(1044) Parcheggiare

Parcheggiarmi sotto il sole per la tintarella mi mette addosso un’ansia che metà basta. Ci provo, ma non resisto.

Parcheggiare il cervello da qualche parte per staccare e concedermi un po’ di relax è – com’è facile immaginare – fuori dalla mia portata.

I parcheggi con l’auto mi riescono bene, amo guidare nonostante io sia una donna e guido piuttosto bene nonostante io sia una donna. Questo mi preme sottolinearlo, ci tengo.

Parcheggiare le questioni per risolverle in un secondo momento, magari a mente fredda, mi riesce sempre meno difficile… la saggezza della vecchitudine? Pòesse’.

Quindi ricapitolando: il verbo parcheggiare mi spacca a metà. Ci sono cose che parcheggio bene – o almeno dignitosamente – e altre che proprio non ce la farò mai. Di per sé non dovrebbe essere un problema, ma tutto diventa un problema quando ci si impone di analizzarlo al microscopio.

Ed eccoci arrivati al punto: certe cose non vanno proprio sezionate. Vanno lasciate esattamente come appaiono. Così non rivelano il potenziale letale che manco si poteva sospettare. Non dico di scartare random le cose – sarebbe sciocco – eppure scegliere meglio quelle che devono essere capite e sviscerate e quelle che invece devono essere lasciate così come stanno potrebbe salvarci la vita.

Almeno quella mentale, e di questi tempi non è poco.

Ok. Procediamo: inesorabili ma cauti.

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(974) Arrendevolezza

Parliamone: soltanto per sfinimento o perché sono d’accordo. E basta. Non sono capace di farmi andare bene quello che non mi va bene, me lo si legge in faccia. Così è se vi pare e anche se non vi pare.

Per quanto riguarda lo sfinimento, devo proprio essere esausta per arrendermi all’evidenza. Cioè, non devo proprio avere neppure un grammo di energia rimasta. E qui casca l’asina (me medesima).

Al di là di ogni buon senso io ci credo, ci spero, ci provo. Non mi voglio arrendere all’idea che sia tutto perduto, che non ci sia nulla da fare, che sia tutto qui/lì. Un’ostinata idea di happy-ending-maledetto mi stringe in una morsa dove il sangue al cervello circola poco e malvolentieri e smetto di essere ragionevole. Mi piacerebbe fare quella che si siede e aspetta la sua fine, con dignità, con una certa fatalità tatuata in fronte. Mi piacerebbe. Non sono così. Mi duole, ma bisogna farsene una ragione. Passo.

Quindi la storia del non-facciamoci-illusioni con me non attacca. Io sono quella che pensa: massì, facciamoci ‘ste illusioni che tanto se deve andare male ci va lo stesso e almeno nel frattempo me la sono raccontata bene. Perché non significa che non prenda in considerazione che andrà storta, penso solo che potrebbe anche andare dritta. Voglio dire: 50% di possibilità per uno. Mi sembra onesto.

Evitiamo di dare troppa enfasi al cuore spezzato che ne conseguirebbe, il cuore mi si spezza di continuo per ricomporsi come se niente fosse, pronto per spezzarsi di nuovo. È la prassi, non mi fa alcuna differenza. Ci vuole un enorme dolore per spezzarlo definitivamente, e non sarà una delusione derivante da una delle mie illusioni che se ne è andata in briciole a dargli il colpo letale.

Che sia chiaro, mi arrendo solo per sfinimento o perché mi sono convinta e per me va bene anche così. Non ci sono altre opzioni. Prendere o lasciare.

Click.

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(915) Difetti

Anche tagliare i propri difetti può essere pericoloso. Non si sa mai qual è il difetto che tiene in piedi il nostro intero edificio.

(Clarice Lispector)

Non me la sento di darti torto, Clarice, come potrei? Ho sempre pensato che le persone siano fatte di incastri, se vai lì e sposti, togli, aggiungi, come puoi pensare che la struttura non crolli?

In questo senso, temo che un professionista (psicologo, analista, psichiatra ecc.) per quanto sia bravo non può permettersi di forzare nulla. Non si tratta di riprogrammazione (quella la si fa con i computer), al massimo puoi rendere un po’ meno oscuri certi meccanismi, far luce su pezzetti che erano stati trascurati. Tutto lì.

Rifarsi nuovi, neppure con i bisturi porta a nulla. Partire dal presupposto che siamo sbagliati così come siamo può essere letale. E chi vorresti essere, santidddddddio? Chi ti immagini di poter essere per poter essere felice? La Grande Illusione porta prematuramente alla tomba.

Ci potremmo scrivere liste della spesa lunghe quanto un romanzo prima di venirne a capo, ma sarebbe meglio giocare d’anticipo: prima di cadere nel tunnel dell’autocommiserazione, aprirsi all’accoglienza dei propri difetti. Non perché non si possano mitigare, ma perché sarebbe inutile criminalizzarli. Che fai? Ti sbatti in prigione finché non ti redimi? Tutti in convento, si’ore e si’ori, perché si sa che il convento è la casa della Felicità.

Ma per favore!

Allora, se tolgo un difetto ed è quello che mi fa stare in piedi, poi dove mi metto? Se tolgo il difetto che ti dà ai nervi, divento un po’ meno imperfetta, tu riuscirai a stare al passo? Se tolgo il difetto meno pesante, che differenza farà nella dinamica che regola il mio Essere? Non mi conviene tenermelo? Sarebbe fatica sprecata, no?

Facciamo che io accetto i tuoi finché posso, tu accetti i miei finché reggi, e quando non ne possiamo più ci salutiamo e ognuno va per la sua strada? Dai, facciamo così che altrimenti mi viene il mal di testa e lo sappiamo tutti come va a finire. Ok?

 

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(437) Trappola

Questione di un attimo e quando scatta sei finito. La trappola mortale del dovresti-ma-non-sei, oppure del dovresti-ma-non-hai, che sono ovunque e che si attivano a ogni pie’ sospinto e ti vedono saltare come un pazzo per non essere preso, ma ogni sforzo è in vano.

Chi le attiva? Tutti. Non sei al sicuro da nessuna parte, ti trovano sempre e… zak!

Avere la tua strada da seguire, i tuoi pensieri, le tue visioni, dà fastidio. Fa niente se non vai a sbandierarlo ai quattro venti e vivi la tua esistenza senza fuochi d’artificio e via discorrendo, dai comunque fastidio. Perché dovresti essere questo o quello, dovresti avere questo o quello, dovresti pensare questo o quello, dovresti volere questo o quello e invece tu che fai? Continui imperterrito come se niente fosse e allora non lamentarti di quello che non sei, che non hai, che non ottieni. Eh!

La trappola del tutti-lo-dicono-e-dev’essere-pur-vero non risparmia nessuno e siamo tutti, beninteso, vittime di qualcuno e al contempo carnefici di qualcun altro. Sono i nostri giudizi, le nostre limitate strutture mentali, a renderci costruttori di trappole mortali. Soprattutto per noi stessi, anche se nessuno si azzarda a un umile mea culpa per iniziare a far pulizia dentro di sé.

La disinfestazione è un’arma a doppio taglio, dovremmo trovare altri modi per convivere con le nostre mancanze d’umanità. Dovremmo in qualche modo domarle, farle ragionare, mitigare i loro eccessi e renderle meno devastanti. Dovremmo farlo. Subito.

 

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