(204) Ehmmm…

Perplessità. Ci sono volte in cui ho bisogno di tempo per farmi un’idea e quindi rimando la chiacchiera. Ci sta, è una cosa che ho imparato con gli anni e l’esperienza: se non hai le idee chiare (anche se non necessariamente definitive) stai zitta. Cosa ben diversa quando il pensiero è nitido, tagliente, impietoso e decido di evitare di aprire bocca per non farlo uscire. Solitamente scatta nel mio interlocutore un violento istinto kamikaze che lo spinge a provocarmi finché sbotto e ciao. La catastrofe mi si palesa davanti e l’inevitabile accade. E accade sempre.

Da dove nasce quindi la mia perplessità? Da un semplice dato di fatto: appurato che potrei essere ribattezzata Cassandra visto il numero infinito di volte in cui ho detto una cosa sensata (se non addirittura intelligente) senza essere minimamente presa in considerazione se non dopo che la conseguenza si sia resa evidente (nove volte su dieci era prevedibile, niente di trascendentale), mi chiedo perché io continui a crollare quando riconosco l’arrivo della provocazione anziché girarmi e andarmene?

Lo ignoro bellamente.

Dev’esserci qualcosa che mi scatta dentro e che mi inibisce la comunicazione sinaptica, immobilizzandomi gli arti e al contempo sciogliendo la capacità dialettica per far uscire quei pensieri, esattamente quelli che producono la catastrofe anche se soltanto io ne conosco la portata – che va ben oltre quel che si vede.

Partendo da questa lecita perplessità, la domanda nasce spontanea: perché non appellarsi a quel soprascritto Lo ignoro bellamente e forzare un cambio di dinamica che si basi sul vuoto – di conoscenza – anziché sul pieno?

Ehmmm… perché sono Cassandra e alla Ruota del Saṃsāra gliene frega un cavolo di farmi vivere tranquilla. Ecco.

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(203) Naturale

Quello che è da noi riconosciuto come naturale, molto probabilmente non lo è. Molto probabilmente lo abbiamo acquisito, consapevolmente o inconsapevolmente, da qualcuno e neppure lo sappiamo. Questione genetica o educativa, spesso entrambe le cose e molte altre variazioni sul tema. Spaventoso.

Come posso affermare che io sono così perché così sono fatta e non perché così sono diventata, perché così le cose, le persone, la vita mi hanno modellata?

Naturalmente questo ragionamento puramente speculativo diventa ridicolo di fronte all’urgenza delle cose reali, ma ogni tanto il pensiero trapassa come una freccia gli strati pesanti che ci separano dal cosmo e lì si libera strattonandoci i neuroni e tutto il resto.

Naturale che io sia qui a scrivere, forse perché l’ho sempre fatto? In quale realtà? In che tempo? Quale me ha già percorso lo stesso tratto?

Ecco perché lavoro sempre, perchè quando mi fermo rischio di perdermi e poi son cavoli amari per tutte le me in circolazione, in ogni strato astrale, di qualsiasi tempo e in qualsiasi luogo. Una disfatta, insomma.

 

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(202) Uscita

Cercare una via d’uscita, fondamentale per poter uscire. Trovare una via d’uscita, invece, può essere anche una questione di pura e semplice buona sorte.

Bisognerebbe, però, essere molto sinceri con noi stessi e chiederci se davvero vogliamo uscire o se è soltanto una storia che ci stiamo raccontando per dormire tranquilli. Disperati perché prigionieri, ma tranquilli perché non è colpa nostra se la sorte non ci è amica.

Non sono mai tranquilla, neppure quando sono certa che ho poca responsabilità riguardo la gabbia in cui mi trovo. Cerco e cerco e cerco, finché non l’ho trovata, l’uscita. E poi, e poi posso anche decidere di non usarla, ma intanto l’ho trovata e so che sta lì e che se dovessi cambiare idea quella è la strada.

L’ho usata spesso, a volte ho pensato di averla usata fin troppo, ma la libertà ripaga di tutto. E la libertà non è mai definitiva, non è mai totale, non è mai onnicomprensiva. La libertà è delicata e imperfetta, non è sinonimo di felicità, anzi, non credo abbia sinonimi e non credo abbia sfumature.

La libertà è cruda, è limpida, è violenta, è estrema. Se non ne senti il dolore, allora non è libertà.

Per questo usare quell’uscita non è impresa da tutti e non è consigliabile a tutti, perché la felicità potrebbe trovarsi dentro la gabbia e non fuori e scoprirlo non è una passeggiata di salute. C’è da perderci la testa, senza via d’uscita.

Forse.

 

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(201) Divieto

Non si può. Non si può dire, non si può fare, non si può pensare, non si può capire, non si può immaginare, non si può partire, non si può restare, non si può benedire né maledire, non si può bestemmiare né pregare, non si può parlare, non si può ascoltare, non si può odiare, non si può amare, non si può.

A voler ben vedere possiamo mettere veti a tutto e ancora non basterebbe, l’Essere Umano troverebbe comunque il modo per dire, per fare, per pensare, per capire, per immaginare, per partire e per restare, per benedire e maledire, per pregare e bestemmiare, per ascoltare e parlare, per odiare e amare, per vivere.

E se un divieto ci deve essere allora deve essere motivato da una questione di vita o di morte reale, non dai capricci di un egotico irrazionale con ambizioni folli in cui la distruzione diventa il dio a cui votarsi.

Noi Esseri Umani possiamo tutto, non dovremmo perché non siamo abbastanza intelligenti per autogestirci, ma in realtà possiamo tutto.

Questa è sempre stata e sempre sarà la nostra rovina.

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(200) Buddha

Budda (o Buddha) s. m. [dal vedico buddhá– «svegliato, illuminato», part. pass. di bódhati]. – 1. Epiteto del principe indiano Gautama (c. 560-480 a. C.), fondatore del buddismo. Con riferimento alla posizione in cui è rappresentato nell’iconografia ufficiale, sono com. le frasi stare seduto come un B., e sembrare un B., per indicare non solo la posizione a gambe incrociate ma anche, in genere, un atteggiamento di solenne e indolente immobilità, soprattutto di persona un po’ pingue. 

Mi trovo qui in posizione buddhica. Tra l’altro è Pasqua. Se qualcuno ora mi sta leggendo ci troverà zero senso in questo forzato collegamento mentale, ma il senso a volte scorre sopra o sotto o accanto e raramente troppo in superficie.

La mia indolenza è dovuta allo stato di sbigottimento per gli accadimenti politici che stanno coinvolgendo tutto il nostro benedetto pianeta. Nostro malgrado, ovviamente, perché non siamo noi a decidere. O meglio: quando possiamo decidere scegliamo gente votata alla distruzione di massa, non è che abbiamo il diritto di pretendere altro.

Fatto sta che l’atteggiamento solenne e indolente di immobilità che il Buddha ci presenta come alternativa, lo preferisco al parlare a vanvera e sparare a raffica idiozie senza conoscere in profondità argomentazioni e dinamiche.

Il bel tacer che non fu mai scritto mi è molto caro, per svariati motivi, ma più invecchio e più lo vedo come unica salvezza quando il mondo esplode.

L’immobilità non è passività, non come la intende il Buddha. L’indolenza non è supponenza per il Buddha. La posizione, per me scomodissima, è comunque eretta e di accoglienza. Senza che un capello si muova, con il sorriso sulle labbra. Non di derisione, ma di accettazione.

Tutto questo ha senso, ma scorre in profondità e se stai urlando e bestemmiando, se ti stai agitando come un ossesso per infierire contro chi ti appare vulnerabile e pertanto bersaglio ideale, questa profondità ti è negata.

Il mio sguardo si abbassa, per vedere meglio. Non fuori, ma dentro di me. Poi vedrò cosa fare. Non ora, poi. E anche Gesù la pensava così, per morire e poi risorgere doveva per forza pensarla così. Il cerchio si chiude. No?

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(199) Luminescenza

luminescènza s. f. [der. del lat. lumenmĭnis «lume»]. – In fisica, processo di emissione della luce, e in generale di onde elettromagnetiche, in cui il fenomeno consegue a transizioni elettroniche tra stati energetici diversi di un sistema atomico o molecolare.

Quando scelgo le cose mi baso su questo principio fisico: l’emissione della luce. Non bado ai dettagli, ma alla luce che l’idea, la situazione, le persone fanno arrivare fino a me. Che poi la veda solo io è cosa da discutere, non credo sia così, ma che io me ne accorga e non tutti lo fanno questo è un dato di fatto.

Molto spesso neppure i fautori di tale emissione se ne rendono conto, allora  il mio compito è di mettermi lì accanto a loro e far notare, onda dopo onda, quello che loro stessi stanno creando.

Se a un primo momento vengo guardata come una povera pazza, non escludo di esserlo tra l’altro, con il passare dei minuti, trovando le parole giuste, i loro occhi iniziano ad acquistare sensibilità. Forse non percepiscono ancora la luminescenza che ricevo io, ma cominciano a focalizzare la propria attenzione su quel movimento impercettibile di onde che possono fare la differenza.

Credo che in poche parole sia questo il mio compito, captare la luminescenza per avvicinarla agli occhi di chi ne è fautore inconsapevole perché… perché… forse perché manca di amore nei confronti di se stesso, o forse perché nessuno glielo ha mai detto che la sua luce è importante.

Sì, non faccio altro che questo, tutto il tempo. E mi piace. Moltissimo.

La luminescenza poi prende forma e nuovi colori e vedo accadere meraviglie. Sarò anche pazza, ma questa cosa della luminescenza me la tengo cara finché posso.

 

 

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(198) Chiavi

Può aprire e può chiudere. Dare accesso o negare l’accesso – se non la possiedi o se hai quella sbagliata. Quella che apre un’altra porta.

Parliamone: ho un mazzo di chiavi piuttosto consistente. Diverse forme e grandezze, diversi materiali e diverse fattezze, di tempi antichi e tempi recenti. Belle da guardare e fantasticarci su. Chissà cosa aprono e chissà cosa avranno in serbo per me. Soprattutto: chissà perché ce le ho io, io che non so dove diavolo usarle.

Partendo dal presupposto che una chiave serve ad aprire-chiudere, altrimenti non sarebbe una chiave, scoprire che porte o che forzieri aprono è un’ambizione lecita (a mio umile parere). Non so perché questo mazzo di chiavi ce l’ho io, anche questo è un cruccio che mi sento di affermare in tutta tranquillità sia lecito avere. Ci sono nata, non me le sono scelte io, e a qualcosa serviranno.

Facendomi forte di questa conclusione, negli anni, ogni volta che trovavo una serratura ci buttavo l’occhio. Tanto per indovinare se una delle mie chiavi potesse appartenere a quel luogo specifico. Non so come sia avvenuto – forse un mero calcolo delle probabilità lo spiegherebbe – ma ho trovato spesso la chiave giusta per aprire la porta giusta, o anche alcuni forzieri, lo dico con sollievo e orgoglio. Questione di culo, forse, ma anche di caparbietà.

Detto questo, sono lieta di notare come più chiavi ti permetti di utilizzare e più il portachiavi prolifichi. Una sorta di gioco di prestigio, lo guardi e lo riguardi, ma senza capirci nulla. Come diavolo può accadere?

A me accade, anche se la comprensione è ancora per me un evidente accesso negato.

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(197) Armonia

Una ricerca incessante, paziente, che non è mai sazia senza per questo rivelarsi avida. Soltanto imprescindibile.

Inarrestabile, una forza inarrestabile. In ogni cosa che faccio, sempre. Anche mio malgrado, anche quando potrei chiudere un occhio, anche quando mi crea un sacco di fastidi, anche quando ci rimetto, anche quando sono stanca e vorrei solo dormire e fregarmene di tutto. Anche quando non ce ne sarebbe bisogno perché nessuno se ne accorgerebbe mai… 

Spesso l’armonia è la parte solida di quel che sono, non perché io la possegga (la mia ricerca è prettamente egoistica), ma perché è lei a possedere me e non c’è trattativa in questo. Più la cerco e più lei mi sfugge, pur tenendomi per il bavero. Una situazione grottesca, lo ammetto.

Eppure, quando per un istante la sfioro e lei mi sorride… vale tutto. Tutto.

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(196) Panchina

Essere messo in panchina non è cosa bella. La prendi male anche se sai che è una mossa necessaria, la prendi male e basta. Tu vorresti stare in campo e invece non puoi, sei lì a guardarti la partita e a scrocchiarti nervosamente le nocchie.

Decidere, però, di startene un po’ in panchina è un gran lusso. Voglio dire: ti scegli la panchina che ti pare migliore, quella un po’ al riparo e che ti dà modo di goderti un bel panorama e ti siedi, accavalli le gambe e pensi a niente (per almeno i primi trenta secondi).

La cosa migliore sarebbe una panchina dove non ci sia troppo passaggio, nessuno che ti si siede accanto, neppure per allacciarsi le scarpe, e nessuno che ti passi davanti – perché quando si è assorti nei propri pensieri i movimenti d’ambiente possono dare noia.

Una panchina usata e goduta in condizioni del genere è un lusso, ribadisco.

La questione che si pone, però, è che dopo anche un’oretta che te ne stai lì per i cavoli tuoi e tutto è perfetto, devi ritornare a vita sociale. Ti alzi, t’aggiusti i pantaloni e la camicia/maglietta e t’incammini per dove sai tu, senza girarti indietro altrimenti la tentazione di rioccupare la panchina sarebbe troppa.

Stare in panchina, questo voglio dire, è cosa a tempo determinato. Sembrerà pure ovvio, ma non lo è. Non lo è per nulla. D’altrocanto son ben poche le cose ovvie a questo mondo, diceva mia nonna. E mia nonna non sbagliava un colpo, neppure uno, lei.

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(195) Caffè

C’è bisogno ognittanto di lucidarsi il pensiero. A me sta bene che alla maggior parte delle persone la cosa risulti fastidiosa, ma ognittanto anche se ti dà fastidio ti metti lì e ripulisci tutto. Devi prenderlo come dovere nei confronti del tuo cervello, non si può vivere nella nebbia tutto il tempo.

Ok, potresti scoprire che ci sono cose che devono essere sistemate, potresti scoprire che ci sono grosse scemenze che hai fatto-pensato-detto che devono essere sanate, potresti scoprire che sei solo uno stronzo e che sarebbe ora di cambiare. Ecco: potresti scoprire qualcosa che non ti piace. Oppure potresti scoprire che quello che tu temevi di scoprire non è così grave. Potresti scoprire che non sei quel mostro che pensavi, anche se rimani uno stronzo (per certe cose mica possiamo pretendere miracoli). In ogni caso, a ogni modo, nonostante tutto: devi farlo.

P-U-L-I-Z-I-A.

Perché se la cosa riguardasse solo te, allora contento tu contenti tutti, ma la cosa non riguarda mai solo te. La cosa coinvolge tutti quelli che ti stanno attorno, tutti quelli che se ne devono prendere carico in modo diretto o indiretto. La tua pigrizia e irresponsabilità, la tua mancanza di pulizia, ricade sugli altri e non è più una questione privata.

Potrebbe non fregartene un tubo degli altri, ma rifletti un attimo su ciò che ti aspetta se continui di questo passo: solitudine. Quella dura, quella brutta, quella crudele, quella per sempre. E ora che lo sai, se non vedi di rimboccarti le maniche per darti una lucidata ai pensieri non avrai scuse. E non meriterai compassione.

Ecco: inizia con un buon caffè. Forte, senza zucchero, tazza grande.

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(194) Password

Mi sono accorta, con grande divertimento, che da molto tempo sto usando una password che mi permette l’accesso a luoghi privati che non mi appartengono ma di cui mi posso prendere cura – e farlo per bene – senza farmi notare.

Bellissimo.

Allo stesso tempo, mi sono accorta che ho impostato una password decisamente a prova di bomba affinché nei miei luoghi privati possano avere accesso solo un certo tipo di persone. Persone che senza che io gliela sveli, questa stessa password ce l’hanno già dentro – nel proprio DNA – e naturalmente ne fanno uso. Anche e soprattutto inconsapevolmente.

Bellissimo anche questo.

Lo consiglio a tutti: createvi delle password e usatele con criterio, la vita diventerà un gioco di meraviglia e gioioso calore. Davvero.

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(193) Universo

Ognuno ha diritto a crearsi il suo personale universo e di essere, per questo, lasciato in pace. Un universo è cosa delicata, cosa privata che deve essere protetta altrimenti si sciupa.

Non dico che dev’essere un segreto, ma quasi. Dentro all’universo succedono cose che non si possono dire perché non ci sono parole abbastanza lucenti per farlo bene. E se non lo puoi fare bene allora lascia perdere, non farlo e basta. Pensalo, sognalo, guardatelo in silenzio come se fosse una preghiera. Ma tienitelo per te.

Insegnare alla gente che un universo si deve rispettare – di qualsiasi universo si tratti – è una partita persa. Non è neppure colpa loro, non riescono a guardarli e basta gli universi degli altri, devono per forza metterci il naso e il giudizio e tutto viene sporcato e gli universi, si sa, sono permalosi, possono anche decidere che implodono e boom. Più niente. Niente universo, niente luccicchii, niente di niente.

Buco nero, si chiama. Un buco nero non è la fine, è solo un condensato di universo che è imploso e che per ri-uscire allo scoperto deve essere convinto. Ci vuole una pazienza santa e tanto amore per riuscirci.

Teniamo lontana la gente dal nostro universo o il buco nero risucchierà anche noi. E non è per niente bello. Fidatevi.

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(192) Re

Non è che il titolo di Re lo si dà a tutti, così perché fa figo. Non funziona. Nessuno dovrebbe portarsi addosso un carico del genere senza esserselo almeno guadagnato e aver dimostrato di essere il migliore. In qualcosa, non in tutto, ma il migliore. Punto e basta.

Non è un titolo che si passa alla progenie, succede da sempre ma non è così che deve essere. Stiamo sbagliando.

Non è un vezzo per chi fa della vanità una virtù da sbattere in faccia agli altri. Un Re sa essere umile senza abbassare lo sguardo, sa essere sicuro di sé e determinato senza prevaricare sugli altri, sa essere saggio e lungimirante per guidare chi manca di visioni e di buonsenso. Un Re sa essere perché è. Sarebbe lo stesso anche senza titolo, senza corona, senza reame.

Un Re è un Uomo che può prendersi l’onere di esserlo perché consapevolezza e coraggio lo sorreggono anche quando le gambe gli cedono.

Una Regina? Lei molto di più. Ma davvero molto di più. Senza che nessuno lo sappia, senza che qualcuno glielo riconosca, senza bisogno di mostrarlo a tutti. E sempre. Instancabilmente sempre.

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(191) Eclissi

Mi è successo spesso di assistere a un’eclissi. Lasciando da parte quella del sole e della luna e di eventuali altri astri e affini, non mi è sempre dispiaciuto. In certi casi è stato un vero sollievo, veder sparire chi mi stava decisamente rovinando le giornate senza che io dovessi far nulla di particolare (il mio potere del desiderare-fortemente-qualcosa-finché-accade spaaaaaaacca) è stata una liberazione.

Eppure, se potessi far riapparire altre persone sarebbe bello. Quelle, quando si sono eclissate, mi hanno lasciato un gran vuoto.

Ora: il mio sacrosanto diritto a eclissarmi lo difendo con le unghie e con i denti, lo utilizzo a mio piacere e in ogni momento in cui ne sento il bisogno, senza far torto a nessuno e senza far danno a nessuno, ma senza far differenze di sorta perché quando lo faccio è davvero necessario che io lo faccia.

Se riappaio è perché sono guarita, perché sto bene, perché ho ancora voglia di essere parte della vita degli altri. Se non capisci non importa, basta che lo accetti senza fare domande. Se non lo accetti non importa, significa che nella tua vita io non è il caso che rientri. Patti chiari e lunga vita a tutti.

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(190) Filtro

Filtrare è sinonimo di depurare (liquidi), ma anche di penetrare (luce) o trapelare (notizia) o addirittura selezionare/vagliare (quando si sottopone qualcosa/qualcuno ad analisi dettagliata). Il significato muta in relazione alla sostanza a cui si deve legare/accompagnare. Grande lezione, vero?

Se uso un filtro per far sì che le cose o le persone arrivino a me soltanto se per qualità e sostanza che hanno saputo attraversarlo (decido io il tipo di filtro da usare), mi evito un sacco di fastidi legati al dovermi sbarazzare di ciò che non voglio.

Se, però, uso un filtro inadatto al mio scopo (non conforme alla qualità/quantità/sostanza di ciò che sto filtrando), non mi faccio un buon servizio. Affatto.

La difficoltà sta tutta lì: scegliere il filtro giusto. E non si impara subito, ci vuole una vita intera per capire al volo quale filtro usare e con chi o cosa usarlo. Mettiamocela via, iniziamo a imparare.

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(189) Osservare

Essere capace di mantenere l’attenzione dentro e fuori di me: questo è scrivere, questo è vivere. Non sempre ci riesco, mi divido tra quello che c’è dentro e quello che c’è fuori e perdo pezzi di uno e dell’altro. Questi periodi di stordimento sembrano durare un’eternità, perché quando si è divisi tra dentro e fuori non si sta per nulla bene. Il tempo si dilata mentre tu sei immobile e sospeso.

Ecco dove diventa vitale l’osservazione. Osservare anche le tue reazioni mentre sbarelli è un lavoro necessario, perché tanto quello sbarellamento finisce prima o poi e dovrai riprendere il controllo con quello che ti è rimasto.

Valutando i miei ultimi mesi posso tranquillamente ammettere che sono rimasta chiusa dentro e chiusa fuori a fasi alterne e la separazione mi ha estenuato. Riprendere il controllo diventa possibile ora soltanto perché ci sono già passata e mi ricordo come si fa, come devo fare. Lo farò. Anzi, lo sto per fare.

Tra adesso e il successivo poi, però, osservo tutto. Il mondo che attorno si muove come può e come sa, a volte mi diverte, altre mi infastidisce o mi disgusta, altre mi riempie di meraviglia e bellezza. Questa cosa rende il recupero piuttosto arduo, troppe cose tutte insieme non so gestirle.

Va bene, inizio da qui e vediamo fin dove riesco ad arrivare. Con calma, eh!

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(188) Volto

Sinonimi di volto sono anche: animo, carattere, indole, natura. La dice lunga, vero?

Sono affascinata dai volti umani, leggerli è diventata un’abitudine intrigante. Funziona soprattutto con le persone che non conosco, in questo modo non vengo influenzata da ciò che penso di loro o da ciò che so di loro.

C’è una sorta di magia che lega il nostro mondo interiore al nostro volto. Se stiamo male i segni possono alterare non solo la nostra espressione, ma anche le sue stesse fattezze. La felicità fa del nostro volto una tela su cui posare sberluccicanti cristalli che lo illuminano come una passata di glitter.

Se è vero (e lo è) che il volto si modella assecondando il sentire, l’odio ti sfigura i lineamenti  mentre l’amore abbraccia i cambiamenti del tempo e solleva il peso degli eventi.

Il volto, la voce, gli occhi, le mani. Siamo biblioteche affascinanti, e pressocché infinite, in movimento perpetuo. Quanta ricchezza ci portiamo addosso senza neppure accorgercene!

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(187) Attesa

Attendere il momento giusto. Per quanto io odi ammetterlo, sembra che la mia esistenza si possa sintentizzare in questo concetto: attesa. E se volessi proprio dirla tutta, potrei anche ammettere che non è un modo scellerato di far passare il tempo per quanto riguarda me. Nel frattempo, infatti, io faccio.

Rimane seccante, però. Il momento giusto ha tempi giurassici, dentro di me succede tutto molto in fretta e aspettare che la vita soddisfi ciò che la mente ha già processato è sfinente. Ti senti sempre in ritardo, sempre un passo indietro.

L’attesa riempita di mille cose è l’unico metodo utile da adottare se voglio sopravvivere alla frustrazione della dilatazione spazio-temporale che mi affligge. E che sia chiaro che ci sono attese per cui proprio non ne vale la pena, appena te ne accorgi dovresti toglierle dalla lista. D’altro canto, essere parcheggiati in lista d’attesa non è cosa bella per nessuno.

 

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(186) Centro

Quando i pensieri diventano liquidi e non riesci a dare loro forma è il caos. Stai lì a domandarti cose assurde aspettandoti di ricevere risposte sensate. Più non arrivano e più domandi, più domandi e più sei frustrato dalla confusione.

Poi la domanda ti arriva da fuori, solitamente te la fa qualcuno che ti è vicino e si è accorto che mica stai benissimo. Casualmente oppure no, non ha importanza. Rispondi la prima cosa che ti viene in mente perché non hai voglia di impegnarti più di tanto – visto che non ne ricavi nulla di buono da settimane – e… zop!

Ti esce, sì proprio dalla tua bocca, una risposta che contiene tutte le mille altre che rimanevano in sospeso, centrando in pieno la questione. Dura solo un nanosecondo, ma te ne accorgi che lì sta il punto di tutto. Ti isoli, cerchi di ripercorrere a ritroso il pensiero e quello si è già dileguato.

Se sei Barbara, in questi casi cosa fai? Una doccia, ovvio.

Bollente.

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(185) DNA

C’è un modo strano, spesso, che la vita usa per metterti davanti a un dato di fatto che tu hai fino a un istante prima ignorato (volutamente o meno non fa differenza). Incontri nel reale quella cosa e ti devi fermare per registrarla una volta per tutte.

Mi è capitato stasera, mi sono dovuta fermare e l’ho finalmente registrata.

Scendere in particolari diventerebbe noioso, ma è più la sostanza di quello che sto sentendo in questo momento che voglio sia scritta una volta per tutte, ovvero: sollievo.

Il mio DNA non è senza criterio. Non è uno sbaglio della natura. Non è un caso fortuito. Non è senza ragione. Davvero è il risultato di una mescolanza, di una formula il cui dosaggio può non essere riconducibile con precisione a un’origine o all’altra, ma è comunque il frutto di un calcolo che va oltre me.

Può non avere senso, detto così in generale, ma a togliere tutto il superfluo resta il sollievo. Che ha a che fare con uno strano e ridicolo sentimento di riconoscimento, uno strano e ridicolo sentirsi meno sola, uno strano e ridicolo ricondurmi a un perché senza che il perché sia costrizione, ma semplice presenza.

Sollievo. Non cambia nulla del mio reale, forse, ma cambia qualcosa dentro dentro dentro in fondo a me.

Come scoprire che quel qualcosa che avevi perso e di cui ti eri obbligata a fare a meno, perché non sostituibile, ti comparisse davanti per rientrare nuovamente nella tua vita. Sai che ne potresti ancora fare a meno, ma benedici il fatto che sia lì ad arricchire la tua esistenza, ancora.

Esattamente così.

 

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(184) Aridità

Mi ha sempre sconvolto trovarmi di fronte all’aridità dell’anima di certa gente. Il loro vietarsi di sentire se non attraverso il proprio interesse è disumano. Non c’è un altro modo per dirlo: disumano.

Mi posso pure domandare l’origine e quindi la causa di tale aridità, ma alla fine non servirebbe a sanare questo enorme vuoto di umanità. Sapere i perché non ti mette al riparo dalle conseguenze che le azioni disumane ti rovesciano addosso.

Penso spesso alla legge del taglione, a quel “occhio per occhio, dente per dente” che forse è l’unico modo per far capire a chi è privo d’umanità che il dolore (quello che non è problema loro) se lo provi diventa reale e molto tuo. A volte vorrei che questa gente mostruosa provasse esattamente quel dolore che loro stessi provocano con le proprie azioni e le proprie parole intrise d’odio, per risvegliarsi dall’abbruttimento in cui sono precipitati, chissà come e chissà quando.

No, non a volte. Sempre più spesso glielo auguro. E sì: mi sto abbruttendo pure io.

 

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