Si fa presto a dire storytelling, ma poi ognuno lo traduce un po’ come può, sulla base di quelle che sono le proprie competenze, l’ambito in cui professionalmente si muove e… la propria visione. Non è storytelling quando racconti la tua storia, lo è quando strutturi il racconto applicando tecnica e presenza, ovvero: so esattamente cosa sto facendo e dove voglio andare a parare, ho chiaro l’obiettivo e anche le complicanze che la mia narrazione metterà in campo.
Lo storytelling è l’arte di raccontare storie per coinvolgere, emozionare e comunicare messaggi in modo efficace, utilizzando principi di retorica e narratologia. Si applica in molteplici ambiti, dal marketing e dal personal branding alla politica e all’educazione, per costruire relazioni, trasmettere valori, differenziarsi dalla concorrenza e stimolare l’apprendimento.
Ok, partiamo dalla definizione fornita da Google e vediamo di espanderla. Diamo per scontato che anche se non hai la minima intenzione di raccontarti agli altri, lo stai facendo da quando sei nato/a. Inconsapevolmente (e qui casca l’asino), ininterrottamente, indelebilmente… fino alla fine dei tuoi giorni. Anzi, il racconto di te andrà oltre la tua morte attraverso coloro che ti hanno vissuto e che hanno avuto (ognuno per sé) una diversa percezione di te. Fantastico, vero (sono ironica)?
Partiamo da qui: ora che lo sai bisognerebbe raddrizzare il quadro, sistemare quelle zone sbilenche di te che non sapevi di aver creato nel racconto che hai implementato in tutti questi anni. Perché? Per darti valore, per ripristinare l’equilibrio, per ridimensionare vicende e responsabilità, che ne so… le motivazioni sono personali e non giudicabili.
Ma spostiamo la questione in ambito professionale, lavorativo, dove quello che si dice di te si mescola con quello che tu stesso racconti (con parole e azioni) e che hai raccontato creando quell’immaginario che forse ti appartiene soltanto per una piccola parte. Ti gira la testa? Bene, è normale.
Un bel respiro e vediamo cos’abbiamo in mano per fare ordine: false memorie, imprecisioni, contraddizioni e cambi di rotta. Aiuto! Vivere è questione complicata.
Ergo: lo storytelling non è il racconto della verità (per assurdo neppure “la mia verità”) perché è sempre interpretazione/lettura della realtà/verità, non è neppure ‘ora mi invento una bella storia da raccontare’ (bisogna anche poi provarla e sostenerla nel lungo periodo, sembra facile!), bensì: racconto quello che reputo opportuno a seconda dell’interesse del pubblico al quale mi rivolgo e del risultato che voglio ottenere.
Lasciando da parte il giusto/sbagliato, ben consci che l’etica può essere manipolata e piegata in modo ripugnante, è quello che facciamo sempre. Comunichiamo per ottenere un risultato che soddisfi le nostre necessità, per raggiungere i nostri obiettivi, possibilmente nel modo più comodo e meno faticoso.
Il punto è: partiamo da presupposti di buonafede o di malafede?
Le intenzioni vengono messe a verbale: qual è lo scopo ultimo del mio raccontare? Quali sono i principi che mi sostengono? Quali sono i limiti che mi determinano?
Ti gira ancora la testa? Ok, mi fermo qui per oggi, è pur sempre lunedì.
Il punto che volevo chiarire è che un progetto di storytelling poggia su una analisi olistica approfondita dell’attività, questa indagine permette di mappare strategia e tattiche di comunicazione in conformità agli obiettivi decisi. Nel macro come nel micro, in qualsiasi settore e per qualsiasi attività.
Ecco, personalmente dubito che lo si possa fare in modo sensato senza adeguata preparazione.
Il fai-da-te (con giocata randomica) viene percepito immediatamente come mancanza di professionalità. Oggi più di ieri, domani più di oggi. Il mondo ti chiede impegno e serietà, determinazione e apertura mentale.
Oppure “tutti giù per terra”.
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