In questi giorni mi sono imbattuta in un articolo su Medium che parla di Ikigai 生き甲斐. L’ho letto con attenzione, dapprima. E, in seconda battuta, m’è venuto un pensiero irritante: tutti con la smania di insegnarti come si vive. Come si dovrebbe vivere per vivere bene. Tutti. Chi in un modo e chi nell’altro, Oriente e Occidente, Emisfero Boreale ed Emisfero Australe, ovunque ti giri ci sono teorie bellissime su come si deve vivere. Si trasportano significati e contenuti da un continente all’altro con una leggerezza che fa paura. Siamo esseri ignobili.
In questo caso specifico ce l’ho con chi mistifica, ovviamente.
Arrivata a metà articolo con il nervoso, mi fermo a questo punto:
Once you decide on your occupation… you must immerse yourself in your work. You have to fall in love with your work. Never complain about your job. You must dedicate your life to mastering your skill. That’s the secret of success… and is the key to being regarded honourably.
I do the same thing over and over, improving bit by bit. There is always a yearning to achieve more. I’ll continue to climb, trying to reach the top, but no one knows where the top is.
I’ve never once hated this job. I fell in love with my work and gave my life to it. Even though I’m eighty-five years old, I don’t feel like retiring. That’s how I feel.
[quotes from the documentary, Jiro Dreams of Sushi (2011). The documentary follows world-renowned sushi chef, Jiro Ono]
Quindi vado a recuperare il contesto nel quale lo Chef Jiro Ono è immerso. Cambia la prospettiva. Bene.
Mollo l’articolo e vado a recuperare uno dei libri più belli sul Giappone che io abbia mai letto (questo: “WA La via giapponese all’armonia”), ricordavo il capitolo dedicato all’Ikigai e quindi rieccomi lì a leggere di nuovo:
Kamiya Mieko (1914-1979) fu una psichiatra (…). Nel 1966 pubblicò Ikigai ni tsuite, testo con cui dette il via alla diffusione del termine ikigai e di una riflessione che pose questa parola al centro della società giapponese. (…)
Kamiya lo scrisse nell’arco di sette anni, convogliandovi la lunga e intensa esperienza di supporto ai pazienti affetti dal morbo di Hansen nel sanatorio nazionale Aisei-en sull’isola Nagashima nella prefettura di Okayama. (…)
Allontanati forzatamente dalla società, dalle proprie famiglie, e confinati in luoghi da cui non era possibile uscire liberamente, i malati si ritrovavano ad affrontare quello che, nell’introduzione del libro, Kamiya definisce muimikan ovvero la sensazione abbacinante di insignificanza e futilità, l’idea che nulla miri a uno scopo.
Il contesto è tutto.
Partendo da qui la considerazione acquista intensità:
Proprio questo continuo esercitare la domanda sul perché dell’esistenza stimolò la meditazione di Kamiya che comprese come non fosse una questione quantitativa bensì qualitativa quella che investiva l’ikigai. Non si tratta infatti di fare un conteggio delle ore dedicate al lavoro, della somma di denaro accumulata, del tempo indirizzato al raggiungimento di un certo obiettivo, bensì di valutare e approfondire la qualità della porzione di vita, anche la più breve, che si ha a disposizione. Il pensiero giapponese, del resto, suggerisce una visione che ribalta costantemente il concetto di quantità a favore invece della misura, che predilige il piccolo al grande, la gioia minuta alla felicità.
L’ikigai si traduce di soggetto in soggetto a modo proprio, la luce e l’oscurità diversamente calibrate per ogni Essere Umano.
(…) l’ikigai viene definito come “quel qualcosa che spinge a pensare che sia valsa la pena di vivere”.
E quindi riparto da qui, da quest’ultimo frammento riportato, perché ho trascorso molto tempo durante i miei anni a sviscerare il valore di quello che stavo facendo. Mi è sempre stato molto chiaro quando stavo perdendo tempo, quando stavo temporeggiando in vista di qualcosa di meglio, quando ero immersa completamente nel presente pertanto sveglia e viva. Ne ho contati migliaia di attimi in cui quel “ne è valsa la pena” mi ha fatto da sostegno a tutto il resto.
E mi piacerebbe tanto essere come Chef Jiro Ono che non ha mai imprecato contro il suo mestiere, io l’ho fatto e lo faccio e – temo – lo farò spesso anche in futuro. Mi arrabbio da matti, mentre mi scivola tra le dita sulla tastiera facendomi dubitare di esserne degna. Mi sento miserevole quando deludo le mie stesse aspettative, quando mi ritrovo al punto di partenza e pensavo, invece, di essere a metà strada.
Però, Chef Jiro Ono, ti assicuro che la mia dedizione non ha cedimenti. Può bastare?
Mah!
So una cosa soltanto: i miei “ne è valsa la pena” migliori sono quelli nati dopo aver posato le mani sui fogli inchiostrati, esausta e sollevata per essere riuscita ad arrivare a quel punto che segna la conclusione di un mio scritto.
A me questo basta.
Mi può bastare.
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