(177) Quasi

Il quasi mi mette in imbarazzo. Da un lato è una mancata vittoria, dall’altro una mancata sconfitta. In mezzo ci sono tutte le varianti che la lingua italiana si è potuta immaginare – e ce ne saranno un miliardo.

Sono quasi soddisfatta di me stessa, per la gran parte del tempo. Non del tutto. Il che dovrebbe darmi un margine di miglioramento (escludo la possibilità di peggiorare, sarebbe un tornare indietro e io non ho tempo da perdere). Quel margine di miglioramento non mi innervosisce, non mi risulta frustrante, mi dà speranza. A qualcuno, questa cosa potrebbe dare fastidio (so che lo dà), ma non è un mio problema.

Sono quasi arrivata dove non mi sarei mai sognata di arrivare. Ecco, già il sentimento qui si fa confuso, diviso tra “wow-guarda-dove-sono-arrivata!” e “gasp-ancora-non-sono-arrivata-quanto mancherà?”. Non è facile combinare la soddisfazione per una posizione raggiunta, la sorpresa per averla raggiunta, e la stanchezza del percorso fatto aggiunta allo sgomento nel constatare quanto tempo sia trascorso dall’inizio del viaggio.

Sono quasi arrivata alla conclusione che non importa. Tanto ancora non sono giunta fin dove desidero, per cui godiamoci il viaggio e che il cielo m’aiuti!

 

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(176) Occhi

Sono astigmatica, e manco poco, perciò vedo tutto sfocato come se fossi dentro il sogno di una favola. Non mi dispiace vedere così, l’ho scoperto a 17 anni e prima di allora le cose non erano diverse dal dopo. Quindi pace.

Certo, se mi metto gli occhiali e il difetto mi si corregge vedo meglio, tutto più nitido, addirittura brillante. Alle volte tanta brillantezza mi dà fastidio. Sono abituata alla mia confortante opacità ovattata e calibro l’uso degli occhiali dosando la brillantezza nella mia giornata con una certa attenzione.

Leggere mi obbliga a mettermi gli occhiali e io leggo molto, per cui gran parte della mia giornata gli occhiali mi colpiscono di brillantezza. Se voglio prendermi una pausa e farmi un caffè, però, mi tolgo gli occhiali. Stacco dalla brillantezza e mi rifugio dietro al mio velo.

Insomma: gestisco i miei occhi come meglio credo. Come tutti, immagino.

Da qui può partire la mia riflessione serale: decido io cosa i miei occhi devono vedere, che io ne sia consapevole o meno. No, non si tratta solo degli occhi, si tratta anche di comprensione, di ascolto, di attenzione, di coraggio (o mancanza di coraggio), di voglia di verità (più che si può, ben sapendo che più in là di una certa percentuale non si va).

Oggi i miei occhi hanno visto tutto quello che potevo vedere. Anche ieri, anche l’altro ieri, anche il giorno prima. Tutto quello che posso vedere i miei occhi lo afferrano. Mi domando quanto sia l’ammontare di ciò che non posso ancora vedere. Mi domando se sia meglio non poter vedere tutto. Mi domando se il vedere di più aiuterebbe i miei occhi e il mio cuore.

Forse no.

Benedetto astigmatismo!

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(175) Scommessa

Un tempo, gli adulti ripetevano che i giovani erano la scommessa per il futuro dell’umanità. Credo abbiano smesso di dirlo, credo l’abbiano sostituito con qualcosa tipo: “Non rompere le scatole, giovine!”.

Non sto parlando dei giovani trentenni o quarantenni, quelli non sono giovani (io non sono più giovane), quelli sono gli adulti. Per lo più tristi, per lo più incazzati, per lo più cazzari, per lo più stanchi di essere vivi. Non tutti, ma troppi sì.

I giovani sono i ragazzi che ora si trovano alle scuole superiori, quelli sono i giovani. Sono quelle persone stravaganti e svalvolate che possono farti orgoglioso e trasformarti in un omicida nel giro di tre secondi netti. Hanno quel talento lì.

Ebbene, i giovani non hanno solo un talento, ne hanno molti solo che non gli danno valore perché sembra che agli adulti quei talenti lì risultino essere inutili. Soltanto perché gli adulti quei talenti li hanno persi per strada e rode parecchio rendersene conto. Quindi buttano fango su ciò che vorrebbero indietro, ma che ormai non appartiene più a loro. Giovinezza compresa.

Scommetti sempre e solo sul cavallo vincente, giusto? Scommetti augurandoti di vincere, ma sai che puoi anche perdere. Se perdi cosa fai? Uccidi il cavallo su cui hai puntato? Ecco, noi adulti pensiamo che se un giovane ci delude, allora lo si archivia come cavallo perdente su cui non vale più la pena di puntare.

Io li vado a incontrare questi puledri mezzi fuori e mezzi dentro, mezzi coraggiosi e mezzo atterriti, mezzi incazzosi e mezzi divertiti, e punto sempre su di loro, perché loro vincono sempre. Loro vincono sempre. Siamo noi adulti che perdiamo, e perdiamo sempre con disonore.

Sempre.

 

 

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(174) Superare

superare1.  ≈ oltrepassare, passare, sorpassare, valicare, varcare, scavalcare, (ant.) soverchiare, sorpassare, attraversare. 2. ≈ lasciare indietro, sopravanzare, sorpassare, ↑ subissare, surclassare ≈ battere, sconfiggere, vincere. ↑ annientare, (fam.) fare a pezzi, (fam.) polverizzare, sbaragliare, (fam.) stracciare, stravincere, surclassare, umiliare. 3. ≈ ‖ aggirare, bypassare, scavalcare, sormontare,  scampare.

Mi sembra una bella parola “superare”. Faticosa, faticosissima, ma bella. Ogni volta mi mette davanti qualcosa che, in realtà, è lì alla mia portata. Superabile. Certo, presuppone forza di volontà e energia, non ti viene regalato nulla, ma una volta che ci sei riuscito ti si apre il respiro.

Non uso questo verbo nell’intento di competere con i miei simili, la uso per misurarmi con me stessa. Non vinco mai veramente, non perdo mai del tutto. Rimane un confronto con quella parte di me che tende a lasciar stare perché non si sente abbastanza. Abbastanza cosa? Abbastanza tutto.

Conosco bene quella parte e per quanto io la possa capire e anche tollerare, non voglio più ascoltarla. Non è lei quella che deve attivarsi, quella che voglio spingere a superare se stessa e i propri limiti. L’altra, quella che è tenuta alla presenza, è quella che ora sta scrivendo e che trova sempre un buon motivo per farlo.

Superare. Per farlo bene ci vuole osservazione, calcolo dei tempi e rapida analisi del terreno e delle condizioni ambientali. Se azzardi è bene che tu sappia che non può andarti sempre dritta. Ma azzardare, alle volte, è l’unico modo per superare.

 

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(173) Calma

Ho fama di essere una molto calma. Vorrei, ora e qui, sfatare il mito: mi obbligo alla calma, non lo sono affatto. Sono un’ansiosa cronica. Mi scoccia essere ansiosa, mi scoccia essere quella che si preoccupa sempre di tutto e di tutti, quindi m’impongo un certo contegno. In poche parole: fingo.

Non è una finzione atta a mettere nel sacco il mio prossimo, bensì me stessa.

La teoria che sta alla base di questa mia posizione è semplice: se fingo bene bene bene di non essere ansiosa, la calma entrerà in me e s’impossesserà della mia mente per sempre. Divento zen per autoconvinzione fingendo di esserlo già, in pratica.

Non voglio dubitare neppure per un istante che non sarà così, pertanto continuo a fingere e continuo ad aspettarmi grandi risultati da questo mio estenuante esercizio. Dovrei forse lasciare che il panico abbia la meglio? Nossignore! Accompagno il panico alla porta e mi pongo se non sorridente almeno presentabile agli occhi del mondo.

L’unico momento in cui vengo smascherata in modo vergognoso, però, è durante una seduta di meditazione guidata di gruppo. Lì m’infastidisce tutto e tutti. Non riesco neppure per un nanosecondo a estraniarmi e a percepire il benessere di quella luce bianca o rosa o azzurrina che una volta che ti avvolge ti trasporta lassù ad abbracciare il tuo nirvana. La calma che so fingere perfettamente va a farsi benedire, il mondo mi scopre per quella che sono e si ricomincia daccapo.

Rifuggo le suddette situazioni, ben inteso, passata da lì una volta mi sono ripromessa mai più. Ho intenzione di perpetrare la mia attività di calma apparente finché questa non si piegherà al mio volere e io, anche se non abbraccerò il mio nirvana come si suppone io faccia – prima o poi – almeno potrò salutarlo da una posizione più comoda. Con vista lago.

 

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(172) Equità

Equità 1. Imparzialità 2. criterio valutativo, svincolato da riferimenti di legge a cui il giudice può in certi casi ricorrere per affermare un principio di giustizia sostanziale: decidere secondo equità.

Decidere secondo equità mi piace. Mi piace l’idea che sta dietro questo concetto, qualcosa che ti fa sentire guardato con gli occhi giusti. Se è vero (e lo è) che non siamo tutti uguali (per fortuna e purtroppo) è anche vero che ci sono situazioni in cui fingere di esserlo provoca danni.

Sapere che possiamo andare oltre quello che è giusto o sbagliato e considerare l’Essere Umano semplicemente per quello che è – fallace – ci dovrebbe mettere al sicuro.

Eppure, preferiamo aggrapparci a criteri che valutiamo essere i capisaldi di una giustizia utopica, perché mero paravento per nascondere furberie del potere ormai scontate.

Questo in generale. Ora scendo nel particolare.

Se decido che – nonostante tutto – tu meriti una possibilità, io la possibilità te la do. Se valuto secondo equità che la possibilità te la meriti perché dentro di te c’è qualcosa di buono, qualcosa di bello, che deve uscire e non sa come fare, ma deve uscire… la possibilità te la do e mi prendo tutte le conseguenze del caso.

Se quello che ho visto si rivela essere soltanto un miraggio, pazienza. Non ne morirò.

Equità, è un pensiero che mi apre alla possibilità e me lo voglio tenere stretto.

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(171) Pace

Il diritto sacrosanto di starsene in pace è sistematicamente calpestato dal quotidiano (e da chi si attiva per metterlo in essere). Puoi anche organizzare tutto per filo e per segno, il tuo piano naufragherà: puoi dire addio al tuo diritto di startene in santa pace.

Non voglio farla troppo tragica, ma è fastidioso rendersi conto che a nessuno frega niente della tua pace interiore, e cosa peggiore di tutte: neppure a te. Se così non fosse staresti più attenta e non ti faresti ingabbiare sistematicamente dalle menate degli altri e… staresti in pace.

Che uno non pretende sempre, ma di tanto in tanto sì. Altroché.

Poi siamo nervosi, incazzosi e abbiamo voglia di spaccare la faccia a qualcuno. Il primo che passa, non fa differenza, tanto ormai la pace è andata a farsi benedire, che importa?

Ecco, il mio impegno ora voglio che sia focalizzato proprio in questo: riappropriarmi del mio sacrosanto diritto di starmene in santa pace. Comincio domani.

 

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(170) Ascolto

Se parlo non posso ascoltarti. Se mentre parli penso ad altro non ti sto ascoltando. Se non ti ascolto non so cosa mi stai dicendo. Se ti ascolto solo parzialmente, perché so già dove stai andando a parare, potrei sbagliarmi.

L’ascolto va al di là delle parole, si aggancia al significato che le parole accompagnano al silenzio. Ci sono le pause e le intonazioni. Ci sono gli accenti e le titubanze. Ci sono le parole che si ripetono e diventano ossessioni e ci sono concetti che a dirli in poche parole perdono sostanza trovandosi monchi.

Potrei scrivere dieci pagine sull’ascolto e averne ancora altre dieci che s’impongono alla tastiera e ancora non sarebbe abbastanza.

Una cosa non posso insegnare, a nessuno: ad ascoltare. Non posso impedirti di parlare sopra alle mie parole. Non posso importi di concentrarti su quello che sto dicendo, mentre ti sto parlando. Non posso farti arrivare quello che tu non sei pronto a ricevere o a cogliere. Non posso obbligarti ad attendere i miei tempi prima di trarre le tue conclusioni.

Una cosa sola posso: smettere di parlarti. Quando mi succede, quando succede che smetto, non c’è ritorno. E non mi dispiace affatto.

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(169) Gap

In questi giorni manco di equilibrio. Peggio di sempre. Se non fosse che durante la giornata non ho neppure il tempo per respirare potrei anche preoccuparmi. In realtà sto scusandomi con le persone con cui interagisco per il mio essere più rimbambita del solito.

Sarà che ho a che fare con persone gentili, fatto sta che nessuno dichiara apertamente di aver notato questo mio stato comatoso. Ciò mi fa pensare: lo percepisco soltanto io o, le persone pur sempre gentili, mi percepiscono sempre peggio di come sto solitamente? Zona pericolosa da sondare, passo a momenti migliori.

Il punto di questo mio post, forse, fa parte dei vuoti di senso e di sentire che in queste settimane mi si aprono sotto i piedi – molto probabilmente – ma volevo proprio rimarcare a me stessa che non è che io mi possa permettere di stare così come sto adesso per ancora molto tempo. E aggiungo: sarebbe meglio che questo periodo avesse fine ora, così da riuscire a fare meglio ciò che ora sto facendo arrancando.

Penso che alle volte sia meglio prendermi di petto, dirmi le cose così come stanno cosicché io non possa fare finta di non aver capito.

Mind the Gap, Babs!

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(168) Impalpabile

Sai che è lì, sai che ti sta guidando in qualche modo, sai che potresti chiamarla intuizione o percezione, ma che non riuscirai mai a definirla. Non è lì con te per essere definita ma per essere vissuta.

Un tempo la davo per scontata. Ora no. M’è venuta quasi una paura sottile, che potrebbe andarsene via, per i fatti suoi. Già mi sento male solo a immaginare come starei. In balìa di me stessa. No, non ci voglio pensare.

Questa cosa ha molto a che vedere con l’abbandono. Sembra assurdo che una come me possa parlare con cognizione di causa di abbandono – nel senso di sapersi abbandonare al flusso della vita – ho fama di essere una maniaca del controllo.

Pur restando una che se controlla il suo operato si sente meglio – innegabile – non ho mai pensato di poter controllare gli altri né tantomeno le cose della vita. In me c’è uno stato di abbandono puro, che non mi ero accorta di possedere e ho scoperto soltanto qualche anno fa, che mi permette di guardare allo stato delle cose per scovare ogni via possibile da percorrere.

Abbandonarmi, in questo senso, significa affidarmi. Ecco, controllare il mio naturale istinto a fidarmi delle persone è stata una lotta senza confini e all’ultimo sangue. Affidarmi a quello che sarà, invece, rimane il mio naturale sguardo verso il cosiddetto e cosippensato futuro. Non perché io sia capace di fede cieca, ma perché quella fiammella che non vedo ma sento, quella che è lì anche se non la so nominare… quella fiammella è reale. Almeno quanto me.

(E qui si potrebbe aprire una parentesi corposa, ma non lo farò.)

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(167) Contemplazione

Mi capita spesso, ma il mio contemplare non include il silenzio del pensiero. Ogni volta che ci provo mi innervosisco. La questione dello stato mentale nel quale la calma si stende sul pensiero per farti entrare in una dimensione di pace e tranquillità per me è impraticabile.

Io vago nel caos dei pensieri, pensieri che vanno in loop e che piuttosto di fermarsi si sfondano di tip-tap. Il ticchettìo incessante della loro danza mi impedisce di sperimentare l’immobilità. Tutto quello che mi costringe all’immobilità mentale mi risulta insopportabile. Mi vien voglia di tirare calci.

C’è chi ha cercato di convincermi che dovevo imparare quanto una condizione di pace/silenzio della mente può far bene al mio equilbrio. Ammetto che non ho collaborato, non sono programmata per affrontare questa cosa.

Zompare, caracollare, strampalare. Questo so fare benissimo, questo farò.

Tiratevi da parte se non volete rischiare di essere travolti dalle mie acrobazie: sono imprevedibile e pericolosa.

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(166) Libri

Ho libri sparsi ovunque in casa perché in cantina l’umidità me li rovina. Averli sparsi per casa all’inizio mi infastidiva, dopo mesi che subivo quel fastidio ho tentato di staccarmene. Dal fastidio, intendo. Pensavo di esserci riuscita, ma ora che sto sistemando la cantina m’è presa una cosa allo stomaco che non si può capire.

Non vedo l’ora di riaverli tutti ordinati con santo criterio e vedermeli lì al sicuro. Mi fa stare male saperli accatastati alla bell’è meglio (solo perché non ho spazio a sufficienza per sistemarli come vorrei). Non l’ho superato per nulla il fastidio, mi sono presa in giro per sopportarlo meglio, tutto qui.

Ho capito questo e ho fatto una scansione veloce alla mia vita: quanti altri fastidi mi sono detta di aver superato soltanto per sopportarli meglio? La risposta, del tutto sommaria, mi ha sconvolto.

Urge azione decisa e definitiva.

 

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(161) Opposizione

Non la prendo mai troppo sul personale. Se qualcuno mi si oppone, d’istinto penso che non sia un mio problema. Nel senso che ci arrivo sempre un po’ dopo a capire che sono io il problema – quando lo sono, intendo. Non penso che il mondo ce l’abbia con me, non penso di poter essere un disturbo per il mondo come non penso di essere per il mondo una gioia.

Voglio dire: niente di personale.

L’opposizione, però, mi incuriosisce. Scatta in me la voglia di saperne di più. Chi sei? Cosa stai pensando? Perché decidi di farti muro, qui davanti a me, e speri che io ci sbatta la testa? Perché sei arrabbiato?

Divento noiosa. Divento ficcanaso. Divento invadente.

Anche se non lo esplicito, inizio a pensarci e perdo mordente. Non mi va più di scagliarmi a difendere la mia posizione, come facevo da ragazza. Ora incasso meglio. Mi prendo quel che mi devo prendere, cerco di ascoltare con attenzione le risposte silenziose dietro al colpo e poi lascio sedimentare.

Non è un blocco, è un motivo per una riflessione più approfondita che riguarda soltanto me.

Le opposizioni dei ragazzi sono solo scogli in cui le onde vanno a sbattere. A volte, questi scogli, vorrebbero frantumarsi e farsi onde perché essere scoglio non dev’essere troppo divertene. Questa è soltanto una teoria, molto personale, sulla questione. Sta di fatto che chi fa opposizione intelligente e mirata ti fa dono della sua attenzione. Se non altro per avere la meglio.

Catturare l’attenzione di qualcuno non è cosa da sottovalutare. Un’opposizione non è cosa da sottovalutare. Costa a chi la fa e anche a chi la subisce. Un gioco equo, vince chi argomenta meglio.

La Retorica questa sconosciuta!

RETORICA  re·tò·ri·ca/   sostantivo femminile
  1. 1. L’eloquenza come disciplina del parlare o dello scrivere, fondamento di gran parte dell’educazione letteraria dall’antichità classica fino a un’età molto recente ( la r. greca, romana, bizantina ; maestro di r. ).

 

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(160) Arcobaleno

Lo catturo negli occhi dei ragazzi, di tanto in tanto, quando si dimenticano di fare finta di niente e cascano nella rete del “forse posso”.

Forse posso farlo, forse ce la faccio, forse se ci provo mi potrebbe pure riuscire.

Non sono mai io a dubitare, sono loro stessi a dubitare delle loro capacità. Mollano ancora prima di provarci perché pensano che la delusione di una sconfitta bruci troppo. Non vogliono sentire dolore.

Spesso il dolore è più forte quando lo immagini di quando lo attraversi, spesso se non lo attraversi non lo puoi sconfiggere. Un’immagine difficilmente si fa sconfiggere e quando tu sopravvivi al dolore ti senti forte e pronto a fare meglio.

Oggi gliel’ho dimostrato e ho visto l’arcobaleno nei loro occhi. Bellissimo.

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(159) Pioggia

I giorni di pioggia non sono lontani e tu sei ancora qui con me. Il sole che mi scalda è quello di una primavera ritrosa e tu sei ancora qui con me. Non serve che io ti cerchi, neppure che ti pensi. Sei qui con me. Ancora.

Se tornasse la pioggia non sarebbe più per colpa tua, così mi dico e ti rassicuro. Puoi restare ora, sarai più comodo, più tranquillo, non sarà per discutere ma solo per farci compagnia.

I giorni di pioggia sono stati lunghi, le ossa ancora mi scricchiolano a protestare su tutto quello che nel frattempo è andato marcio e che ho dovuto buttare via. Faccio fatica a buttare e a lasciare andare e tu, che sei ancora qui con me, lo sai bene. Forse un po’ ci speravi, ecco perché ci sei ancora.

Se questo sole, questa luce, che fin qui è arrivata è partita da luoghi antichi – come sospetto che sia – allora lavare via tutto era l’unico modo per farle spazio. Certo che non pensavo che a questo punto della mia vita io mi potessi trovare inzuppata e stremata, ma più che altro non pensavo che a questo punto io mi potessi trovare ancora qui con te. Nonostante tutto.

Che sollievo. Non ti ho perso. Nonostante tutto, sei qui con me. Per restare.

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(158) Barcollare

Mi muovo ondeggiando senza equilibrio, dentro. Fuori non si nota, lo percepisco da come il mondo si rapporta a me. Un sollievo, direi, finché non inciampo o non sbatto il ginocchio contro qualcosa, allora il mondo se ne accorge e io un po’ mi vergogno.

Non ho problemi quando la mia barchetta galleggia sopra onde e ondine e ondacce, no. Lì l’equilibrio mi si riequilibra. Folle, ma vero. Il problema sorge quando la barchetta è arenata. La terra è ferma, io dentro continuo a barcollare e perdo l’orientamento.

Non so se succede a tutti così o solo a me. Non ne ho parlato mai con nessuno, ora ne scrivo e non so quanti lo leggeranno e non so neppure se sia una buona idea scriverne per farlo leggere a tutti quelli che passeranno da qui. Infatti, potrei cancellarlo. Ma non lo farò.

Ecco spiegato perché barcollo dentro. Ora che lo sappiamo tutti ritorniamo a far finta di niente.

Grazie.

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(157) Motivare

Secondo me la migliore motivazione del mondo può partire solo dal sogno. Se curi con tutte le tue energie il tuo sogno più caro la spinta di cui beneficerai ti può fare arrivare fino alle stelle.

Mi sono sempre domandata perché a un certo punto, durante l’adolescenza, ti viene ripetuto a martello di smettere di stare sempre con la testa tra le nuvole. Smettila di sognare a occhi aperti!

Perché? Che fastidio ti do se me ne sto per i cavoli miei a pensare a qualcosa che mi fa stare bene? Perché ti rode tanto che io possa avere pensieri che mi fanno sorridere, che mi fanno venire voglia di volare?

E ti chiedo, esserino triste e frustrato: se non le sogni le cose, come puoi sperare di realizzarle?

Diffido di chi ha smesso da troppo tempo di sognare, diventa pericoloso, è come una pentola a pressione senza valvola di sfogo capace di scoppiare da un momento all’altro. Quando smetti di sognare covi rabbia, rabbia contro il mondo intero che ti ha rubato i sogni.

Nessuno può rubarti i sogni, sei tu che ti sei arreso e hai iniziato a pensare che i sogni fossero solo una perdita di tempo. Fai mea culpa e ricomincia daccapo. Reinventati bambino, impara di nuovo a vagare tra le nuvole e impegnati in qualcosa che puoi fare a costo zero e senza sforzo fisico: sogna.

Vedrai che è da lì che ricomincerai a riappropriarti della voglia di vivere.

Sogna!

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(156) Baratto

Io ti do se tu mi dai. Un tempo funzionava, forse perché le cose che valevano la pena barattare erano quelle che facevano capo a delle necessità primarie: cibo, acqua, rifugio, strumenti per la caccia/pesca/coltivazione. 

Oggi le complicazioni che il denaro si porta appresso finiscono spesso con lo schiacciare chi della qualità ne ha fatto un valore. In poche parole: fare le cose alla cavolo può portarti a livello economico la stessa entrata che farle per bene.

Il dilemma del pesare valore e capacità. Non si può monetizzare tutto, è inevitabile l’errore. Un lavoro fatto bene e lo stesso lavoro fatto meno bene dovrebbero avere valore monetario diverso. In questo modo, per guadagnarti i giusti soldi saresti motivato a dare di più.

Lo so, elucubrazione assurda. Tutto questo per dire che: la parte del mio lavoro denominata “fare preventivi” è la parte più frustrante, più fastidiosa, più sfinente di tutte. Non se ne esce.

Fine della lamentela. Buonanotte.

 

 

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(155) Hop!

Fai un bel salto, hop!

L’ho fatto. Ci pensavo da tanto tanto tempo, non potevo farlo prima, proprio non potevo, ma a forza di pensarci m’era venuto il sospetto fosse una di quelle cose che mai potranno accadere.

L’ho fatto. Che non significa nulla a raccontarlo, i dettagli del salto sono irrilevanti, ma il salto nel concreto non lo è. Non per me.

Si fa presto a dire Hop! e uno s’immagina che sia questione di coraggio, questione di volontà, questione di… no, non sempre è così. Se il salto dipende solo da te, se puoi gestirtelo, allora è con te che devi fare i conti. Quando, invece, il salto lo vuoi fortemente, ma le condizioni te lo impediscono non puoi far altro che continuare a volerlo, fortemente, in apnea.

Non perdere il contatto con quel salto che desideri, rischieresti di perderti questo Hop! che prima o poi arriva. Primo o poi arriva.

E quando arriva… Hop!

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(154) K.O.

Stamattina ho iniziato gli incontri alla scuola media (per il quarto anno), io davanti alle classi prime. Il 90% dei ragazzi si ricordavano di me, con un gran sorriso, e delle storie che abbiamo scritto insieme in quarta elementare.

Ho ripreso da lì dove avevo interrotto: scriviamo una storia insieme. Hanno ripreso il filo subito, mi hanno seguito a rotta di collo per due ore filate.

“Ritorni il prossimo mercoledì?”, la domanda di tutti.

Affermativo, ragazzi. Porteremo a casa anche questa volta la nostra storia, che è vostra e che sarà uno spettacolo. Promesso.

[Lo faccio per questo, è una bellezza che toglie il respiro. Giuro.]

 

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(153) Parvenza

Soffermarci soltanto un istante in più ci permetterebbe di andare oltre la parvenza. Farlo troppo poco non ci aiuta ad apprezzare tutto quello che non vuol essere evidente, farlo troppo non ti aiuta ad attraversare il mondo con leggerezza. E una certa leggerezza ci vuole per non mollare il vivere. Ci vuole.

Bisognerebbe concederci dei momenti in cui arrendersi e farsi trasportare ignorando la parvenza delle cose, perdersi un po’.

Le scoperte che ci aspettano potrebbero cambiare il corso della nostra vita o almeno dei nostri pensieri – che già solo questo merita il rischio e l’azzardo.

Oscurare allo sguardo impietoso del mondo parte di ciò che la nostra parvenza sa ingannare, sembra l’unico modo per garantirsi la sopravvivenza. Eppure scegliere con chi poter deporre le armi senza temere un colpo infingardo, questo rimane un lusso che ben pochi si possono permettere.

Io posso, grazie al cielo.

 

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