Solitamente non lo faccio, ma questa “Open to meraviglia” ha spinto il mio livello di tolleranza oltre le soglie del dolore. Potrei ridere, ma non ci riesco.

 

La tolleranza è saper ridere quando uno vi calpesta i calli mentali.

(John Garland Pollard)

 

In questo periodo, per lavoro, sto scrivendo una serie di articoli che parlano dell’Italia e che hanno lo scopo di presentarla al pubblico d’oltreoceano con l’abito migliore. Arriva nel bel mezzo del mio marasma creativo questa campagna dell’ENIT e quello che provo è profondo imbarazzo.

Profondo.

Disagio.

La bruttezza di questa trovata è impressionante. Sul serio.

Raccontare l’Italia per un Italiano è complicato. Raccontare l’Italia in modo da suscitare quella meraviglia che nel claim è citata non si può ridurre in una carrellata di cartoline con una Venere che del Botticelli non ha proprio più niente ma che ha molto della Chiara Ferragni versione castigata.

Possiamo fare di meglio? Sì. Siamo tenuti a fare di meglio.

La virtual influencer. Se questa è l’idea innovativa, la sua realizzazione non varrebbe la pena fosse graficamente più curata? Ci sarebbero almeno mezzo milione di modi più eleganti ed efficaci per tradurre questa idea. Mi piacerebbe vedere le proposte scartate, quelle che non hanno superato l’esame finale…

Ma godiamoci questo video che spiega nel dettaglio il cumulo di banalità sul quale fare affidamento per essere credibili agli occhi del mondo:

[il video è stato reso innocuo impostandolo in modalità privata successivamente alla pubblicazione di questo post, dopo che la Armando Testa ha dichiarato che la campagna non è ancora ufficialmente iniziata – quindi ancora da perfezionare]

 

E non mi si venga a dire che dietro c’è una meravigliosa strategia, non mi si venga a dire che al turista straniero piace questa Italia che mostriamo, perché non è vero.

Se vogliamo attirare un turismo becero, allora va bene. Se vogliamo che gli stranieri arrivino qui per apprezzare davvero quello che possiamo offrire, senza insultarci perché “gli italiani sono fatti così”, se vogliamo che il turismo sia rispettoso e sostenibile, se vogliamo costruire una sorta di dialogo continuativo, una relazione che duri nel tempo, con chi arriva da lontano e vuole conoscere l’Italia e non soltanto visitarla… ecco, non è così che la si comunica. No. No. No.

Se fossi pagata per lavorarci potrei dare delle alternative, potrei fare un paio di esempi di storytelling fatto bene (non mio, non sono così egoriferita) in grado di tracciare una strada e far affiorare delle soluzioni narrative efficaci. Sarei tenuta a farlo se fossi pagata per svolgere il lavoro al meglio.

Sospetto, però, che non sia responsabilità del Gruppo Armando Testa (l’agenzia di comunicazione) bensì di chi ha l’ultima parola e decide cosa piace e cosa no. Non in generale, non al pubblico di riferimento. No. No. No. Quello che piace a lui/lei/loro, che non hanno idea di cosa significhi gusto, bellezza ed eleganza. Si pensano grandi comunicatori e decidono cosa va bene e cosa non va bene a seconda del loro sguardo sul paese che governano.

Che è pieno di cliché, di superficialità, di già sentito/visto/digerito.

 

In questo preciso istante mi sento ben poco “aperta alla meraviglia” e alla fine neppure scriverlo riesce a sollevarmi dal disagio (anche perché dietro a tutto questo c’è il solito pressapochismo italiano – lo racconta Open qui e anche Wired qui – che tanto ci appartiene, per tradizione diciamo).

Quel disagio tipicamente italiano che ti prende alla gola ogni volta che sei all’Estero e ti devi giustificare se hai voglia di mangiarti un piatto di spaghetti.

Quel disagio che conosciamo bene e che non ci scrolleremo mai di dosso.

Non c’è campagna che tenga. Rassegnamoci.

 

Vai all’articolo precedente ——–> 

Torna in homepage per scegliere altri articoli da leggere —————>