(981) Pellegrinaggio

Stamattina mi sono svegliata con una delle mie solite domande idiote in testa, niente di strano. Eppure questa è la prima volta che ce l’ho, forse viveva in qualche parte del mio cervello da anni e non me ne sono mai accorta. Il che mi fa nascere un’altra domanda: perché mi è uscita proprio adesso? 

Due domande per volta, però, sono troppe, quindi cercherò di rispondere alla prima e lascio la seconda da parte. La domanda, per quanto idiota, ha delle variabili interessanti, per questo la sto per scrivere, quindi: se dovessi scegliere un luogo in cui recarmi in visita, una sorta di pellegrinaggio spirituale, dove andrei?

Mi vengono in mente i tomi sulle civiltà Azteca, Inca e Maya, che mi divoravo da teenager. Sono ancora quei luoghi incredibili dell’America Centrale/Meridionale che mi fanno sognare, lo ammetto. Poi però ho recuperato tutti i miei studi sui Nativi Americani, e lì le praterie non si possono mica mettere da parte. E poi è uscito il deserto australiano e Le Vie dei Canti degli aborigeni e Uluṟu, qui mi sono dovuta soffermare un bel po’, lo ammetto. 

Non saprei scegliere, anche perché nel frattempo (mentre sto scrivendo) mi passano davanti agli occhi immagini che ho potuto toccare con mano (dalla Scozia all’Egitto) e ci ritornerei in quei luoghi anche adesso. Istantaneamente.

M’è venuta una nostalgia maledetta.

Forse ho bisogno di scegliere una meta in cui recarmi soltanto per il fatto che mi sto muovendo. Forse è un viaggio solitario che ho bisogno di fare per estraniarmi dal mondo e basta. 

Forse ho bisogno di scrivere.

Forse.

[e credo di aver risposto anche alla seconda domanda]

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(919) Interferenza

La quiete. Proprio calma piatta. Non si muove niente e tu fai in modo che niente si muova, tanto sei altrove. Tutto perfetto.

Ma fare niente-niente-niente, mentre vivi, è davvero difficile. Anche quando dormi fai qualcosa, quindi per fare niente-niente-niente dovresti proprio impegnarti tanto, concentrarti tanto, insomma faresti comunque qualcosa perché il niente non viene spontaneo a chi respira.

Detto questo, è una palese giustificazione sia chiaro, tu provi a fare niente ma qualcosa fai. E non sai mai se quel qualcosa – piccolo, inutile, banale, da nulla – ti provocherà qualcosa. Lo fai perché qualcosa comunque devi fare, quindi lo fai. Ecco. Non si tratta di consapevolezza, si tratta di per-forza-di-cose. Bon.

Tu fai quelle cose da nulla e una di queste mette in circolo un disturbo. Un disturbo che parte da lontano, non te ne accorgi perché sei sovrappensiero tutta impegnata a non fare nulla. E quel disturbo trova una strada sua: prima attraversa il tuo deserto, poi attraversa le tue foreste pluviali, e poi – fatalmente sopravvissuto – arriva in tangenziale. Quando è lì è troppo tardi.

Questo fastidio s’è fatto i muscoli, e quando ti si para davanti non è che uno spintone basti. Dovresti estrarre la katana. Ma dove diavolo l’hai messa? Nella tua quiete, nella tua dannata calma piatta non ti serviva. Dove te la sei dimenticata? Non ce l’hai sottomano, quindi guardi quei muscoli e pensi sono-fottuta. Ma non lo dici. Maledetta interferenza, pensi, ma non lo dici. Dirlo sarebbe debolezza esplicita. Prima si muore e poi ci si arrende, tanto per inciso.

Fatto sta che questa muscolosa interferenza sta mandando in corto tutto il tuo sistema, ormai la quiete è ben lontana e ti sei giocata da tempo l’illusione che il fare niente ti avrebbe messo in salvo da tutto. 

Idiota.

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(270) Deserto

Tra tutti i deserti non so decidere quale sia il più terribile. A modo mio credo di averli attraversati tutti. L’unica cosa che mi renderebbe il ricordo insopportabile sarebbe accorgermi che il mio passaggio non ha lasciato tracce, che la sabbia, il ghiaccio o la terra hanno già cancellato il mio cammino. Come non fosse mai successo.

Mi rendo conto che è ridicolo, ma mi sembrerebbe di aver sofferto-lottato-sanguinato per nulla, come se non fosse mai stato. Solo me stessa come testimone, come prova, come memoria. Potrei anche dubitare, a un certo punto, che sia accaduto davvero. Che quel deserto sia davvero esistito. Come fare per uscirne? La pazzia.

Di ogni deserto ho apprezzato la durezza, senza cedimenti. Anche se sei sul punto di soccombere, un deserto non si muove a compassione, ti toglierebbe la possibilità di farcela con le tue sole forze. D’altro canto lui è lì per quello. Un deserto ti dà dei segnali di vita, ma non te la offre come se ti fosse dovuto qualcosa. Quale verità può fare più male se non quella che ti sbatte in faccia che niente ti è dovuto e che sei qui per guadagnarti i privilegi che stai reclamando?

Ogni deserto fa di te un niente, tu a quel punto devi scegliere: arrenderti all’evidenza o immaginarti migliore e quindi capace di arrivare all’oasi? Dipende tutto dalla storia che ti stai raccontando, viaggiatore.

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