(470) Catarsi

Pensavo di dover lavorare molto per ottenere ciò che volevo. L’ho fatto, ma non sono mai riuscita a ottenere quello che volevo, mi sono sempre fermata un passo prima. Non lo so il perché.

Pensavo di dover impegnarmi molto per diventare ciò che volevo essere. L’ho fatto ma ancora non sono riuscita a essere ciò che voglio veramente essere. Non credo ci riuscirò mai.

Questa presa di coscienza non è recente, risale perlomeno a un quindicennio fa, eppure faccio fatica a digerire certe verità, mi ci vuole davvero molto molto tempo. Mentre passa il tempo faccio conti e bilanci, rimurgino, rivivo vicende e circostanze nella stanza buia delle memorie e mi tormento non poco. Il Perdite e Profitti non torna mai, ancora oggi non so come io abbia fatto a prendere 8 nel compito di ragioneria degli esami di maturità. Culo, non c’è dubbio.

Fatto sta che tutto questo struggimento senza fine, senza senso e senza possibilità di rivalsa perché ciò che è stato è stato, ha un luogo dove viene sospeso e per quel tempo in cui sono lì non esiste più.

Quel luogo è stretto e spaziosissimo, è profondo, altissimo e claustrofobico. Un luogo non sempre accessibile, non sempre comodo, non sempre solido. Fa caldo e fa freddo, è umido e secco. Un inferno, raramente un paradiso. Eppure, arrivo lì e non esiste più nulla di certo, il reale si rende effimero, l’effimero si concretizza.

Quella catarsi mi mantiene viva. Mi fa sopportare tutto quello che non sarò mai, tutto quello che non avrò mai, tutto quello che non oserò mai sognare, tutto quello che non so neppure di ignorare. Non lo so dire meglio, ma credo di essere fortunata.

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(469) Apoteosi

Ci sono momenti di una precisione sbalorditiva, dove tutto quello che prima era caos si palesa in disegno perfetto. Perfetto nel bene e nel male, intendo. Non so come descrivere in modo appropriato la condizione che si va a creare, sono sicura che ci sono Leggi fisiche che ne determinano la nascita, la durata e l’eco, ma ogni volta che mi ci sono trovata in mezzo l’ho saputa riconoscere a naso.

Ne senti l’odore, alzi il viso, sniffi l’aria e arriva. La certezza che quello è il momento della catarsi, dove tutto trova posto e ha un senso che fino a pochi secondi prima non aveva. Ogni Essere Vivente sa di cosa sto parlando. Gli animali e le piante lo sanno meglio di tutti, sono i più veloci del Creato a rendersene conto perché non lo devono tradurre in pensiero e parole, basta il sentire e tutto diventa chiaro: sanno cosa fare e come farlo e lo fanno.

Noi ci mettiamo un po’ di più, l’apoteosi emotiva  si fa fatica a maneggiarla, rischi che ti scivoli di qua o di là, che si gonfi e che ti avvolga come zucchero filato su uno stecchino per farti morire soffocato. Insomma, mica son cose da prendere alla leggera!

Spesso decidiamo che il rischio di rimanerci secchi è troppo alto e facciamo come se non ce ne accorgessimo, ma il naso non lo puoi controllare, sniffare l’aria è un attimo e da lì non c’è ritorno. In un nanosecondo dal caos si fa ordine, dall’insensato prende forma la logica, dal pressapoco si passa al nitido.

L’apoteosi. E non è tanto per dire.

 

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(468) Stoicismo

stoicismo s. m. [der. di stoico]. – 1. (filos.) [dottrina e scuola filosofica, fondata in Atene nel 3° sec. a. C. da Zenone di Cizio, che attribuisce carattere di verità unicamente alle sensazioni capaci d’imporsi al soggetto per intrinseca evidenza] 2. (estens.) [l’essere imperturbabili nell’affrontare i dolori fisici e morali e le avversità della vita: sopportare con s. una grave e dolorosa malattia] ≈ impassibilità, imperturbabilità.

Un paio di giorni fa mentre scrivevo il mio post qui sopra ho notato che c’erano degli aggiornamenti di alcuni plug-in da fare. Mi sono fermata e li ho fatti. Uno di loro si è inceppato – diosasoloilperché ma non è importante – e il monitor è diventato tutto bianco con scritta criptica che tradotta malamente significava: hastalavistababy.

Nel senso che proprio non riuscivo più a entrarci nel blog, neppure da un altro device, niente di niente di niente di niente.

Avrei potuto prendere a martellate tutto, tanto dei miei Giorni Così non era rimasto nulla. Ma non l’ho fatto. Sono andata dal mio host e ho aperto un ticket. Si è palesato in neppure cinque minuti Andrew (che io qui chiamerò Saint Andrew). In un battibaleno mi ha risolto il problema. Più che fortuna è stato veramente un miracolo, un miracolo di Saint Andrew. Un secondo prima non c’era più niente, dieci minuti dopo era ricomparso tutto. Houdini al confronto era scemo, giuro.

Lo sto scrivendo perché ho sedimentato solo ora il trauma e posso dichiarare ufficialmente di aver abbracciato – incosapevolmente eppure durevolmente – lo Stoicismo come filosofia di vita. Era dentro di me, era lì e io non lo sapevo. Era lì e ha già fatto bella mostra di sé in diverse occasioni (ma tante tante tante davvero) e io non l’avevo quasi notato.

Sono esterrefatta e deliziata da questa scoperta, da questa risorsa, da questo potere magico.

Stoicismo Forever – it’s the new rule.

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(467) Menomale

Tutto attaccato, sì, non è un errore, è un modo d’essere. Menomale è quell’espressione di sollievo che scaturisce da un fatto spiacevole. Non lo dici per le cose belle che ti accadono, ma per la cosa che salva il brutto per un pelo. Ti viene proprio dal cuore, è naturale, è liberatorio, è consolatorio.

Menomale funziona quasi come il “perfortuna”, solo che è più onesto, non è frutto di un calcolo d’interesse, è proprio il pesetto che metti sul bilancino che rimette leggermente in pari le cose.

Menomale che ho fatto in tempo a rincasare prima che la casa mi andasse totalmente a fuoco. Capito? La casa comunque è andata un po’ a fuoco, ma non totalmente. Il male c’è ma è meno, ovvero: menomale.

Ora, per chi non bazzica troppo volentieri le parole è una cosa da nulla, ma con l’andare del tempo il mio menomale-pensiero si è andato fortificando e ha svolto un ruolo fondamentale nella gestione della mia sopravvivenza. Il segreto sta nell’individuare lo scenario peggiore per quella data situazione è portarlo come confronto ultimo: menomale che cadendo dalla bici, a velocità piena, in discesa sui tornanti, ho sterzato a destra anziché sinistra perché altrimenti volavo giù dal dirupo!

Hai il naso sfasciato, un braccio rotto, la bici è diventata un cumulo di briciole d’acciaio, ma… non ti sei sfracellato precipitando là sotto. Fortuna? Ehmmmm, no. Perché se avessi avuto veramente fortuna non ti saresti rotto il braccio e sfasciato la faccia, saresti finito sull’erba e non sul muretto, la fortuna è sfacciata, mica gioca di fino. No, il menomale denota una prontezza di riflessi, una presenza, un’agilità che nessun’altro se non tu stesso avresti potuto avere in quel maledetto frangente. I tuoi nervi saldi, la tua esperienza, tu: questo è il menomale.

Il menomale toglie potere alla fortuna, così come alla sfortuna, per riporlo nelle nostre mani e renderlo valore aggiunto del kit di sopravvivenza di cui la vita ci impone l’acquisto. Ci fa prendere in carico il fatto che anche nella sfiga più nera, se guardi meglio la situazione, trovi un angolo dove un menomale ti aspetta. Non devi far altro che prenderlo velocemente e farne uso.

Menomale che l’ho scritto, avrei anche potuto dimenticarlo e mi sarei fatta un torto perché questo è uno di quei consigli che mi darei quando sbattere la testa al muro sembra l’unica soluzione.

Un menomale non è per sempre, ma solleva sempre, proprio sempre. E menomale!

 

 

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(466) Quiete

Un’aspirazione più che una possibilità. Quello stato d’animo che ti fa dire “massì, va bene così”, senza morderti le labbra, senza sospirare, senza bisogno di voltare il viso per non far trapelare l’amarezza. Ecco, quella cosa lì mi piacerebbe. Certe persone possono, sanno, io no. Il mio vabenecosì è amaro, è umiliato, è triste. Peggio di quello cantato da Vasco, peggio. Ma si può? Eh, sì.

E a vent’anni non ci avrei creduto che finivo così, ma poi le cose sono precipitate. Certo che la vita ti impone un fantastilione di vabenecosì, ma bisognerebbe anche che ti desse modo di digerirli meglio. Ma come si fa? Non lo so.

La mia quiete nasconde la tempesta, non la precede e non la segue, l’accompagna. La mia quiete alimenta un fuoco, una fame, un’ambizione che si fa presto a dire vabenecosì, non va proprio bene così. Perché il fuoco ti brucia lo stomaco, la fame ti sgomenta il cervello, l’ambizione fa di te un fantoccio. Non va proprio bene così. Andrebbe bene, invece, la tranquilla accettazione, la sorridente arrendevolezza di chi non cerca altro. Andrebbe bene sedersi senza far ballare le ginocchia come se stessi morendo dal freddo. Andrebbe bene guardare l’oggi e respirarne il sollievo senza la tachicardica angoscia che strozza la voce. Andrebbe bene anche soltanto darsi un tempo, breve, per godersi il fatto di esistere – in qualche modo, con alti e bassi, senza illusioni.

La quiete, quella autentica, ti rincuora da tutto. Ti ripaga di tutto. Credo, però, sia troppo tardi per me: ho conosciuto il fuoco, la fame, la febbre. Che non si dimenticano, che non si lasciano. La quiete è seduta laggiù e mi guarda sorridendo: “Vabenecosì,” sembra dire, “vabenecosì”.

Le devo credere?

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(465) Ossimoro

I miei pensieri sono l’apoteosi dell’ossimoro. Una lucida pazzia, per alcuni versi, un silenzio eloquente, per altri, e sempre sempre sempre un tacito tumulto nelle viscere. Non li posso addomesticare, i miei pensieri vanno dove vogliono e mi trascinano per i capelli, di qui e di là. Stancante, giuro.

Se da un lato ringrazio il Cielo perché almeno ci sono, il vuoto cosmico neuronale mi fa gelare il sangue, dall’altro mi impongo a periodi un certo rigore. Manco a dirlo, il fallimento è assicurato perché più spolvero e più la polvere si fa.

Capita che, quando sono presa dallo sfinimento, lasci andare le cose così come vogliono andare e nove volte su dieci non mi rimprovero per questo, neppure quando il disastro mi si palesa in tutta la sua mostruosità. La volta che mi rimprovero passo settimane a ripigliarmi, ho un senso autocritico devastante, e un altro buon proposito per questo 2018 è di smetterla di rimproverarmi. Chissà se andrà meglio.

Ritornando all’ossimoro life style, sto sospettando che sia un modo strambo ma efficace di mantenere un certo pseudo-equilibrio. Non solido, forse non troppo reale, ma che per un po’ ti traghetta onorevolmente da una sponda all’altra del fiume senza per questo farti colare a picco per forza. Una teoria leggermente azzardata, me ne rendo conto, ma ho a che fare con due neuroni due, non posso pretendere da me filosofia avanzata – se non quella del pranzo di ieri.

Insomma: essere seriamente giocosa o giocosamente seria? Questo è il dilemma. Io propongo una bella Guinness con abbondanti dippers. Chi è con me alzi la mano!

 

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(464) Big-bang

Si fa presto con la teoria, in un Universo con dimensione zero e una densità di materia infinita. Ci si proietta in un inizio che non sa più neppure contare il tempo, dove il cervello perde capacità di tenuta e scivola via nell’intuizione fantastica, e fingiamo di non accorgerci dei micro big-bang che viviamo in prima persona, mentre dovremmo evolvere e non evolviamo!

C’è da rimanerne affascinati, incantati dalla dinamica energetica che ha le sue leggi e ha la sua crescita immutabile, eppure quando si compie è sempre il miracolo. Non osavi neppure sperare che da quella densità spropositata, dove ti senti implodere senza più ritorno, la forma si esplicitasse invitandoti ad accompagnarla. Se è lì, è lì per te. Se non la vedi, è per la paura di incontrare l’insondabile mistero che ti riguarda e che non puoi consegnare a nessun altro soltanto per disfarti di un peso.

Ma se osi, se ti fermi, se ti ascolti, se rimani lì, se credi che non è fine ma inizio, se ti dai un altro giorno prima di crollare, allora a un certo punto del processo riconosci l’inversione di rotta e dalla densità senza fine arrivi in pochi balzi all’apertura, al sollievo, all’incanto del “ci siamo, ci sono”.

Che poi l’Universo non ha bisogno di spiegazioni, l’Universo è. La vita non ha bisogno di spiegazioni, la vita è. Siamo noi Esseri Finiti ad averne bisogno perché spesso non siamo, non vogliamo esserci. E quanta sofferenza in questo viaggio, e ogni volta mi dico “ma sarai scema a stare così male, tanto mica muori!” e ancora non credo, ancora non mi affido, ancora non ci sono.

Mi do ancora una possibilità, ancora un incanto, ancora uno. Dovrò pur imparare qualcosa, prima o poi!

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(463) Utilità

L’utilità di una cosa, di una situazione e addirittura di una persona, la si può verificare solo in corso d’opera. Mentre la stai vivendo ti accorgi di quanto è valida, efficace, di quanto ti avvantaggia. Prima lo puoi supporre, ma non ne puoi essere certo, anche se la stessa cosa o situazione o persona ti è stata utile in altro frangente. L’utilità ha valore sensibile ai tempi, alle condizioni atmosferiche, alle contingenze. Una cosa utile sempre e per sempre non esiste, a meno che non siamo noi a intestardirci a ritenerla utile perché ci è comoda. Ricordo, per pignoleria non per altro, che comodo – anche se sinonimo di utile – non corrisponde pari pari a essere efficace o valido. La comodità può essere dovuta a un uso/pratica costante che ci diventa automatica e pertanto comoda perché non dobbiamo pensarci, la facciamo e basta.

Detto questo, riflettevo sul concetto di utilità procedendo per contrari: inservibilità, inutilità, nocività ecc. e valutando il tutto direi che dovrebbe essere buona pratica disfarsi di tutto ciò che si è reso inutile perché può trasformarsi in nocivo. Un po’ estrema come posizione, lo ammetto, ma se la si mantiene come linea guida – senza per questo renderla gabbia – potrebbe anche essere che certe comodità ormai obsolete le riusciamo a sostituire con un pensiero capace di portarci vantaggi insperati.

Sto ragionando per sommi capi, se poi si scende nello specifico le cose si complicano, ma valutare questa opzione ogni tanto potrebbe rivelarsi liberatorio, se soltanto riuscissimo a dribblare l’intralcio del giudizio autocritico che ci fa urlare: Egoiste!

Come al solito le mie riflessioni sono un punto di partenza, raramente d’arrivo, specialmente quando difetto di un quintale di ore di sonno e mi riduco a digitare gli ultimi brandelli di pensiero prima di crollare a letto.

Ogni tanto penso che chi si ferma qui a leggermi deve avere proprio una gran pazienza.

Grazie.

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(462) Jump

Un salto senza preparazione è destinato a ben poco. Ogni cosa senza preparazione adeguata ha futuro incerto. Un salto, però, un salto non lo fai per caso e se non ti ci metti, se non ti prepari come si deve non hai giustificazioni di sorta. Non stiamo parlando di una scivolata, che te la cavi un po’ come puoi e se ti rompi l’osso del collo puoi sempre addossare la colpa all’incidente. Un salto è un’altra cosa, inutile nasconderci dietro un non-me-lo-immaginavo-potesse-accadere.

Nella preparazione entra in gioco l’insicurezza, quella brutta, quella che ti paralizza gli arti perché vuole che tu le dia ragione: non puoi farcela. E poi c’è l’ansia, perché non è di certo il primo salto che fai e le probabilità che sia fallimentare sono piuttosto concrete. L’ansia è bastarda, ti batte in testa, ti fa rincorrere il cuore che non ha più controllo, ti strappa il buonsenso a morsi e ride di te.

Sarebbe meglio saltare e basta, sarebbe meglio evitarle tutte queste stramaledette gabbie. Ci devi passare, devi attraversare tutto questo da solo nella tua oscurità per essere pronto, però. Che chance avresti, altrimenti?

C’è una cosa che ti dà la forza, una cosa che fai fatica ad accettare perché non sembra lì per aiutarti: la mancanza di altre strade da percorrere. Devi saltare per raggiungere l’altra sponda, non puoi che saltare oltre lo strapiombo se vuoi muoverti da lì. Non vedi oltre il tuo naso? Pazienza, fidati. Non hai gambe abbastanza forti? Pazienza, fidati. Non hai polmoni sufficienti per riempirli d’aria come si deve? Pazienza, fai quello che puoi e fidati. Non hai scelta.

La non-scelta spesso è l’unica forza che ti rimane, che ti vada bene oppure no non fa alcuna differenza, la realtà non cambia solo perché a te non piace. La non-scelta è la condizione di chi ha poco in dotazione nel suo pacchetto-vita, di chi davanti a un bivio ha una strada aperta e l’altra chiusa dopo pochi passi, non la vedi la fine? Saresti un idiota a prenderla, ti fermeresti subito.

Quindi cosa vuoi fare? Andare? Andare avanti? Ecco, ti sei già risposto. Prendi l’altra via. Come? Devi saltare? Eh, lo so. Non sei pronto? Eh, lo so. Pensi che non ce la farai? Sì, probabile, ma salta. Poi ne parliamo.

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(461) Podcast

Non avrei immaginato, dieci anni fa, che il podcast potesse essere un mondo a me affine. Un modo per creare, e soprattutto per comunicare, che si sarebbe rivelato fondamentale per la mia crescita personale e anche per quella professionale. Il mio accettare la sfida – ringraziare Simone per questo è sempre cosa buona e giusta – è stato il regalo più bello che potessi farmi e non solo per il periodo che stavo vivendo, ma anche per gli anni successivi. Fino a oggi.

Ho creato una decina di programmi diversi, tutti con una loro specifica identità, che mi hanno permesso di accompagnare in ogni momento della giornata e della notte chi volesse ascoltarli. Centinaia di persone. Non le conosco, non ho mai visto i loro visi, mai sentito le loro voci, mai saputo nulla della loro vita o dei loro desideri o sogni… eppure ho avuto il privilegio di restare con loro un po’ per condividere pezzetti di me.

Non ho mai analizzato gli ascolti – come si fa in radio – perché non volevo essere vincolata (emotivamente parlando) ai piccoli numeri o ai grandi numeri – rispetto a chi e a cosa poi ci sarebbe da discuterne – ma volevo semplicemente creare qualcosa di bello. Credo di averlo fatto, ogni volta.

So che farsi i complimenti da soli è patetico, ma questa sera non sto celebrando il mio essere brava (seppur patetica) perché non ho mai pensato di esserlo davvero e definitivamente, stasera voglio guardare agli ultimi dieci anni di lavoro onesto e dedicato e ringraziare tutto quello che il podcast ha raccolto di me e tutti quelli che lo hanno condiviso con me. Un’esperienza eccezionale, un percorso senza eguali perché nel podcasting ognuno si fa la sua strada – puntata dopo puntata – e non c’è una migliore dell’altra, sono tutte strade possibili.

Mi sto prendendo una pausa e sto già soffrendo di nostalgia, ma credo sia uno stop che devo fare e che devo fare ora. Ho un progetto in mente, che ha a che vedere con il podcast ovviamente, ma ogni cosa a suo tempo e soprattutto devo permettere al tempo di fare pulizia.

Ho messo da parte un capitale importante, che parla di umanità e di bellezza, e sarà lui a farmi ritornare davanti a un microfono per cercare ancora e ancora di raccontare una storia.

E ora… silenzio.

 

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(460) Imponderabile

Cercherò di prenderlo in mano, l’Imponderabile, e farne buon uso. Questo è il mio proposito per il 2018, che è anno nuovo ma non del tutto perché non mi posso inventare dal nulla un’altra me e questo toglierà all’Imponderabile un bel quintale di fantasia.

Un po’ mi dispiace, meriterebbe di più, ma non so che farci, mi è impossibile smantellare antichi inghippi mentali e brutte abitudini che nei miei oltre quarant’anni di vita si sono sistemati qui e là facendo massa, spingendomi a terra.

Se riuscissi a posare l’Imponderabile sul palmo della mia mano per rimirarlo in santa pace mi farebbe di sicuro meno paura. Sarebbe una conoscenza ravvicinata capace di sciogliere almeno il pregiudizio. Certo, prima dovrei chiederglielo, sarebbe buona educazione e lui potrebbe anche rifiutare, mica lo si può obbligare. Dovrei essere pronta anche a ricevere un rifiuto, sperando sia un rifiuto gentile perché i no secchi mi irritano.

Lo penso un gentiluomo, l’Imponderabile, vestito bene, profumato e sbarbato. Lo immagino elegante di modi e delicato nel farsi presente, anche quando butta male. Credo lui debba comunque seguire direttive da un Altrove difficile da individuare, molto probabilmente fare la parte del bastardo non gli piace, ma deve farselo andare bene perché sa che quello è il suo ruolo – che si tratti di un piccolo miracolo o un grande disastro non fa alcuna differenza.

Mi piacerebbe che la sua comparsa fosse, di tanto in tanto, accompagnata a una breve spiegazione, perché anche le cose brutte si possono digerire meglio se capisci le motivazioni e non sono più bastonate che piovono dall’alto con violenza ingiustificata. Le cose buone non hanno bisogno di spiegazioni, la bontà copre ogni vuoto e questo fa parte del gioco.

Non sono abituata a un Imponderabile troppo benevolo, questo è un cruccio perché sembra quasi di non meritarmelo. Forse per questo gli ho imposto una certa distanza, una certa freddezza, perché già so che quando mi si presenta alla porta non è proprio una festa – neppure quando lo sembra. Temo sarà questo lo scoglio più ostico da superare: le ferite che mai si cicatrizzano e che lasciano il sospetto attorno a fare da barriera respingente.

Ormai, però, l’ho scritto: cercherò di accogliere sul palmo della mia mano l’Imponderabile per tutto il 2018. Magari la mano mi tremerà, ma farò in modo di non stringerla a pugno perché c’è sempre una possibilità che il gentiluomo in questione possa rendermi la vita migliore. Chissà.

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(459) Veglione

C’è la quiete in una stanza dolcemente illuminata, dove il ticchettio di una tastiera fa compagnia ai pensieri trasformandoli in parole. 

C’è un’attraversata lunga 365 giorni, evento dopo evento, sotto la pioggia o sotto il sole, con il vento o senza, niente bussola e un kit di sopravvivenza sempre troppo ridotto per far fronte a ogni imprevisto che sa colpire sempre con una mira esagerata.

C’è un fare i conti per capire cosa aggiustare, cosa tenere e cosa buttare, cosa far crescere e cosa far morire, ed è una questione delicata che ti fa shiftare da un dolore all’altro con brevi sprazzi di gioia sparsa senza continuità.

C’è la preparazione a varcare l’ennesima soglia, dove la visuale è ridotta e normalmente fa un freddo porco e si sa che quando sei vestita per contrastare il gelo i movimenti risultano lenti e goffi e non ci puoi fare nulla.

C’è anche la parte dedicata ai propositi – buoni e meno buoni – e all’illusione che sì è possibile un cambiamento e sì è possibile che il cambiamento migliorerà la tua esistenza per cui abbi fede e persevera.

C’è un brindisi in una mezzanotte che non è mai mezza perché ti sembra che sia la notte più piena di tutto l’anno, dove senti l’eco di ogni cosa che ti stai lasciando alle spalle e ti auguri che a un certo punto quel dannato eco finisca.

E poi c’è il veglione, quello dove dovresti essere per non sentire tutto quello che c’è e che ti farà addormentare non felice e non subito. Un veglione dove fingeresti una leggerezza che non hai mai avuto, un divertimento che non hai mai sperimentato, un’euforia che non hai mai toccato, un amore sconfinato per ogni estraneo che ti passa accanto afferrandoti per i capelli obbligandoti a partecipare al trenino-peppe-pe-pe-pe-pe…

Alzo le dita dalla tastiera e spengo il pc, mi scolo l’ultimo sorso rimasto nel bicchiere, soffio via la fiamma della candela restando in silenzio con quello che di me rimane e che tra poche ore dovrà rimettersi in movimento. Non mi serve fingere né sorridere, mi basta essere qui e respirare il 2018 che mi aspetta.

Buon Nuovo Anno, Babs.

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(458) Underground

Sotto la superficie non è un viaggio da poco. Un po’ sospendi il respiro, non deve occupare troppo spazio per farti scivolare in profondità. Non esiste itinerario quando ti immergi, non c’è una strada già fatta da percorrere, vai al buio inciampando su questo o quello e tieni le mani davanti a te come se bastassero loro a mettere al riparo il tuo povero naso. Non è mai così, le craniate ti arrivano da subito, senza preavviso, con tutta la violenza possibile. E sanguinerai.

Non lo decido io quando, avviene e basta, e mi ci trovo già dentro fin sopra i capelli quando me ne accorgo. Dicembre sembra essere il mese prediletto, vai a sapere il perché.

Quello che veramente mi terrorizza è la possibilità di rimanere intrappolata nelle viscere di me stessa senza poter mai più risalire in superficie. Rimanere prigioniera laggiù, al buio, per sempre. Nessuno ti può garantire che non ti succederà, nessuno può salvarti se succedesse. E se ancora non è successo, non significa che non potrà accadere… magari oggi stesso.

Milioni e milioni di persone ogni giorno rimangono intrappolate durante un viaggio come questo e anche se le senti urlare non puoi correre ad aiutarle, non puoi nulla, neppure tapparti le orecchie per non sentire. Ecco come siamo messi: un Inferno.

Per darti una possibilità di risalita, però, devi trovare un appiglio. Anche un granello di sabbia potrebbe rivelarsi abbastanza solido da trarti in salvo. Usa le mani per tastare nel buio e trova la tua salvezza. Non aspettare troppo, le forze fanno in fretta ad asciugarsi e poi non ti rimarrebbe nulla. Non pensare troppo ai perché e ai come, fallo e basta. Scegli e basta. Esci e basta.

“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”

― Italo Calvino,  Le città invisibili

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(457) Gravità

Temo sia un sintomo di invecchiamento, la gravità ti piomba sul coppino e da lì non si muove. So dire con precisione quando mi è successo e la cosa non è che alleggerisca in qualche modo il carico. Quindi non serve capire il quando, non serve capire il come, non serve capire il perché… servirebbe, invece, capire come fare a togliersela di dosso e questo diventerà il mio obiettivo per il prossimo anno.

Mi rifiuto di pensare che sarà così per sempre (il per sempre che mi rimane, ovviamente) perché sarebbe come ammettere che non ci sarà respiro leggero per i miei prossimi decenni. Sarebbe una cattiveria imperdonabile da parte della vita, come sparare sulla Croce Rossa. Sono già un caso umano patetico, a che serve infierire?

Dopo questo sfogo intriso di autocommiserazione con utilità pari a zero, posso riprendere il discorso imponendomi un certo decoro: sì, la gravità farà anche parte di me – ammesso e non concesso che non me ne potrò più sbarazzare – eppure non è detto che si debba prendere la gran parte di me. Voglio dire: sarò ben capace di non farle gestire la mia vita nonostante lo sconforto che mi porto appresso!

Questa forza che ci spinge a terra, per non farci prendere il volo, ci permette di fare molte cose. Noi ci sforziamo di oltrepassare i limiti che ci impone, c’è chi ci riesce davvero spingendosi oltre e ottenendo un brandello di immortalità, ma la sfida vera è di guardarla come opportunità e non come limite. Dalla gravità succhiare via la leggerezza e ingoiarla come fosse elio che ci fa papereggiare ridicolmente e piano piano riprendere consistenza e ritornare a essere densi, dentro un corpo che ci contiene e ci garantisce la vita, poggiando i piedi al suolo che è lì che raccogliamo le forze e possiamo tentare di abbracciarci l’un l’altro senza scivolare via.

Se partissi da qui, forse, riuscirei a riconsiderare anche la mia me gravosa… va bene, mi sono convinta, riparto da qui: papereggerò!

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(456) Locomotiva

C’è chi nasce locomotrice e chi nasce per andare a rimorchio. Non credo si possa passare da una natura all’altra senza soffrirne, non credo che la si possa cambiare al volo quando ti rendi conto che non ti fa comodo: è una condizione senza via d’uscita.

Chi traina non ha scampo, deve trainare. Sempre. Chi s’aggancia per essere trainato, non ha altra scelta se non quella di farsi trainare. Se pensi di non voler essere trainato e provi a trainare è a tuo rischio e pericolo. Trainare significa pensiero solido su cui poggiare il passo e progettazione del percorso, significa costruire il senso e segnare le tappe con criterio, significa sapere da dove partire e sapere dove si vuole arrivare. Prendi con te la vita di altri, la responsabilità non si può dismettere come un abito che non ti veste più, la motivazione non te la può passare chi ti deve seguire, la determinazione non deve avere cedimenti perché frutto di pensiero-dedizione-azione ben strutturati.

Un locomotore ha in sé le caratteristiche che lo evidenzieranno in ogni situazione, spicca tra la folla, la gente si sposta al suo passaggio e volentieri si aggrappa alle falde del suo lungo cappotto per farsi un viaggio che non si sarebbe mai immaginata di poter fare da sola. E se qualcuno tra i tanti inizia a pensare che sì, anche lui può essere locomotore, allora bisognerebbe domandarsi se andare a rimorchio sia stata – fino a quel momento – una pratica di comodo o se, invece, sia una condizione di nascita. Nella seconda ipotesi non ci sarà nulla di buono nel percorrere la spinta della presunzione per spacciarsi altro da ciò che si è.

Quindi se pensi di essere nato per andare a rimorchio e ci stai male, valuta la tua natura e se sei nato locomotiva allora datti da fare. Se la responsabilità, la dedizione, il pensiero e la creazione sono per te un peso di cui puoi fare a meno, allora non sei locomotiva e, credimi,  non c’è nulla di male in questo. Vivi a rimorchio in modo dignitoso e smettila di lamentarti che le locomotive son tutte uguali: scegli quella che fa per te e collabora nel viaggio senza opporre stupida resistenza.

L’umiltà è dote sia per chi traina che per chi viene trainato, in questo siamo tutti uguali.

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(455) Eremo

Non ci resisterei troppo, al massimo sei mesi secondo me. Sarebbe un modo per disintossicarmi da 45 anni di mondo, non un abbracciare la solitudine totale per finire lì i miei giorni. 

Do per scontato che avrei un sacco di scazzi durante i sei mesi, per quanto io possa bastare a me stessa in fatto di immaginazione fantastica (e anche meno fantastisca) con un sacco di storie da scrivere e da costruire – non è che me ne starei con le mani in mano e roba del genere- non sarebbe una condizione naturale, anche se sono in origine un’introversa viscerale. La voglia/bisogno di sentire la voce delle persone che amo, la tentazione di sbirciare su facebook e via così, no non sarebbe un’avventura facile però, sicuramente, realizzerei una sorta di desiderio egoistico all’ennesima: farmi i fatti miei a dispetto del mondo intero.

Detto questo, so bene che non lo farò mai. L’Eremo è una di quelle condizioni che non realizzerò, perché sicuramente il realizzarla la renderebbe odiosa. Ciononostante, quella condizione di solitudine cerco di attuarla ogni volta che mi si presenta l’occasione e se l’occasione non mi si presenta (in certi periodi è un delirio) allora me la cerco e la strappo via a morsi dal quotidiano che mi macina.

Ho un piccolo Eremo dentro di me, molto basic, niente di chic, piuttosto freddino, niente comodità, silenzioso quel tanto che basta e accessibile solo a me. Ce l’ho, lo frequento spesso, direi ogni giorno a piccole dosi. Non sono quella delle meditazioni, non ne sono capace e mi piacerebbe tanto, ma quella delle fughe di silenzio random. Quelle mi vengono benissimo, sono una specialista.

Non sto a dire che può bastare per elevare lo Spirito, ma il mio Spirito ha compassione di me e sopporta questi stupidi escamotage che metto in atto per evitare l’esaurimento. Mi sostiene con la speranza che prima o poi mi ci metterò d’impegno e lo curerò come e quanto merita. Ora non ne ho le forze, e per quanto mi dispiaccia essere come sono, penso sempre che da qualche parte si debba pur iniziare e essere una specialista delle fughe di silenzio nel mio piccolo Eremo interiore non sia poi così male come inizio.

Spero.

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(454) Contorno

In un piatto, il contorno è pensato per dare risalto alla pietanza principale. Solitamente il contorno deve volare basso, non può avere pretese da superstar perché ciò che deve risultare indimenticabile è il protagonista della ricetta e nient’altro. 

Il contorno fuori dalla cucina ha più agio di mostrarsi, potrebbe essere che in un evento sia il contorno a motivarci a restare o ad andarcene, e il main character può anche andare a farsi friggere.

Penso che sia abominevole considerare poco rilevante il contorno, gli stiamo proprio facendo un torto. Valutando che ognuno di noi lo è stato di contorno, in più di un’occasione, possiamo empatizzare con lui e comprendere come ci si sente a essere considerati un di più. Se ci sei bene e se non ci sei bene lo stesso. E no! Ragionando così va tutto a remengo, ce ne vogliamo rendere conto o no?

Prendi una cotoletta alla milanese: senza cotoletta niente milanese, ovvio, ma senza patatine fritte che tristezza sarebbe?

Prendi un concerto di Vasco: senza Vasco non c’è concerto, ovvio, ma senza i fans adoranti che concerto sarebbe?

Prendi lo Stato Italiano: senza Governo non c’è Stato, ovvio, ma senza i cittadini che diavolo di Stato sarebbe?

Potrei continuare con dieci milioni di esempi diversi, ma il risultato non cambierebbe: il Contorno fa la differenza, il Contorno ha potere quanto il protagonista, il Contorno può – con un colpo di coda – trasformarsi nella superstar della situazione. Lo vogliamo capire una buona volta?!

Se dessimo a Cesare quel che è di Cesare e al Contorno il rispetto che di default gli è dovuto, secondo me, potremmo cambiare le sorti del nostro Destino in men che non si dica. E il Contorno saprà esserci riconoscente, perché lui è un tipo umile, che fa bene il suo lavoro anche senza ricevere premi, e che sa che a fare bene ciò che si sa fare bene non si sbaglia mai. Diamine!

Contorno is the only rule!

 

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(453) Lustrini

Sono una di quelle cose con cui combatto: ne sono attratta e respinta allo stesso tempo. So che sotto i lustrini solitamente non c’è niente di che, ma i lustrini sberluccicano che sembrano piccole stelle di luce… e così mi brilla un po’  il cuore, come se fossi ancora una cinquenne capace di sognare bei sogni.

Vabbé, vediamo di astrarre il concetto luce-che-sberluccica per sistemarlo dentro un discorso sensato non solo alla portata di una patetica cinquenne di mezza età. La realtà non è sberluccicante, per nulla, ma Madre Natura lo è. Madre Natura fa parte della realtà? Sì e no, non è parte della realtà, bensì è la realtà che ci si palesa per farci capire che dovremmo assomigliarle almeno un po’. Altro passettino al ragionamento: l’Essere Umano è sberluccicante? A volte, a intermittenza, spesso a sua insaputa. L’Essere Umano fa parte della realtà? Sì e no, dipende da quanto e cosa si è fatto (era una battuta).

Tirando le somme, non riesco a capire perché la realtà non sia sberluccicante se in potenziale comprende ben due condizioni che glielo potrebbero garantire: l’Ambiente e l’Essere Vivente. Cosa accade quindi? 

Credo che l’intermittenza psicopatica dell’Essere Umano vada a invalidare lo sberluccichio naturale della Vita sul Pianeta Terra, il che rende tutta la faccenda piuttosto schizzata. Non me ne capacito. Vogliamo davvero vivere in una realtà che non ha neppure un luccichio stellato? Vogliamo davvero opacizzare tutto per darci alla nebbia e alla tristezza? Vogliamo davvero spegnere ogni lustrino, ogni lucetta che riesce ad accendersi mentre noi brancoliamo stupidamente al buio?

Ma cosa abbiamo nel cervello? Le scimmie urlatrici? Come possiamo permettere che gli haters dei lustrini ci tolgano impunemente la gioia? Come pensiamo di sopravvivere se ci mancano i sogni quelli belli, quelli che a cinque anni ci riempivano il cuore di felicità?

Siamo degli idioti.

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(452) Holiday

Nel lontano1983 Madonna cantava “Holiday — celebrate!” e io ci ballavo come una matta. Adoravo Madonna, la nuova regina del pop – a quel tempo – e avevo 11 anni e il mondo mi sembrava a portata di mano. 

Probabilmente le mie mani sono saponate perché il mondo mi sta scivolando via da ben 34 anni. Una bella costanza, direi, sia da parte mia che mi ostino ad acchiapparlo, sia da parte sua che persevera a scivolarmi via. Tutto questo per dire che penso che risalga al 1983 la mia ultima vacanza vera: a Jesolo con i miei zii, mi immergevo in mare per il 70% del tempo che passavamo in spiaggia, ero nera come il carbone e innamorata di Matteo (di ben 14 anni) che mi pensava una squinternata pericolosa (come dargli torto).

Quella è stata una vera vacanza perché non avevo preoccupazioni, pensieri pesanti, dubbi di sorta… avevo 11 anni santidddddddio, potevo ben godermi la vita innocente che si dovrebbe avere a quell’età. Le quasi quattro vacanze – lunghe due nanosecondi per una – che ho fatto nella mia vita non sono state veramente spensierate, anche se belle, anzi per niente spensierate. Temo di non esserlo più dal 1983, intendo spensierata e leggera, e che questa sia diventata una sorta di maledizione.

Se potessi avere da Babbo Natale un regalo, gli chiederei proprio di farmi trascorrere una vacanza senza pensieri e senza limiti in un luogo da sogno – e che durasse più di una manciata di nanosecondi, se fosse possibile. Non è che chiedo la Luna, vero BN?

Io attenderò domattina, con tutto il mio scetticismo allertato, per accertarmi che il vecchio mi abbia sentita degnandosi di far avverare questo mio modesto desiderio. So benissimo che dovrei cantare Holy Night anziché Holiday, e che dovrei festeggiare la Natività perché tutti son così presi da ‘sta cosa che sembra un obbligo fare lo stesso, ma io me ne frego. Ringrazio come ogni giorno per tutto quello che ho avuto, che ho e che avrò in dono dalla vita perché è giusto farlo, e farò in modo che anche queste feste passino senza troppi danni emotivi – per lo meno non causati da me.

Ok, vado a fare le valigie… non si sa mai.

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(451) Tappabuchi

tappabuchi s. m. e f. [comp. di tappare e buco]. – Persona a cui si ricorre per rimediare alla momentanea assenza di altri (spesso con riferimento a brevi supplenze scolastiche): fare da t.; mi hanno invitata all’ultimo momento, come tappabuchi.

Che ci vogliamo fare, sono una persona suscettibile. Prendo atto della cosa e vado oltre, perché è un difetto che mi so perdonare. Non è che pretendo che mi venga perdonato anche dal resto del mondo, infatti il resto del mondo neppure se ne accorge che lo sono e solitamente mi smazzo le conseguenze emotive – caso per caso – senza battere ciglio e senza grosse conseguenze sociali.

Eppure, arrivati a questo punto devo fare outing e dichiarare: “Io me ne accorgo”.

Mi accorgo che sto per essere usata come tappabuchi già dal primo squillo del telefono, già dal primo ciao su whatsapp, già dal che di “che fai oggi/stasera/domani/tra un mese”. Ecco proprio dall’inizio, credo dal momento in cui nella testa di quella persona, o quell’altra, nasce l’idea che io posso essere la tappabuchi perfetta per l’occasione.

Me ne accorgo anche se non dico niente, me ne accorgo anche se sembro calma e cado dalle nuvole, me ne accorgo anche quando evito di entrare in polemica o di fare domande imbarazzanti. Me ne accorgo.

La cosa non mi mortifica – non più, non mi addolora – non più, non mi sorprende – non più, mi rende semplicemente furiosa. Mi parte proprio l’embolo. E faccio una fatica bestia a stare calma, a dribblare la trappola, a mantenere ancora rapporti educati con chi si è appena rivelato essere un/una troglodita.

troglodita s. m. e f. [dal gr. trōglodýtēs, comp. di trglē “caverna” e tema di dýō “penetrare in un luogo”] (pl. m. -i). – 1. (etnol.) [uomo che in epoche preistoriche viveva nelle caverne] ≈ cavernicolo, uomo delle caverne. 2. (fig., spreg.) [persona molto rozza, incolta] ≈ bifolco, (region.) burino, buzzurro, cafone, (spreg.) cavernicolo, incivile, (spreg.) primitivo, selvaggio, (roman.) trucido, (scherz.) uomo delle caverne, zoticone.  

Sì, perché non mi sconvolge essere designata la Tappabuchi del Millennio, il mio ego dorme tranquillo comunque, ma mi indigna il fatto che mentre mi stai chiedendo cosa faccio questo pomeriggio – quindi tra mezz’ora – perché potremmo vederci per un caffè, mi fai anche sapere che porti l’auto dal meccanico vicino a casa mia (ma pensa!) e che mentre ti controlla la suddetta tu ti trovi improvvisamente vogliosa di vedermi (che fortuna!). Manco il pudore di mascherare la cosa, manco la delicatezza di celare la tristezza del tuo pensiero, manco l’educazione di evitare di rendere evidente la tua mancanza di stima nei miei confronti. Niente. Come se fosse normale trattare in questo modo qualcuno.

La ciliegina sulla torta? Tu pensi che io non me ne accorga. Oltre che fancazzista pronta a perdere tempo con te, credi che io sia anche idiota da non capire che razza di cavernicola sei. Eh, ma io me ne accorgo. Me ne accorgo, ti blocco e ti evito. E ringrazia il cielo che pratico la non-violenza, perché non sempre ti andrà così bene. Fidati.

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(450) Cocktail

Mescolare le cose, gli elementi, le percezioni, le realtà, le occasioni. Mescolare è pericoloso, può uscire fuori una schifezza, ma se non ci provi non puoi sapere quale sarà il risultato. Potrebbe rivelarsi come una gran bella sorpresa e tu te la saresti persa per cosa? Soltanto per paura.

Quando ti butti nell’eseguire l’operazione di miscelamento devi tenere conto del dosaggio degli elementi, devi tenere sotto controllo il colore, il sapore, il tenore di quello che stai creando. Più lo fai, più spesso ti ci metti, prima ti fai l’occhio. Più prendi confidenza con il gesto del mixare e più te ne freghi della possibilità che esca una schifezza perché le probabilità si assottigliano. Pratica, un pizzico di talento, un chilo di voglia di mettersi alla prova, tutto qui.

Ovvio che la scelta degli elementi da combinare è parte fondamentale su cui poggiare il resto, non c’è neppure da dirlo. Ovvio che la scelta dipende da chi siamo e da cosa vogliamo e non vogliamo. Ovvio che si possa imparare a scegliere meglio, sempre meglio, come succede per il mescolare gli elementi scelti.

Detto questo, prima di crollare sulla tastiera per il cocktail di stasera – che era strepitoso – e per la giornata piuttosto intensa (soprattutto emotivamente parlando) vorrei arrivare al punto. Il punto mi si sta spostando di riga in riga sempre un pezzo più avanti e non credo di avere troppe possibilità di acchiapparlo, almeno non ora, non stanotte.

A mia discolpa posso dire che sembrava una buona idea parlare di mescolare le cose quando mi sono seduta qui al computer e forse la parte importante l’ho già scritta senza – forse – per questo essere arrivata a nessun punto. Trovo la cosa non solo insolita per quanto mi riguarda, ma anche del tutto positiva.

L’ho già detto che il cocktail era buono? E pure piuttosto alcoolico.

[sbam]

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