se non dopo tanto tanto tanto  tempo che siamo stati congelati in quel gesto o in quel pensiero o in quel dettaglio. Quando ci arrivano le conseguenze spiacevoli, solitamente (e quelle arrivano sempre).

Il punto è che metterci in posa per la foto ci costa fatica, perché è un artificio e – se non sei un bel talento nella recitazione – l’artificio si sgonfia con nulla, basta una distrazione e puf… esci con gli occhi chiusi. Maledizione!

Vivere tutto il giorno in posa è una follia, credo sia impossibile per chiunque, anche per il più sgamato. Quindi di prassi veniamo colti di sorpresa e siamo ricordati per cose assurde che di noi qualcuno ha colto e che noi ignoriamo. Ma come? Non ti sei accorto del mio cuore enorme? No, ma sono sicuro che hai il naso che pende a destra… [delicatezze di questo tipo, intendo]

Diamo per scontato, allora, che nella testa degli altri (“perché gli altri siamo noi”  cit. Tozzi 1991) siamo qualcosa di talmente assurdo e diverso da come noi intendiamo noi stessi che a volte sarebbe meglio non saperlo. L’ignoranza è beata, lo dicevano i nostri nonni.

Bisognerebbe non farci caso, bisognerebbe essere fatti soltanto di luce e non di ombre così le foto uscirebbero bruciate… bisognerebbe fare qualcosa, lo so. Forse è meglio, però, non fare niente. Mandare al diavolo le pose e le foto e i fotografi e viverci serenamente perché tanto ogni originale è meglio di qualsiasi immagine mentale o reale che possa mai essere scattata.

Nei pregi e nei difetti, ovviamente.

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(948) Particolarmente

Sono particolarmente attenta gli sguardi delle persone. Dove si fermano, intendo, particolarmente dove si fermano. Credo mai a caso, credo ci sia anche quando inconscia un’intenzione. Anche quando stai soltanto cercando di focalizzare un pensiero e i tuoi occhi si fermano in un punto in aria o in terra o all’orizzonte. In quel micropunto di posa c’è la sospensione di tutto. Affascinante, vero?

Sono particolarmente affascinata dalle questioni come: scegliere, decidere, agire. Ognuno di questi verbi si porta addosso un carico notevole, in positivo e in negativo, e osservandoli da vicino, e ancora più da dentro, le variabili intrecciano i Destini degli Esseri Umani come in un telaio antico, con un certo rigore di successione e con una precisione rassicurante.

Sono particolarmente irritata dalla deresponsabilizzazione praticata ad oltranza, calpestando il buonsenso, l’etica e il pudore. E soprattutto, soprattutto, pretendere di essere riconosciuti vittime delle circostanze (ma intelligenti, soltanto un po’ sfortunate) perché così vien facile avercela con gli altri. Chi? Tutti gli altri, ovvio.

Sono particolarmente stanca di immersioni nel passato che tolgono forza al presente. La mia ossessione di dimenticare qualcosa che mi ha attraversato ha superato di un bel metro il livello massimo consentito, quindi credo che prenderò la decisione delle decisioni e la prenderò ora. Basta.

E se manterrò la mia posizione e riuscirò ad avanzare, sarò particolarmente fiera di me.

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(947) Anestetico

A un certo punto si inizia a capire che c’è bisogno di anestetizzarci un po’ per le cose che ci portano scompensi. Soprattutto emotivi, che sono i più fastidiosi perché non colpiscono mai un punto soltanto, ma si propagano fin dove neppure li vedi e son cazzi a sistemare tutto. Quindi, in età pre-adolescenziale inizi ad alzare le spalle, poi impari a farlo con più discrezione distogliendo l’attenzione e pensando ai fatti tuoi e poi chiudi proprio la porta appena ti accorgi che lo scompenso si sta per presentare sulla soglia.

L’anestetico funziona, ci permette di sopravvivere. Ha, come ogni farmaco, anche effetti collaterali obbligatori. Anche brutti. Uno fra tutti è che senti di meno. Senti tutto di meno. 

Perché ti anestetizzi ma non è una puntura che fai nel punto che decidi tu, lo spargi dentro di te random e da qualche parte andrà. E lui va. Va dappertutto. Significa che il tuo corpo ogni volta dovrebbe disintossicarsi per ritornare quello di prima, ma una volta che sai come attivare la procedura di addormentamento dei sensi perdi il controllo, la usi a sproposito e non te ne liberi più. L’anestetico sparso ovunque fa il suo mestiere: anestetizza. Ogni parte di te che incontra. Senza pregiudizi, senza cattiveria. Prende quello che c’è e potrebbe prendersi tutto. 

Piano piano, ovviamente, e puoi anche non accorgertene. Piano piano, ma in modo sistematico e senza ritorno. A meno che non succeda qualcosa di veramente traumatico che ti risveglia. Una disintossicazione violenta, diciamo. 

La vecchia abitudine non muore però e, appena puoi, ritorni all’uso smodato. E non sentire è brutto, non sentire niente dev’essere davvero brutto. Quell’inferno consolatorio di chi ha abbracciato l’indifferenza come filosofia e ha giurato di farla pagare a tutti. Chi c’è c’è. 

Evviva.

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(946) Piccante

Ci devi fare il palato. Ma ci vuole anche una certa predisposizione. Devi riuscire ad andare oltre al pizzicore e cercare l’aroma che sta dietro. Una sfida che può anche prenderti la mano perché si insinua una sorta di assuefazione e più ti spingi oltre e resisti e più la soglia del fastidio si alza e la tua mente si abitua. Magari non il tuo corpo che ha comunque delle reazioni, ma la tua mente può resistere enormemente in situazione ben peggiori. 

In linea di massima va così.

Puoi tranquillamente settare la tua esistenza su sapori accoglienti e tranquillizzanti, ma poi non ti lamentare che stai morendo di noia. La tua mente urla e tu fai come se fosse lei a sbagliare qualcosa, troppo attaccato a quel tepore a cui l’insipidezza ti ha abituato. Ma sei assuefatto e anche in questo caso ti spingi oltre, varcando la soglia dell’astenia, e la tua mente si addormenta.  

In linea di massima va così.

Ma se provassi, una volta sola, ad accettare una piccola sfida, a fare un passo di lato e a guardare la cosa da un altro punto di vista, a mettere del peperoncino in una giornata qualsiasi di un anno qualsiasi ad un’ora qualsiasi soltanto per vedere come può andare a finire e magari scoprire che non finisce un bel niente, che non ti finisci tu. Anzi. È lì che inizi tu. Allora che scoperta sarebbe? Che cosa potrebbe succederti? Eh…

In linea di massima di tutto. Ma proprio di tutto. E di’ la verità: non sei curioso di scoprirlo?

Io sì, ogni giorno. Amo il piccante.

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(945) Vie

A ognuno la sua, innegabile. Per fortuna, perché già individuare la propria è un casino, figuriamoci prendere in carico quella di qualcun altro. No, non si fa. Eppure si è tentati, perché mettere a posto le vie degli altri sembra essere per noi un’occupazione ben più interessante dell’impegnarsi a badare alla propria. Tutti bravi con la via degli altri, eh?

Ci stanno i consigli, perlamordelcielo, ma fino a un certo punto. Soprattutto considerando che mica sai cosa passa dentro la testa e il cuore di chi ti sta di fronte, neppure di te sai dare le coordinate precise, sii sincero!

Il punto è che lo auguro a tutti di poter percorrere la propria via, senza dubbi e senza distrazioni. Di camminare dritti, passo sostenuto ma non troppo, godendosi il paesaggio e raccogliendo tutto quello che sia utile per proseguire e stare bene. Perché no? Il benessere degli altri non toglie nulla al mio benessere. E quando si sta esattamente dove è scritto che dobbiamo stare, al nostro posto, non abbiamo di certo voglia né tempo di andare a rompere le scatole agli altri. Un gran vantaggio per il resto dell’Umanità.

Ho camminato diverse vie sentendomi sempre fuori luogo, finché non ho trovato la mia. E la volevo più agile e più luminosa così da non inciampare continuamente, ma le regole del gioco non le faccio io e ci si deve adeguare. Ho capito che comunque va bene così perché almeno tutto quello che affronto ha un senso e mi sta facendo avanzare. Insomma, non sto combattendo per nessun altro se non per me stessa e questo è un grande privilegio.

Immagino che non ci sia una via completamente priva di ostacoli, ma credo che sia per tutti fondamentale trovare il disegno che ci determina per riuscire a saltarli uno dopo l’altro con la determinazione che serve. Senza mai mollare.

Senza mollare mai.

 

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(944) Bacchette

Sì, quelle che usano gli orientali per mangiare. Un’arte di cui bisognerebbe appropriarsi perché porta in sé un sacco di cose buone. La lentezza, per esempio, e giusta quantità, concetti che con le nostre forchette si vanno a perdere sistematicamente. Quindi, ribadisco, noi occidentali dovremmo allenarci a usare le bacchette.

All’inizio c’è la curiosità: come diavolo le devo impugnare?

Questo ti impegna per un po’ perché devi trovare il tuo modo comodo ed efficace per tenerle in mano e farne qualcosa di utile. Tipo mangiare.

Poi c’è il dubbio: come diavolo devo afferrare il cibo senza farlo scappare via?

Qui si tratta proprio di training alla Karate Kid (dai la cera/togli la cera) perché se non provi non puoi capire quanto il cibo che vuoi ingurgitare sia in realtà refrattario alla tua intenzione. Alla prima distrazione sparisce.

Se riesci a venirne a capo (non importa in quanto tempo, non perderti d’animo su!), allora arriva la soddisfazione di riuscire a farti entrare in bocca senza usare le mani dei medi/piccoli pezzi di cibo, e per la fatica disumana che hai fatto ti prendi tutto il tempo che serve per masticarli e sentirne il sapore.

Bingo: il concetto di lentezza è finalmente tuo.

Non te ne sei neppure reso conto, nel frattempo, che se prendi pezzi troppo grandi devi tagliarli coi denti e perdi concentrazione e il resto ti sfugge e che se raccogli un chicco di riso o di mais per volta ti ritrovi solo al tavolo perché la gente c’ha una sua vita e non la vuole sprecare guardando te che ti nutri. Non te ne sei reso conto, ma dentro di te cade, come una pietra fondante, la consapevolezza che se non raccogli il pezzo della giusta dimensione e nella quantità giusta sarai travolto da conseguenze snervanti che ti faranno diventare una brutta brutta brutta persona.

Bingobis: ora sai che il troppo e il troppo poco non vanno bene e che la ricerca della giusta quantità è lo scopo della vita. Di qualsiasi vita.

Le bacchette sono Maestre in questo: insegnano mentre sei impegnato a nutrirti e quindi non sei più concentrato su quello che pensi ma su quello che fai per sopravvivere. Se qualcuno ha nascosto tutte le forchette che c’erano in giro. Ovviamente.

 

 

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(943) Atmosfera

Non ce ne rendiamo conto, ma l’atmosfera è tutto. E quando dico tutto intendo proprio tutto: ogni nostra reazione dipende dall’atmosfera in cui siamo immersi. Molte volte la subiamo, altre la diamo per scontata e non facciamo nulla per modificarla, altre volte la combattiamo selvaggiamente senza un minimo di lucidità, di strategia. Ripeto: l’atmosfera è tutto.

Spiegare questo concetto mi è difficile, ma se entriamo in un luogo dove non ci sentiamo a  nostro agio non è che possiamo pretendere troppo da noi stessi. Siamo comunque in modalità c’è-qualcosa-che-non-mi-torna, e stare sulle spine in attesa di un’imboscata non ti aiuta a dare il meglio di te. Mai.

Se ci sentiamo sotto interrogatorio, reagiamo male. Se la conversazione fluisce naturalmente, potremmo rispondere anche alle domande più delicate senza sentirci a disagio e senza essere infastiditi.

Creare l’atmosfera giusta ti permette di non entrare in conflitto con chi ti sta di fronte, ti aiuta a instaurare una conversazione basata sul rispetto reciproco.

Se sei pronto ad azzannarmi, non ti mostro il collo. Chiaro? E le intenzioni che esplicitiamo con il nostro corpo sono talmente evidenti anche senza bisogno di parole che diventiamo addirittura ridicoli quando pensiamo che gli altri non se ne accorgano. Credo che perdere il controllo della propria emotività sia poco dignitoso, ogni volta che mi capita vorrei sprofondare dalla vergogna. Ma non posso distogliere lo sguardo da quella me stessa che grottescamente si arrabatta per dire la sua. È lì che devo lavorare più duramente, perché dare agli altri il peggio di me mi fa stare male.

Eh.

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(942) Stallo

Calma piatta. E questo mi fa innervosire all’inverosimile perché so che è preludio di qualcosa e so che quel qualcosa potrebbe non piacermi. Al terzo giorno (sa di biblico, lo so, ma non ci posso fare nulla è così) il nervoso diventa incazzatura perché ogni atomo utile di creatività se n’è andato a quel paese sbattendo la porta e senza salutare. Dovrei stare calma, ci sono già passata. E invece no.

Mi sento la più miserabile anima di questa terra, senza alcuna speranza di elevarmi a creatura meritevole di compassione da qui all’Eternità (e l’Eternità può durare un sacco di tempo, lo sappiamo tutti).

Non piango, non parlo, non do segni di vita. Solo mi incazzo ancora di più. E la calma piatta si è ormai trasformata in stallo. Grande. Enorme. E-N-O-R-M-E. E non è che ho voglia di parlarne, non è che ho voglia di sviscerare la questione, non è che ho voglia di incontrare gente e fare cose. Voglio solo dormire. Dormire in un oblìo total black, che sta bene su tutto e comunque slancia.

Mentre dormo, molto probabilmente, gli incubi proliferano facendomi alzare al mattino con un mal di testa epocale e le ossa rotte. L’umore non migliora di certo in queste condizioni, e chiunque mi si avvicini rischia la vita. Sono arrivata all’ultimo stadio, chiamato: il-mondo-non-mi-merita.

Badate bene, potrebbe sembrare una cosa orrenda, ma è il segno che qualcosa sta per sbloccarsi. Parte con la presa di coscienza che il mio genio non sia riconosciuto da questa società pusillanime e quindi è inutile che io mi prodighi per aiutare il mondo a fare un salto quantico. Tutto inutile e anche doloroso.

Ripeto: sembra orrendo come sentimento, ma non lo è del tutto. Ovvio che non ci credo, però è un modo per buttare fuori l’incazzatura. Ok? Ognuno c’ha il suo, io ho questo (che è meglio che tirare pugni in faccia al primo che capita). A questo punto della storia mi metto davanti a un foglio con i miei pennarelli e duemila penne diverse (tutte nere e viola, ma diverse per tratto e sfumature) e butto giù quello che per giorni ha intasato le mie sinapsi esaurite. Tutto. Tutto quanto.

Dopo due/tre ore di lavoro forsennato e benedetto, come se non ci fosse un domani, alzo la testa e penso che questo è un mondo meraviglioso in cui vivere. Un mondo dove pennarelli e penne e carta e pensieri possono trovare una via per congiungersi e lasciare traccia di sé.

Lo so, sono pazza. Però anche ‘sto giro ho superato lo stallo.

Daje.

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(941) Omologarsi

Ancora non l’abbiamo capito, ma decidere di omologarsi a un ideale che per natura non ci aggrada ci rende la vita un inferno. Pensiamo che così facendo ci eviteremo discussioni e scontri con chi ci sta attorno, invece decretiamo la nostra morte cerebrale. Giorno dopo giorno, senza fine fino alla fine.

Nessuno ci verrà mai a dire: “Smettila, ritorna com’eri, padrone di te stesso e delle tue scelte”. Nessuno.

Quelli più fortunati ricevono una bella botta in testa e rinsaviscono, rendendosi conto di quanto quella loro vita priva di scossoni sia una bella bara che non porterà a grandi sorprese o emozioni sfavillanti, mai. Proprio mai.

Da questa riflessione potrebbe scatenarsi una vitale ripresa dell’Anima, che approffittandosi dello spiazzamento neuronale si rialza e ci fa fare una pazzia. Una di quelle che ti cambiano tutto, migliorano il tuo umore, la considerazione che hai di te stesso e la voglia di credere che sta a te decidere cosa e come apparecchiare i tuoi anni. Da subito.

L’omologazione a un’idea, a uno status sociale, a una visione dell’oggi e del domani è un deresponsabilizzarsi, un delegare a qualcun altro doveri e anche diritti che sono soltanto due facce della stessa medaglia. Medaglia che parla di te.

Se vuoi sapere quanto ti sei omologato a quel che hai attorno, prova a chiederti di cosa potresti fare tranquillamente a meno. E aggiungi nelle opzioni anche te stesso, così sarà più interessante scoprire chi vince.

Siamo una specie che ha fatto dell’adattarsi la regola base per la propria sopravvivenza, ma forse abbiamo esagerato. Forse pensiamo che sia più importante sopravvivere e farlo più a lungo possibile, piuttosto che rimettere in pista il proprio cuore ogni mattina e spingerlo a prendersi quella vita che non è mai ovvia, mai banale, mai come tutte le altre.

Forse non è così.

Forse si può fare di meglio.

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(940) Falchetto

Il falchetto che è in me ha vista lunga. Mi riscopro, di tanto in tanto, come quella che ci aveva già pensato e che ora sa cosa fare perché… ci aveva già pensato (e in tempi non sospetti). Una gran bella soddisfazione!

In realtà, la mia fame di conoscere cose che non conosco – anche random – mi ha aperto più di qualche volta a esperienze interessanti che mi hanno fatto crescere in autoconsapevolezza e competenza. Non tutto, è vero, ma tanto. Davvero tanto.

Se dovessi elencare ogni volta che ho letto un articolo o l’altro, che ho acquistato un libro o un altro (senza ancora leggerlo per di più!), soltanto sulla base di un vago e ipotetico questo-potrebbe-essermi-utile non finirei più. Forse il mio essere onnivora e curiosa comporta una certa dispersione di energie, ma in fin dei conti stare senza far nulla non sono capace, specialmente per la salute del mio cerebro che è meglio abbia da fare o parte per la tangente e chi lo ferma più.

Proprio ieri ho scoperto che ho bisogno di saperne di più su un dato argomento, che quasi tre anni fa reputavo foriero di nuovi progetti. Ecco, ricordandomi a spanne i titoli di un paio di e-book che mi ero downloadata li ho prontamente recuperati (Kindle, ti amo!) e son due giorni che studio come una matta. Con immensa soddisfazione. Sì, sono senza speranze.

Il morale si è ristabilito a un livello decisamente buono, le sinapsi stanno ricominciando a ingranare, credo di aver superato il tunnel anche stavolta e non ho intenzione di fermarmi fino alla prossima batosta.

Adelante Sancho!

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(939) Target

Ogni tanto sarebbe bene guardarsi come target del nostro agire. Nel senso che ci dovremmo considerare i destinatari del nostro fare/non fare e pensare/non pensare. Secondo me sarebbe un bell’allenamento. Ci preparerebbe ad affrontare ogni circostanza ci si presentasse davanti.

Quando capita di pensare cose che ci creano degli scompensi, nel senso che non ci fanno stare bene con noi stessi, ecco – forse – è perché non stiamo dando soddisfazione a quelle aspettative che ci siamo fatti crescendo come siamo cresciuti (lo so, un po’ contorto, ma portate pazienza).

Siamo scontenti di noi stessi, ci stiamo deludendo alla grande, ma ce la prendiamo con il resto del mondo. Noi (come target del nostro fare/non fare) siamo insoddisfatti non soltanto del risultato ma – forse e soprattutto – di quello che abbiamo fatto/non fatto per raggiungere quel risultato. Non è la risposta del resto del mondo che ci rende infelici, ma quello che abbiamo fatto/non fatto per arrivare fin lì. Complicato? Solo se lo si concettualizza, non se lo si pensa applicato nella pratica.

Nel mio caso, quando non reagisco con prontezza e mi perdo in elucubrazioni senza senso mi do sui nervi. Il risultato è che non solo perdo mordente nella situazione specifica, ma pure mi innervosisco per essere evidentemente un’incapace. Le aspettative che ho nei confronti di me stessa vanno a franare miseramente e mi incazzo. Con chi? Con il resto del mondo – ovviamente – e con me.

Se mi immaginassi target della mia comunicazione, mi tratterei con più cura. Mi immedesimerei con più partecipazione perché fallire l’obiettivo sarebbe per me insopportabile. Un’assurda iperbole, ma vera più del vero.

In poche parole mi tratto peggio di quel che farei con un cliente che mi chiedesse di occuparmi del suo personal brand. E ho detto tutto.

Sì, dovrei fare le valigie e andarmene da me. Non mi merito affatto.

 

 

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(938) Recidivo

Non vediamo le cose per come sono, vediamo le cose per come siamo.

Anaïs Nin

È la condanna, senza sconti, senza scampo. Ci ricadi, non c’è niente da fare. Magari non con le stesse modalità e non con le stesse conseguenze, ma ci ricadi. Tu pensi che sia diverso, che le nuove premesse che ti erano state presentate fossero garanzia di nuova situazione e invece no. Vivi in loop la stessa situazione che ti porta allo stesso risultato. E la delusione ti sommerge. E l’amarezza.

Decidere di fidarsi, decidere di affidarsi, decidere di restare, decidere di continuare a fare e a crederci. Poi tutto frana e tu ci rimani sotto. Inevitabile, le cose franano prima o poi. Inevitabile.

E quando stai lì sotto ti manca il respiro, il panico ti congela e cerchi forsennatamente dentro di te una via d’uscita. Prima al panico e poi alla situazione. Inevitabile.

E non è che ti sei dimenticata di quello che è stato, che ci sei già passata e che sei già una sopravvissuta, ma pensavi che fosse finita. Che non ci saresti ricascata. Nella fiducia, nell’affidarti, nel restare perché ci credi. Forma mentis da smantellare, si può? E si può vivere bene aspettandosi sempre che tutto frani da un momento all’altro? 

È il pensiero, che recidivo, continua a sistemarsi su quel concetto base malsano: le premesse erano diverse. Però peccare di buonafede non ti toglie alcuna responsabilità, al massimo ti rende patetico. E qui si cade nel tunnel dell’autocommiserazione. Il che non aiuta di certo. Damn.

Ultima considerazione: vagliare la possibilità di prenderla meglio. Così. Semplicemente. Un appunto che lascio sulla mia scrivania e che potrebbe tornarmi utile appena il panico si deposita sul fondo, lo sguardo si stabilizza e la soluzione si palesa. Perché credo che me la caverò anche stavolta.

Si può smantellare la propria forma mentis? Non credo.

 

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(937) Rapire

Qualcosa che rapisce la tua attenzione è davvero qualcosa di speciale. Speciale in qualsiasi modo lo si voglia intendere, speciale e basta. Rapire l’attenzione ha a che fare con il vento, secondo me. La tua attenzione è trasportata altrove da te, ti dimentichi tutto perché in quell’istante qualcosa ha attratto ogni tuo pensiero convogliandolo su di sé. 

Solitamente lo fa la Bellezza.

È una bella sensazione, esci da te e vieni assorbito da qualcosa che – molto probabilmente – non conosci ancora, non così bene almeno da poterla dare per scontata. Esci e ti perdi. Può durare dieci secondi oppure due ore (se il film è fatto davvero bene), sei in un altro mondo. Fuori da tutto, fuori da te.

Rapire lo sguardo di qualcuno è un privilegio.

Siamo distratti da troppe cose e poco propensi ad appoggiare la nostra attenzione su qualsiasi cosa per troppo tempo. C’è sempre qualcosa di meglio, sembra che ci sia sempre qualcosa di meglio che ci aspetta. Aspetta proprio noi. Perché dentro di noi pensiamo che ne valiamo la pena. 

Non è un verbo felice, rapire, ma se lo si accompagna a “attenzione” riacquista luce. Si crea un cortocircuito di significato che ti predispone alla meraviglia.

Basta che glielo permettiamo. Di tanto in tanto. Ovvio.

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(936) Empirico

Ovvio che noi abbracciamo, empiricamente parlando, ciò che riconosciamo come reale perché frutto della nostra esperienza diretta. Posizione saggia, ma parziale. Se ci evitiamo di sperimentare cose nuove, escludere tutto ciò che non abbiamo incontrato e attraversato diventa pericoloso. Il mondo ci sovrasta, che lo vogliamo oppure no. 

Non credo che l’Essere Umano agisca per sentito dire, sulla base di quello che gli altri affermano, penso che soltanto se hai fatto esperienza – magari in altro modo e con altri risvolti – di quella cosa che stai ascoltando, allora sei anche disposto ad agire. Perché agire costa fatica. E comporta un certo rischio. Noi siamo pigri e paurosi di default.

Sarebbe il caso, piuttosto, di riflettere sul come affrontiamo e attraversiamo le cose della vita, sul quanto siamo disposti a esperienziare e su come digeriamo l’esperienza: traendone vantaggio oppure subendone le conseguenze. La prima opzione ci gratifica, la seconda ci mortifica e ci crea frustrazione.

Quanto siamo stati gratificati e quanto mortificati durante la nostra esistenza?

Ognuno di noi potrebbe scriverci un libro, in realtà ognuno di noi si scrive il proprio anche senza bisogno di penna e quaderno perché siamo noi il nostro libro che vive, respira, cresce, invecchia.

Empiricamente parlando, limitare le esperienze che siamo disposti ad affrontare a una lista rigida dove tutto è sotto controllo, non significa che sappiamo come va il mondo, ma soltanto come va il nostro micro-mondo quando segue le nostre regole. Gli imprevisti ci colpiranno comunque, però, e questo bisognerebbe tenerlo presente.

Condividere il proprio bagaglio di esperienze con quello degli altri ci permette di non includere qualsiasi cosa nella nostra lista, ma di trarre del buono anche dalle storie di chi ha già imparato in prima persona quella lezione. La condivisione è un’astuzia che ha sempre funzionato, basta essere intelligente per approfittarne.

Il segreto, infatti, rimane uno soltanto: essere abbastanza intelligenti per riconoscere le opportunità e farle proprie quando queste si rivelano utili.

Sempre empiricamente parlando, ovvio.

 

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(935) Resurrezione

Sai cosa si fa quando non se ne può più? Si cambia.

(Alberto Moravia)

E ci sono cambiamenti sottili che preparano quelli più importanti, comunque sia il processo è irreversibile. Un riposizionamento, un rinnovamento, una resurrezione. Questo è il cambiamento di cui parlo.

Non divento un’altra persona, divento meglio quello che sono perché lascio andare vincoli e filtri che fino a ora mi hanno intrappolato, mi hanno fatto assumere sembianze innocue e neutre che potessero mettere a proprio agio gli altri, quelli che vanno in crisi davanti al valore del loro prossimo.

Una resurrezione presuppone una morte. La morte di quel che era la mia armatura fino a ieri, la depongo vuota per girare nuda. La forza della nudità di pensiero che metto in campo senza più il timore che venga considerata debolezza è la nuova scoperta. Una rinnovata libertà, senza né porte né finestre.

Non torno tra gli altri per risistemarmi nella mia casellina, parte dell’archivio umano, ma mi permetto di girare tra gli scaffali e mettermi un po’ dove mi pare, magari non troppo a lungo, se non serve. Se non serve.

L’utilità di questo muovermi dovuto alla mia resurrezione è fine a sé stesso, non ha obiettivi di conquista del pianeta o di arrampicate verticali dove arrivare lassù ti assicura visibilità e potere. Libera ma innocua per il potere altrui. Libera e innocua. Soprattutto libera.

Buona Resurrezione a tutti.

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(934) Riciclare

Può funzionare per tutto, tranne che per i sentimenti. Quelli preferisco che, una volta buttati, non ritornino al mittente, che vadano per la loro strada e soprattutto lontani da me. Sono ben capace di crearmi nuovi sentimenti per nuove persone, non ho bisogno di attaccarmi a quelli che ormai si sono spenti e che sono stati comunque bistrattati.

Le persone lo fanno spesso, pensano che se perdi il sentimento per strada te lo devi andare a cercare. Un altro così è impossibile. Non lo so, a me non sembra. 

Sta a noi ricostruire un sentimento migliore di quello precedente per qualcuno migliore, che lo meriti di più. Lo so che è faticoso e il risultato non è assicurato, ma che senso ha riattaccare ciò che è andato in frantumi? Se si è rotto ci sarà pur un buon motivo, perché sottovalutarlo? A nessun fa piacere tenere in mano pezzetti taglienti e bislacchi anziché il liscio brillare di una gemma che per noi era tutto. È doloroso, è umiliante, è triste. Lo so, lo sappiamo tutti. 

Riciclare i sentimenti però non si fa. Davvero. Il rinnovato fallimento dei buoni intenti risulta ancora più doloroso, più umiliante, più triste. Lo sappiamo tutti.

Quindi, anche a costo di coltivare dentro di noi la solitudine più devastante, ravvivare ciò che non chiede e non vuole essere rianimato è uno spreco di tempo, di energie e di illusioni. Se vogliamo davvero illuderci, illuderci alla grande, perché non immaginiamo di trovare un grande e magnifico motivo per far nascere un sentimento nuovo di zecca che superi di gran lunga qualsiasi collega ci abbia attraversato prima di lui? Perché no? Lasciamo pure che ci chiamino ingenui, sciocchi, perditempo, lasciamoli dire, che ne sanno loro? Loro che hanno poco coraggio e poca fantasia per riempire anche solo mezzo cuore, cosa ci potrebbero mai insegnare? 

Le carcasse dei sentimenti, se li tieni chiusi nella cantina del tuo cuore inquinano ogni grammo di presente che ti appresti a vivere. 

Facciamo che ognuno per la sua strada e amici come prima? Dai, facciamo così.

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(933) Ironia

L’ironia è come una caramella. Ogni guizzo ha un sapore diverso e alcuni ti possono piacere, altri meno e non li vai a cercare, ma chi rifiuterebbe una caramella quando vorresti soltanto scappare via?

Nessuno.

Le persone dotate di questo meraviglioso talento sanno spingerti dolcemente al sorriso proprio quando non te l’aspetti. Una piccola sorpresa che ti fa increspare le labbra e questa piccola onda ti entra dentro in fondo in fondo in fondo per sollevarti un po’. Quando ritorni coi piedi sulla tua solita spiaggia ti accorgi della sabbia, di ogni granello, come se fosse cosa nuova, perché sei più ricettivo, come se ti fossi appena risvegliato.

Adoro le persone ironiche.

Ironia è misura, rigorosa: né troppo né troppo poco. Ti devi spingere oltre, ma solo per quel tanto che basta a innescare l’onda leggera, dolce, quella che solleva e non quella che spazza via (il sarcasmo, tanto per intenderci). Nell’ironia c’è un miscuglio di amarezza e blando divertimento. C’è soprattutto un bisogno di sopravvivere a tutto quello che, preso in altro modo, potrebbe farci impazzire, potrebbe farci morire. Perché il veleno funziona anche a piccole dosi e l’ironia ne è l’antidoto infallibile. 

Un talento, per ognuno di noi diverso.

Perché non ci sono regole, ci sono punti di vista che si incrociano, che rendono i pensieri un po’ ruvidi e da lì si scivola naturalmente nell’arguzia di un concetto scollato – a volte osceno – espresso con grazia però. Chi non percepisce questa resistenza nel passarci sopra, questo leggero atrito su cui il tatto incespica, si perde un gran tesoro. 

Ma l’ironia non la puoi insegnare.

Questione di gusto, questione di grammi, questione di ritmo e calcolo dei tempi. Una musica che hai dentro e che non deve uscire spesso, soltanto quando il silenzio le permette di espandersi. Un po’. Soltanto un po’. E poi si lascia andare, scivola via per ritornare ad accompagnare il venire e l’andare delle emozioni che fanno poco rumore e non vogliono essere disturbate. Una cosa così, discreta.

Chi rifiuterebbe mai una caramella? Dai, siamo seri!

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