(183) Immersione

Una cosa che mi viene bene, immergermi. Prendo le misure e vado. Sotto, in profondità. Quando sono là sotto perdo il contatto con tutto il resto, quello che lascio in superficie, e là sotto non sento mancanze, non sento lontananza,  là sotto mi basto.

Il tempo dell’immersione non è lunghissimo, ma non per mio volere, soltanto perché qui in superficie ci sono cose da fare e io le devo fare.

Non pratico soltanto un tipo di immersione, ma tutte. Proprio tutte. Immaginane una e io già l’ho provata. Anche se non l’ho sperimentata con il corpo, la mia mente l’ha già percorsa quella via. Si tratta di allenamento, ma l’ho già detto: è una cosa che mi viene dannatamente bene.

Solo una piccola parte di queste immersioni diventa concreta, scritta e quindi consegnata alla realtà della superficie. Credo sia giusto così.

Un dato di fatto è che là sotto ci sono colori pazzeschi e il silenzio è pieno di suoni che parlano di tutto quello che in superficie si frantumerebbe perché delicato, perché pulito, perché troppo vivo.

E così è.

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(182) Qualcuno

C’è questa cosa del essere qualcuno. C’è questa cosa del essere qualcuno per qualcuno. Questa cosa porta con sé ferite a più non posso. Non credo sia una questione nata con l’uomo, credo sia una malattia che si è andata sviluppando piano piano e che ora è fuori dal controllo.

Lo sei già qualcuno, sei una persona. Qualcuno per qualcuno? E chi di noi può affermare di non avere alcun legame con alcun essere vivente? Nasciamo da un altro qualcuno, no? Legame = sei qualcuno per qualcuno. Quindi ambire ad essere qualcuno è idiota, lo siamo già. Se essere qualcuno, poi, significa essere riconosciuti da tutti allora stiamo parlando di una malattia, no?

Essere riconosciuti come persone, esseri viventi, è un diritto sacrosanto di tutti. Essere riconosciuti come portatori di qualcosa di speciale è questione delicata. Cosa porti in te per essere riconosciuto dagli altri? Qualcosa di buono? O qualcosa di pessimo?

Allora, vediamo di dirlo una volta per tutte: se porti qualcosa di buono, che te ne frega di essere riconosciuto per questo? Quel qualcosa di buono si spargerà sulla terra e tu avrai fatto il tuo. La gratificazione parte dal fatto che la terra beneficierà di ciò che tu hai donato. Giusto? Se porti qualcosa di pessimo, ti conviene essere presto dimenticato perché quel male che hai sparso in qualche modo ritornerà a te. Sparisci e cerca di fare di meglio la prossima volta.

Eppure, quello che mi riesce davvero difficile è essere qualcuno per qualcuno in un tempo finito. Perché dentro di me i qualcuno che incontro vivono per sempre e non so se sia una buona cosa portarsi tutti appresso, la schiena a un certo punto cederà. Io lo sono stata, lo sono e lo sarò ancora e ancora qualcuno-a-tempo-determinato per molti e molti qualcuno, ma non è questo che mi pesa. Mi pesa tutti i qualcuno che sono usciti dalla mia vita (per loro volontà o per mia volontà) che sembrano avere scolpito in me impronte eterne.

Questo mi pesa. Questo non voglio più. Ora devo solo scoprire come fare.

 

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(181) Staccare

Io suono così, sempre. Unplugged. Non c’è niente da fare, inutile farmi fare scintille e assoli alla Hendrix, non sono equipaggiata.

Mi posso al massimo mettere lì davanti a te, come se fossimo già amici, e farti ascoltare quello che so fare senza fronzoli, senza menate. Potrebbe non piacerti, ma se so fare questo mica puoi pretendere che mi trasformi in Lady Gaga.

Lo dico perché quando Lady Gaga va in unplugged è più brava di quando fa scintille e balletti ridicoli. Molto più brava. Io ancora non lo sono così brava, ma voglio esserlo. Anzi di più.

Quindi stacco la spina e mi risistemo nel mio ambiente. No, non canto. Mica sono Lady Gaga.

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(180) Totem

La discesa è necessaria. Non è una scelta, è inevitabile. Discendere. Prendere posto dentro di te, in silenzio. Periodicamente discendere per prepararsi a un nuovo parto di se stessi.

Lo dico così perché non so dirlo meglio. Dirlo così mi basta – senza pretese di essere capita. Capita da chi, poi? Non è importante. Tanto discenderò lo stesso e lo farò in silenzio, come faccio sempre. Funziona.

L’Orso mi accompagnerà. Non sarò sola.

A questo proposito posso affermare con serenità che questa cosa di me non la cambierei mai, neppure se cambiandola riuscissi a guadagnarmi l’amore di qualcuno. Non sarebbe amore destinato a me. Ormai so riconoscere l’amore, quello che è tuo non lo perdi neppure a volerlo.

Quindi discenderò.

In silenzio.

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(179) Gratitudine

Si era avvicinato a me timidamente chiedendomi se volessi insegnargli a scrivere nonostante la sua non più verde età: aveva 82 anni. Gli risposi che non avrei potuto insegnargli nulla, ma che avremmo potuto parlare di scrittura e avrei potuto accompagnarlo durante il percorso – voleva scrivere dei racconti.

Diventammo amici e diventai la sua editor per dieci anni.

Dopo un intervento piuttosto deciso su un racconto giallo che, però, risultava essere più un sgambetto al lettore che un guizzo geniale, lui non mi parlò per un mese. Finalmente poi mi chiamò e mi disse: “Hai ragione tu, riscrivo il finale”. Il racconto fu un piccolo capolavoro. Fui orgogliosa di lui, ancora una volta, e lui di se stesso.

“Scrivo perché così non posso morire finché non ho finito di scrivere”, mi disse un giorno.

Da qualche tempo le sue storie facevano fatica a uscire, e a un certo punto fui consapevole che avrebbe mollato le redini poco a poco, discretamente come era stato il suo vivere.

Non è un addio questo, è un pensiero che mi permetterà di stargli vicino e accompagnarlo comunque, anche se da lontano. Quest’amicizia così inaspettata e speciale non finirà solo per uno stupido sfasamento dimensionale.

Grazie Giorgio. Grazie.

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(178) Oasi

Dove trovi salvezza. Dove puoi dissetarti. Dove resteresti per sempre.

Ognuno di noi ha il suo luogo, quello che ci porti solo chi ami veramente. Ecco, mi sa che me ne sono curata poco ultimamente di frequentarlo quel mio luogo. Non va affatto bene, ma riprendere l’abitudine è cosa da poco.

Se avessi una figlia le insegnerei esattamente questo: scegli il tuo luogo speciale, mantieni il segreto più a lungo possibile e ricordati di fargli visita ogni volta che hai bisogno di te.

Sarà poi forte abbastanza da affrontare tutto quello che c’è là fuori.

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(177) Quasi

Il quasi mi mette in imbarazzo. Da un lato è una mancata vittoria, dall’altro una mancata sconfitta. In mezzo ci sono tutte le varianti che la lingua italiana si è potuta immaginare – e ce ne saranno un miliardo.

Sono quasi soddisfatta di me stessa, per la gran parte del tempo. Non del tutto. Il che dovrebbe darmi un margine di miglioramento (escludo la possibilità di peggiorare, sarebbe un tornare indietro e io non ho tempo da perdere). Quel margine di miglioramento non mi innervosisce, non mi risulta frustrante, mi dà speranza. A qualcuno, questa cosa potrebbe dare fastidio (so che lo dà), ma non è un mio problema.

Sono quasi arrivata dove non mi sarei mai sognata di arrivare. Ecco, già il sentimento qui si fa confuso, diviso tra “wow-guarda-dove-sono-arrivata!” e “gasp-ancora-non-sono-arrivata-quanto mancherà?”. Non è facile combinare la soddisfazione per una posizione raggiunta, la sorpresa per averla raggiunta, e la stanchezza del percorso fatto aggiunta allo sgomento nel constatare quanto tempo sia trascorso dall’inizio del viaggio.

Sono quasi arrivata alla conclusione che non importa. Tanto ancora non sono giunta fin dove desidero, per cui godiamoci il viaggio e che il cielo m’aiuti!

 

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(176) Occhi

Sono astigmatica, e manco poco, perciò vedo tutto sfocato come se fossi dentro il sogno di una favola. Non mi dispiace vedere così, l’ho scoperto a 17 anni e prima di allora le cose non erano diverse dal dopo. Quindi pace.

Certo, se mi metto gli occhiali e il difetto mi si corregge vedo meglio, tutto più nitido, addirittura brillante. Alle volte tanta brillantezza mi dà fastidio. Sono abituata alla mia confortante opacità ovattata e calibro l’uso degli occhiali dosando la brillantezza nella mia giornata con una certa attenzione.

Leggere mi obbliga a mettermi gli occhiali e io leggo molto, per cui gran parte della mia giornata gli occhiali mi colpiscono di brillantezza. Se voglio prendermi una pausa e farmi un caffè, però, mi tolgo gli occhiali. Stacco dalla brillantezza e mi rifugio dietro al mio velo.

Insomma: gestisco i miei occhi come meglio credo. Come tutti, immagino.

Da qui può partire la mia riflessione serale: decido io cosa i miei occhi devono vedere, che io ne sia consapevole o meno. No, non si tratta solo degli occhi, si tratta anche di comprensione, di ascolto, di attenzione, di coraggio (o mancanza di coraggio), di voglia di verità (più che si può, ben sapendo che più in là di una certa percentuale non si va).

Oggi i miei occhi hanno visto tutto quello che potevo vedere. Anche ieri, anche l’altro ieri, anche il giorno prima. Tutto quello che posso vedere i miei occhi lo afferrano. Mi domando quanto sia l’ammontare di ciò che non posso ancora vedere. Mi domando se sia meglio non poter vedere tutto. Mi domando se il vedere di più aiuterebbe i miei occhi e il mio cuore.

Forse no.

Benedetto astigmatismo!

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(175) Scommessa

Un tempo, gli adulti ripetevano che i giovani erano la scommessa per il futuro dell’umanità. Credo abbiano smesso di dirlo, credo l’abbiano sostituito con qualcosa tipo: “Non rompere le scatole, giovine!”.

Non sto parlando dei giovani trentenni o quarantenni, quelli non sono giovani (io non sono più giovane), quelli sono gli adulti. Per lo più tristi, per lo più incazzati, per lo più cazzari, per lo più stanchi di essere vivi. Non tutti, ma troppi sì.

I giovani sono i ragazzi che ora si trovano alle scuole superiori, quelli sono i giovani. Sono quelle persone stravaganti e svalvolate che possono farti orgoglioso e trasformarti in un omicida nel giro di tre secondi netti. Hanno quel talento lì.

Ebbene, i giovani non hanno solo un talento, ne hanno molti solo che non gli danno valore perché sembra che agli adulti quei talenti lì risultino essere inutili. Soltanto perché gli adulti quei talenti li hanno persi per strada e rode parecchio rendersene conto. Quindi buttano fango su ciò che vorrebbero indietro, ma che ormai non appartiene più a loro. Giovinezza compresa.

Scommetti sempre e solo sul cavallo vincente, giusto? Scommetti augurandoti di vincere, ma sai che puoi anche perdere. Se perdi cosa fai? Uccidi il cavallo su cui hai puntato? Ecco, noi adulti pensiamo che se un giovane ci delude, allora lo si archivia come cavallo perdente su cui non vale più la pena di puntare.

Io li vado a incontrare questi puledri mezzi fuori e mezzi dentro, mezzi coraggiosi e mezzo atterriti, mezzi incazzosi e mezzi divertiti, e punto sempre su di loro, perché loro vincono sempre. Loro vincono sempre. Siamo noi adulti che perdiamo, e perdiamo sempre con disonore.

Sempre.

 

 

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(174) Superare

superare1.  ≈ oltrepassare, passare, sorpassare, valicare, varcare, scavalcare, (ant.) soverchiare, sorpassare, attraversare. 2. ≈ lasciare indietro, sopravanzare, sorpassare, ↑ subissare, surclassare ≈ battere, sconfiggere, vincere. ↑ annientare, (fam.) fare a pezzi, (fam.) polverizzare, sbaragliare, (fam.) stracciare, stravincere, surclassare, umiliare. 3. ≈ ‖ aggirare, bypassare, scavalcare, sormontare,  scampare.

Mi sembra una bella parola “superare”. Faticosa, faticosissima, ma bella. Ogni volta mi mette davanti qualcosa che, in realtà, è lì alla mia portata. Superabile. Certo, presuppone forza di volontà e energia, non ti viene regalato nulla, ma una volta che ci sei riuscito ti si apre il respiro.

Non uso questo verbo nell’intento di competere con i miei simili, la uso per misurarmi con me stessa. Non vinco mai veramente, non perdo mai del tutto. Rimane un confronto con quella parte di me che tende a lasciar stare perché non si sente abbastanza. Abbastanza cosa? Abbastanza tutto.

Conosco bene quella parte e per quanto io la possa capire e anche tollerare, non voglio più ascoltarla. Non è lei quella che deve attivarsi, quella che voglio spingere a superare se stessa e i propri limiti. L’altra, quella che è tenuta alla presenza, è quella che ora sta scrivendo e che trova sempre un buon motivo per farlo.

Superare. Per farlo bene ci vuole osservazione, calcolo dei tempi e rapida analisi del terreno e delle condizioni ambientali. Se azzardi è bene che tu sappia che non può andarti sempre dritta. Ma azzardare, alle volte, è l’unico modo per superare.

 

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(173) Calma

Ho fama di essere una molto calma. Vorrei, ora e qui, sfatare il mito: mi obbligo alla calma, non lo sono affatto. Sono un’ansiosa cronica. Mi scoccia essere ansiosa, mi scoccia essere quella che si preoccupa sempre di tutto e di tutti, quindi m’impongo un certo contegno. In poche parole: fingo.

Non è una finzione atta a mettere nel sacco il mio prossimo, bensì me stessa.

La teoria che sta alla base di questa mia posizione è semplice: se fingo bene bene bene di non essere ansiosa, la calma entrerà in me e s’impossesserà della mia mente per sempre. Divento zen per autoconvinzione fingendo di esserlo già, in pratica.

Non voglio dubitare neppure per un istante che non sarà così, pertanto continuo a fingere e continuo ad aspettarmi grandi risultati da questo mio estenuante esercizio. Dovrei forse lasciare che il panico abbia la meglio? Nossignore! Accompagno il panico alla porta e mi pongo se non sorridente almeno presentabile agli occhi del mondo.

L’unico momento in cui vengo smascherata in modo vergognoso, però, è durante una seduta di meditazione guidata di gruppo. Lì m’infastidisce tutto e tutti. Non riesco neppure per un nanosecondo a estraniarmi e a percepire il benessere di quella luce bianca o rosa o azzurrina che una volta che ti avvolge ti trasporta lassù ad abbracciare il tuo nirvana. La calma che so fingere perfettamente va a farsi benedire, il mondo mi scopre per quella che sono e si ricomincia daccapo.

Rifuggo le suddette situazioni, ben inteso, passata da lì una volta mi sono ripromessa mai più. Ho intenzione di perpetrare la mia attività di calma apparente finché questa non si piegherà al mio volere e io, anche se non abbraccerò il mio nirvana come si suppone io faccia – prima o poi – almeno potrò salutarlo da una posizione più comoda. Con vista lago.

 

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(172) Equità

Equità 1. Imparzialità 2. criterio valutativo, svincolato da riferimenti di legge a cui il giudice può in certi casi ricorrere per affermare un principio di giustizia sostanziale: decidere secondo equità.

Decidere secondo equità mi piace. Mi piace l’idea che sta dietro questo concetto, qualcosa che ti fa sentire guardato con gli occhi giusti. Se è vero (e lo è) che non siamo tutti uguali (per fortuna e purtroppo) è anche vero che ci sono situazioni in cui fingere di esserlo provoca danni.

Sapere che possiamo andare oltre quello che è giusto o sbagliato e considerare l’Essere Umano semplicemente per quello che è – fallace – ci dovrebbe mettere al sicuro.

Eppure, preferiamo aggrapparci a criteri che valutiamo essere i capisaldi di una giustizia utopica, perché mero paravento per nascondere furberie del potere ormai scontate.

Questo in generale. Ora scendo nel particolare.

Se decido che – nonostante tutto – tu meriti una possibilità, io la possibilità te la do. Se valuto secondo equità che la possibilità te la meriti perché dentro di te c’è qualcosa di buono, qualcosa di bello, che deve uscire e non sa come fare, ma deve uscire… la possibilità te la do e mi prendo tutte le conseguenze del caso.

Se quello che ho visto si rivela essere soltanto un miraggio, pazienza. Non ne morirò.

Equità, è un pensiero che mi apre alla possibilità e me lo voglio tenere stretto.

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(171) Pace

Il diritto sacrosanto di starsene in pace è sistematicamente calpestato dal quotidiano (e da chi si attiva per metterlo in essere). Puoi anche organizzare tutto per filo e per segno, il tuo piano naufragherà: puoi dire addio al tuo diritto di startene in santa pace.

Non voglio farla troppo tragica, ma è fastidioso rendersi conto che a nessuno frega niente della tua pace interiore, e cosa peggiore di tutte: neppure a te. Se così non fosse staresti più attenta e non ti faresti ingabbiare sistematicamente dalle menate degli altri e… staresti in pace.

Che uno non pretende sempre, ma di tanto in tanto sì. Altroché.

Poi siamo nervosi, incazzosi e abbiamo voglia di spaccare la faccia a qualcuno. Il primo che passa, non fa differenza, tanto ormai la pace è andata a farsi benedire, che importa?

Ecco, il mio impegno ora voglio che sia focalizzato proprio in questo: riappropriarmi del mio sacrosanto diritto di starmene in santa pace. Comincio domani.

 

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(170) Ascolto

Se parlo non posso ascoltarti. Se mentre parli penso ad altro non ti sto ascoltando. Se non ti ascolto non so cosa mi stai dicendo. Se ti ascolto solo parzialmente, perché so già dove stai andando a parare, potrei sbagliarmi.

L’ascolto va al di là delle parole, si aggancia al significato che le parole accompagnano al silenzio. Ci sono le pause e le intonazioni. Ci sono gli accenti e le titubanze. Ci sono le parole che si ripetono e diventano ossessioni e ci sono concetti che a dirli in poche parole perdono sostanza trovandosi monchi.

Potrei scrivere dieci pagine sull’ascolto e averne ancora altre dieci che s’impongono alla tastiera e ancora non sarebbe abbastanza.

Una cosa non posso insegnare, a nessuno: ad ascoltare. Non posso impedirti di parlare sopra alle mie parole. Non posso importi di concentrarti su quello che sto dicendo, mentre ti sto parlando. Non posso farti arrivare quello che tu non sei pronto a ricevere o a cogliere. Non posso obbligarti ad attendere i miei tempi prima di trarre le tue conclusioni.

Una cosa sola posso: smettere di parlarti. Quando mi succede, quando succede che smetto, non c’è ritorno. E non mi dispiace affatto.

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(169) Gap

In questi giorni manco di equilibrio. Peggio di sempre. Se non fosse che durante la giornata non ho neppure il tempo per respirare potrei anche preoccuparmi. In realtà sto scusandomi con le persone con cui interagisco per il mio essere più rimbambita del solito.

Sarà che ho a che fare con persone gentili, fatto sta che nessuno dichiara apertamente di aver notato questo mio stato comatoso. Ciò mi fa pensare: lo percepisco soltanto io o, le persone pur sempre gentili, mi percepiscono sempre peggio di come sto solitamente? Zona pericolosa da sondare, passo a momenti migliori.

Il punto di questo mio post, forse, fa parte dei vuoti di senso e di sentire che in queste settimane mi si aprono sotto i piedi – molto probabilmente – ma volevo proprio rimarcare a me stessa che non è che io mi possa permettere di stare così come sto adesso per ancora molto tempo. E aggiungo: sarebbe meglio che questo periodo avesse fine ora, così da riuscire a fare meglio ciò che ora sto facendo arrancando.

Penso che alle volte sia meglio prendermi di petto, dirmi le cose così come stanno cosicché io non possa fare finta di non aver capito.

Mind the Gap, Babs!

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(168) Impalpabile

Sai che è lì, sai che ti sta guidando in qualche modo, sai che potresti chiamarla intuizione o percezione, ma che non riuscirai mai a definirla. Non è lì con te per essere definita ma per essere vissuta.

Un tempo la davo per scontata. Ora no. M’è venuta quasi una paura sottile, che potrebbe andarsene via, per i fatti suoi. Già mi sento male solo a immaginare come starei. In balìa di me stessa. No, non ci voglio pensare.

Questa cosa ha molto a che vedere con l’abbandono. Sembra assurdo che una come me possa parlare con cognizione di causa di abbandono – nel senso di sapersi abbandonare al flusso della vita – ho fama di essere una maniaca del controllo.

Pur restando una che se controlla il suo operato si sente meglio – innegabile – non ho mai pensato di poter controllare gli altri né tantomeno le cose della vita. In me c’è uno stato di abbandono puro, che non mi ero accorta di possedere e ho scoperto soltanto qualche anno fa, che mi permette di guardare allo stato delle cose per scovare ogni via possibile da percorrere.

Abbandonarmi, in questo senso, significa affidarmi. Ecco, controllare il mio naturale istinto a fidarmi delle persone è stata una lotta senza confini e all’ultimo sangue. Affidarmi a quello che sarà, invece, rimane il mio naturale sguardo verso il cosiddetto e cosippensato futuro. Non perché io sia capace di fede cieca, ma perché quella fiammella che non vedo ma sento, quella che è lì anche se non la so nominare… quella fiammella è reale. Almeno quanto me.

(E qui si potrebbe aprire una parentesi corposa, ma non lo farò.)

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(167) Contemplazione

Mi capita spesso, ma il mio contemplare non include il silenzio del pensiero. Ogni volta che ci provo mi innervosisco. La questione dello stato mentale nel quale la calma si stende sul pensiero per farti entrare in una dimensione di pace e tranquillità per me è impraticabile.

Io vago nel caos dei pensieri, pensieri che vanno in loop e che piuttosto di fermarsi si sfondano di tip-tap. Il ticchettìo incessante della loro danza mi impedisce di sperimentare l’immobilità. Tutto quello che mi costringe all’immobilità mentale mi risulta insopportabile. Mi vien voglia di tirare calci.

C’è chi ha cercato di convincermi che dovevo imparare quanto una condizione di pace/silenzio della mente può far bene al mio equilbrio. Ammetto che non ho collaborato, non sono programmata per affrontare questa cosa.

Zompare, caracollare, strampalare. Questo so fare benissimo, questo farò.

Tiratevi da parte se non volete rischiare di essere travolti dalle mie acrobazie: sono imprevedibile e pericolosa.

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(166) Libri

Ho libri sparsi ovunque in casa perché in cantina l’umidità me li rovina. Averli sparsi per casa all’inizio mi infastidiva, dopo mesi che subivo quel fastidio ho tentato di staccarmene. Dal fastidio, intendo. Pensavo di esserci riuscita, ma ora che sto sistemando la cantina m’è presa una cosa allo stomaco che non si può capire.

Non vedo l’ora di riaverli tutti ordinati con santo criterio e vedermeli lì al sicuro. Mi fa stare male saperli accatastati alla bell’è meglio (solo perché non ho spazio a sufficienza per sistemarli come vorrei). Non l’ho superato per nulla il fastidio, mi sono presa in giro per sopportarlo meglio, tutto qui.

Ho capito questo e ho fatto una scansione veloce alla mia vita: quanti altri fastidi mi sono detta di aver superato soltanto per sopportarli meglio? La risposta, del tutto sommaria, mi ha sconvolto.

Urge azione decisa e definitiva.

 

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(165) Carte

Tempo fa – molto tempo fa – pensavo che uno nascesse con delle carte da giocarsi e che la partita si risolvesse in una mano soltanto. Ero convinta di essere fregata, avevo delle carte veramente pessime.

Avevo frainteso la questione: ci sono più mani da giocare e le carte vengono ridistribuite più volte (certo, un po’ alla cavolo – bisogna dirlo) per offrirti nuove possibilità di sfangartela.

Il punto è, però, che se non impari a giocare, puoi anche avere le carte migliori del mondo ma non te ne accorgerai mai. L’imparare occupa gran parte della nostra vita e il continuo cambio di carte può portare all’annichilimento. Bisogna imparare e bisogna capire come gestire le carte. E maneggiare dignitosamente la tensione del gioco. E leggere meglio volti e ambienti per intuire eventuali mosse e bluff.

Dimenticavo: si gioca per vincere, non per evitare di perdere o perdere troppo.

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(164) Sangue

La volta che, dopo l’operazione alle tonsille, ho avuto quell’emorragia indolore che non si fermava più è stata la peggiore. Uno shock.

Il posto migliore per il sangue è dentro il corpo, quando esce non è un buon segno. Partendo da questo presupposto, ogni volta che mi capita di vedere del sangue uscire da un corpo la mia testa inizia a tremare. Curiosamente sono dotata di sangue freddo, reggo bene le emergenze, poi crollo.

Il sangue, però, è quella cosa che non ci fai caso quanto sia vitale finché non ne perdi abbastanza da rischiare di restarci secco. Siamo tutti fatti di sangue, sempre lo stesso anche se diverso per sfumature, e tutti noi ce ne dimentichiamo. A meno che tu non abbia i reumatismi. Allora sì che sei costretto a farci caso, perché mentre ti scorre dentro, quel sangue ti provoca fastidio.

Avercelo nel sangue, che lo si dica di una cosa o di una persona la sostanza non cambia. La condizione è senza via d’uscita: è nata con te e con te morirà.

Ho idea che questa cosa abbia in sé un messaggio che io ancora non colgo, eppure so che è un messaggio indirizzato proprio a me. La cosa mi inquieta.

 

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