(1074) Pappagallo

Se non capisco non funziono. Non è che ripeto quel che sento o riprendo quello che gli altri fanno o copio pedissequamente quello che già c’è. Non funziono così. Allora è ovvio che azzardo, che mi sbilancio, che provo e fallisco, che dico troppo o troppo poco, faccio troppo o faccio male. È ovvio. 

E anche se sbaglio, se fallisco, se mi combino un disastro, dal mio punto di vista fa tutto parte del concetto legato al F-U-N-Z-I-O-N-A-R-E. Fa parte di me, anzi, sono proprio io. Autoreferenziale? Ehmmmm… sì. Certo. Ovvio. La prendo sul personale, si tratta di me, di chi altro?

E vedo quelli che copiano, quelli che giocano sul sicuro perché altri hanno già provato, e già fallito o già vinto, e provo una grande delusione perché penso che siano tutte occasioni sprecate. E non sto parlando di inventare cose mai viste prima, ma di maneggiarle e renderle diverse – magari migliori – quello sì. Ed è l’eterna sconfitta che è propria delle grandi ambizioni, ed è il sale del provare perché non si sa mai quello che può accadere, ed è la ragione di tutto. Di tutto.

L’Umanità avanza così, provando cose diverse, partendo da quanto già conosce e spingendosi un po’ più in là o in qua o in su o in giù… che ne so.

Io sono soltanto un atomo di un Universo dove ambiziose menti superiori stanno facendo fare a tutti salti quantici notevoli, non è che mi metta in competizione con nessuno, faccio solo la mia parte. Non mi tiro indietro, non ho paura di spingermi oltre a quello che già so fare. E non mi aspetto niente. Davvero.

Non faccio per ottenere una ricompensa, non faccio per mettermi in vetrina, non faccio per arrivare chissà dove. E se non ti è chiaro questo di me, non capirai mai un cazzo di me. Ma non è importante. Davvero. Non sono qui per essere capita o supportata, so fare da me. Tranquillamente.

Lo scrivo anche se so che non lo dimentico. Lo scrivo perché è stata una delle lezioni più difficili da imparare per me e so che ci sono persone che si chiedono ogni giorno se quello che stanno facendo valga la pena di essere portato avanti, perché sono sole o perché sono ostacolate continuamente. E io vorrei dire a tutte loro, a tutti voi che passate di qui, che non solo ne vale la pena, ma che non c’è niente di più importante a cui dedicarsi, e che la ricompensa siete voi stessi e che arriverete così soddisfatti ovunque siate diretti che non ci saranno più domande in sospeso.

I pappagalli in natura sono splendidi pennuti simpatici, tutti gli altri sono soltanto patetici. Ricordiamocelo la prossima volta che ne incrociamo uno più invadente degli altri che ci vuole tagliare la strada.

E… senza pietà, mi raccomando.

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(1073) Ingenuità

Ingenuamente rimango sempre basita quando scopro cosa pensa la gente di me. Gente è un termine generico che racchiude tante persone e non con tutte sono necessariamente in stretto contatto. Quindi, se in linea di massima posso non curarmi dell’idea che si sono fatte di me le persone che non mi frequentano, vengo in qualche modo coinvolta da quelle con cui interagisco spesso. 

Forse l’ingenuità ha a che fare con il dare per scontato ciò che non lo è per poi scoprire cose che non paiono neppure reali e che invece sono belle solide e pronte a scontrarsi sul tuo muso? Può darsi. 

Si dice anche cadere dal pero. Il che ha una sua logica. 

L’ingenuità risuona con la meraviglia dell’innocenza fanciullesca, no? Bello direi. Da mantenere, per certi versi, ma alle tante bisognerebbe mettersela via e diventare un po’ più sgamati

Quando iniziai tre anni fa questo diario mi ero fatta tutto un discorso bellissimo sull’equilibrio dell’esposizione, sul controllo del linguaggio, sulla scelta accurata delle tematiche da trattare e sul basso grado di sbrodolamento emotivo da mantenere per non diventare indecorosa. Una meraviglia vero?

La realtà si è rivelata in tutta la sua follia, giorno dopo giorno, e le premesse si sono sbriciolate. Non ho più controllato nulla, ho soltanto cavalcato l’onda cercando di non colare a picco con la mia tavoletta insaponata. Risultato? Persone che mi leggono in silenzio si sono allontanate da me perché non d’accordo con i miei pensieri o perché si sono sentite prese in causa pensando che io pensassi proprio a loro mentre stavo scrivendo. Ehmmmmm… ingenuamente ho scritto e dato per scontato che chi mi conosceva non poteva fraintendere. Sbam. Caduta dal pero. 

Se ho qualcosa da dire a qualcuno gliela dico. Non la scrivo. La dico proprio in faccia. Se non dico nulla è perché penso sia comunque inutile e non lo scrivo neppure. Perché se è inutile è inutile, punto e basta.

Fatto sta che guardare me stessa attraverso una lente d’ingrandimento, mentre scrivo questi miei post, fa per forza di cose sfocare tutto ciò che mi sta attorno, e non mi fa valutare le conseguenze di ciò che scrivo perché non so neppure chi mi leggerà. Non ho aperto il blog ai commenti per non essere influenzata dai pensieri di chi sarebbe passato di qui e penso sia stata una buona mossa. So più o meno quante persone approdano in ogni mio post, ma non so chi siano a meno che non si palesino sulla mia pagina Facebook. Quindi ingenuamente ho percorso questo sentiero seminando molliche di pane che sono state mangiate dagli uccellini lasciando zero tracce alle mie spalle (se non le righe da me scritte, ma a che servono in fin dei conti?).

In poche parole: volevo dirlo e l’ho detto. Anzi l’ho scritto. Non vorrei dimenticarlo e non vorrei che si cancellasse questo momento perché le piccole cose contano. Nell’economia della mia esistenza le piccole cose sono quelle che hanno da sempre avuto più significato. Sono fatta così. Pazienza.

 

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(1072) Scaffale

“Allora ci si colloca nello scaffale degli oggetti smarriti, si aspetta di essere cercati di nuovo e si resta ad occhi aperti la notte aspettando il passo di chi torni a reclamarci. Ma nessuno torna e dopo il giusto tempo si è di nuovo se stessi, sciolti dal possesso, liberi perché si diventa liberi dopo essere stati perduti.”
(“Aceto, arcobaleno” di Erri De Luca)

Stai lì sovrapensiero, sai che ti gira qualcosa che potrebbe avere parole ma che si rifiuta di parlare. Non puoi fare altro che aspettare che accada. Se non parla dovrà per forza palesarsi con un’azione, altrimenti che sta lì a fare? 

Vaghi sovrapensiero tra i post del diario di Facebook, non è che uno pensa a sta sempre immobile e scorrere è sempre meglio di stagnare. Così tanto per dire. Fatto sta che accade quel che doveva accadere e leggi una frase riportata da qualcuno e postata come omaggio all’Autore. Sei sovrapensiero e quindi leggi solo con gli occhi. Veloce. E vai avanti. Dopo un po’ gli occhi si sono collegati al cervello riportando un messaggio che evidenzia due o tre parole e poco altro. Non c’è verso di archiviarle, ci pensi mentre scorri e devi tornare indietro. E lo ritrovi quel post, e rileggi quella frase una volta, due volte, tre volte. 

Accade quindi (perché gli accadimenti sono sempre a valanga) che quella frase ti scoppia nella testa e ti muove come un terremoto col boato scuro. Sì, il tuo scaffale trema. 

Ti rendi conto che il giusto tempo è arrivato e che si è sciolto il possesso. Ti accorgi che non sei più perduto e che riconsiderarsi libero non è un peccato. Non sei più sovrapensiero sei dentro il pensiero e se lo allarghi un po’ vedi e senti meglio. Ti mancava l’aria e non te n’eri neppure accorta. L’aria c’è sempre stata ma te la stavi negando. Ti stavi annegando. Perché? Sortilegio maledetto.

L’Oceano in movimento ti compare davanti senza averlo mai visto. Dovresti vederlo, pensi. Dovresti andarlo a incontrare. Ci sono storie che devono essere raccontate. Prima o poi, nel tempo giusto.

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(1071) Numerologia

Tra le centinaia di cose che mi appassionano (sì, so essere dispersiva) c’è la numerologia, che va pari passo con l’astrologia, che va pari passo con tutto il resto. I numeri parlano, indubbio. Solo che a scuola mi parlavano per torturarmi a morte e io scappavo come se la morte fosse incombente, ora – in vecchiaia – hanno smesso di essere minacciosi e si sono fatti interessanti. Ovviamente se e quando riferiti alla sfera esoterica e non all’algebra (una che nasce tonda mica può morire quadrata, eh!).

Detto questo, sono riuscita a rendere questo interesse per il significato simbolico dei numeri un’ossessione (ovvio, il rendiamoci la vita impossibile è l’imperativo) specialmente quando sono in auto. Mi fisso sulle targhe delle vetture che incrocio/affianco/sorpasso-omisorpassano/ecc. e se trovo le mie iniziali prima o dopo i numeri, faccio la somma di questi e ne ricavo una cifra soltanto. Quello è il messaggio che l’Universo mi sta lanciando. Solo per me (follia).

Lo so, fondamentalmente è una stronzata, ma è divertente. Riporto al numero (dall’1 al 9) il concetto/significato (legato a una posizione mentale o spirituale) che la numerologia ufficiale ha designato e ne ricavo qualcosa di utile contestualizzandolo alla mia giornata. Sembra contorto ma non lo è. Faccio un esempio: oggi mi ha superato un’auto targata BF 587 NW. Avrei voluto infamare il tipo perché mi ha tagliato la strada per poi frenarmi davanti (c’era coda), ma il messaggio sulla targa me l’ha impedito. Ovvio che non l’avrei mai notato se l’auto non mi avesse fatto quel “torto”. Ok, quindi: 5+8+7=20 che riducendo a una cifra (2+0) dà 2. In numerologia il 2 si accompagna al concetto di Armonia/Stabilità. E che fai? Mandi al diavolo uno che ti taglia la strada se è portatore inconsapevole di Armonia? Ma sei fuori? Certo che no! Quindi fai finta di niente, arrivi in ufficio con l’Armonia e la Stabilità che ormai si sono impossessate della tua Anima e ti siedi al computer per scrivere il post del giorno. 

E sai, tu sai, che durante l’intera giornata dovrai difendere con le unghie e con i denti l’Armonia che si è ormai insediata in te. E lo sai che sarà una battaglia perché l’Armonia dà fastidio a tutti quelli che non ce l’hanno dentro. Ma l’Universo ormai ti ha avvertita, non hai scuse. 

E ricorda: basta un niente per mandare a remengo l’Armonia e la giornata. Un niente. 

Daje.

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(1070) Perimetri

Oggettivamente parlando siamo fatti di perimetri e di aree. Il nostro corpo ha un perimetro e il contenuto è l’area, la nostra mente ha un perimetro e un’area, il nostro cuore (inteso come luogo dei sentimenti) ha un perimetro e un’area. Questi limiti ci dicono fin dove ci possiamo spingere, andare oltre non è permesso senza conseguenze, andare oltre ti mette in pericolo, andare oltre ti può costare la vita.

È rassicurante avere un perimetro che puoi seguire con la punta delle dita e su cui poter contare, crearsi delle certezze aiuta. Il corpo parla chiaro, lo vedi e lo senti, è abbastanza assertivo quando lancia i suoi avvertimenti, ma la mente no. La mente ama spingersi oltre, la mente sana (sembra un ossimoro ma non lo è, e qui sta il guaio) lo fa continuamente perché andare un po’ più in là ti permette di scoprire cose che ancora non conosci. Se rimane in equilibrio, la mente a un certo punto si ferma e ti dice: “Goditi quel che già sai, lascia il resto ai dissennati”. Se sei saggio le dai ascolto.

Ma parliamo del cuore, parliamo di quello che i sentimenti osano (e se non osano loro chi altro potrebbe?) e sanno fare (aiuto!). Il perimetro di ciò che sentiamo è bislacco, fa fatica a chiudersi, rimane qualche fessura di qua e di là e scappa sempre qualcosa. L’area che dà sostanza al sentimento ha intensità diverse, non è omogenea. Ami? Certo! Con quante diverse intensità provi lo stesso sentimento per la stessa persona? Cento? Mille? Centomila? Ma siamo seri! Di cosa stiamo parlando? Del Caos, in pratica.

E non ho ancora capito come puoi contare su un perimetro che ha delle fessure e su un’area che ha vuoti e addensamenti sparsi senza mappatura né segnaletica, non lo so. Temo che non ci si possa contare affatto. Temo che non ci siano certezze. Temo che non ci siano bussole o misuratori di temperatura che tengano. Il Caos. Punto.

Allora la domanda rimane una soltanto: io con me non posso avere certezze, quindi come posso pretendere certezze dagli altri? Semplice: non posso. 

E così sia.

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(1069) Settembre

Ricordo che lo scorso settembre mi lamentavo proprio qui (e dove se no?) che l’autunno era fottutamente in ritardo. Ebbene, stamattina il tempo è talmente autunnale da far paura. Presa di sorpresa non ho con me il mio giubbino, ho però l’ombrello, ombrello che se continua così si rovescerà su sé stesso da come tira.

Faccio presente che trattasi di vero temporale, con i tuoni e i lampi e i fulmini e la pioggia… autunno. Quindi mug extra-large di guaranà bollente davanti a me, computer acceso e ben settato nel mio blog (qui) e pensieri che vanno lenti, per carburare ci vorrà ancora un’ora buona.

Tutto questo è autunno. E autunno significa che le zanzare e le mosche moriranno tutte o se ne andranno altrove (e vi auguro di bruciare all’inferno, maledette!). Significa che non si soffocherà dall’afosa umidità lacustre, ma che si soffrirà di reumatismi (eh, mica è una stagione perfetta l’autunno, bisogna prenderne atto).

Tutto questo è rassicurante. Non lo so perché, ma per me è rassicurante. Forse perché sono un’abitudinaria? Però le mie abitudini me le tengo strette pure nelle altre stagioni, quindi questo aspetto non penso sia determinante. Forse perché non sono un tipo solare? Ecco, questo conta, conta parecchio di sicuro. Forse perché l’estate mi fa svogliata e distratta e mi detesto quando sono così? Sì, decisamente.

Ok, estate 2019 è stato bello, ma ora si va avanti e con altri ritmi, quindi prepariamoci a essere più scattanti e focalizzati, c’è un sacco di lavoro da fare e soprattutto… tante mug fumanti da godersi.

Buon settembre a tutti!

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(1068) Maturità

Pensavo che la maturità fosse un’oasi di pace, dove i conti tornano e ci si mette via via l’anima in pace preparandosi a godersi la vita così come la vita deve essere: meravigliosa.

È molto probabile io abbia frainteso un paio di concetti costruendomi un’utopia difficilmente giustificabile.

Ovviamente, la maturità ti porta una certa presenza di spirito. Magari prendi un po’ meglio le cose – dalle rotture di palle alle delusioni, dai contrattempi ai piani falliti e via dicendo – ma poco altro. Davvero poco altro. Ci si incazza ancora (sperando di esserne ancora capaci) e si soffre ancora per le cose che sfuggono via e non ci si può fare niente. Soprattutto si viene presi da attacchi furiosi di nostalgia e ogni nostra giornata ha un sottofondo malinconico che si sposa male con il godersi davvero la vita meravigliosa che vorremmo.

Su questo me la sento di azzardare che non sono la sola a viverla così, altrimenti vedrei i miei coetanei passarsela meglio.

Dunque è evidente che la mia idea naïf di maturità deve essere corretta e sanata. Eppure, la tristezza che mi prende nel pensare di lavorarci sopra togliendo tutto lo zucchero mi è insopportabile. Pensare che prima o poi scorgerò all’orizzonte quell’oasi di pace in cui rifugiarmi è un bel pensiero, dopotutto. Illudermi che ci sarà un miglioramento e che le cose diventeranno meravigliose (andiamo a percentuale, dai, almeno un bel 50% su!), mi tranquillizza. Mi fa stare a galla.

Comunque, l’estate si sta squagliando, si entra ufficialmente nella stagione della malinconia… dove mi trovo decisamente più a mio agio. Ma di cosa sto parlando, quindi? Va bene così, va tutto bene così.

È meraviglioso.

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(1067) Convincere

Ci hanno un po’ convinto che il mondo andrà in malora vero? Ce la stanno mettendo tutta e ci hanno quasi convinto. Vedo che ci manca la gioia. Anche solo per andarsi a mangiare un gelato o farsi una passeggiata o guardare le stelle, ci hanno proprio rubato la gioia.

Lo hanno fatto massacrandoci di notizie atroci. Morti esplosi, morti torturati, morti a causa di calamità naturali o di incidenti dolosi, morti di malattie e morti suicidi. Ci parlano di morte continuamente, ce la fanno vedere e respirare senza tregua. Ci hanno quasi convinto che il peggio sta per arrivare.

E noi non ci arrendiamo, noi progettiamo di fare famiglia e avere dei figli, ma ormai senza troppa gioia perché la preoccupazione ci ha tolto il sonno e l’ansia ci mangia l’anima.

Ci siamo incattiviti, ci siamo inariditi e non ce ne rendiamo neppure conto.

Guardiamo l’orizzonte cercando di indovinare da dove arriverà la prossima tempesta sperando di vederla in tempo e di schivarla, di nuovo, di poterla giocare e allontanare da noi la fine.

Mi domando quando è iniziato tutto questo, con la bomba atomica? Mi domando, soprattutto, se sia possibile fermare questa politica di annichilimento della gioia e salvare la nostra mente dandole un po’ di speranza. Non lo so, dovrebbe esserci un risveglio di massa, una rivoluzione gioiosa (e non sto parlando del Beach Tour di Jovanotti santocielo!). Dovremmo trovare il modo per far sì che ci importi ancora.

Ma ci importa ancora? Diavolo, a me sì!

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(1066) Anomalie

Quelle cose, spesso dettagli, che non tornano. Non tornano per un sacco di motivi, non tornano e basta. E vorresti fare le domande giuste per avere finalmente le risposte che ti risolverebbero dubbi e malesseri, ma senti che non puoi, che andresti a toccare delicati meccanismi che a sfiorarli soltanto si innescano disastri.

I disastri spaventano.

Anomalie come se piovesse, ovunque. Domande che non si fermano dentro la testa e che se qualcuno presta attenzione ai tuoi occhi le legge anche, prima di girarsi dall’altra parte. 

I disastri spaventano.

E le occasioni non mancano e, a voler ben vedere, le occasioni si possono anche creare appositamente, perché se uno vuole una cosa non trova scuse, non trova giustificazioni, non trova nascondigli fanciulleschi per poi addossare la responsabilità agli altri. Si fa così se si vuole essere adulti: si guarda negli occhi e ci si espone. Ogni anomalia, molto probabilmente, nasconde un piccolo guasto del meccanismo o uno scollamento del reale a favore di uno stordimento che sfugge e che non fa bene, a nessuno. 

Ma i disastri spaventano, specialmente quelli che sai che non puoi controllare. Quindi si ingoiano le domande, si ingoiano i dubbi e si ingoia il malessere. E il malessere ingrassa. Si deposita sulle gambe per renderle pesanti al passo e sulla pancia per renderci goffi e sgraziati. 

Ogni tanto arriva quel giorno che rende tutto particolarmente leggero e dove le cose scivolano come se non dovessero essere causa di nulla di che. Quel giorno tra le parole si formano le domande e si ricevono anche le risposte e non succede nulla, si va oltre. Il disastro è silenzioso. 

Perché il disastro peggiore è quello a metà, quello che in sé non ha violenza esplicita, quello che non chiarisce tutto, che non toglie i dubbi e un disastro silente non fa che aumentare il malessere. E si ingrassa (perché quella è la prassi e non si scappa).

I disastri spaventano e per una buona ragione. E non c’è cura dimagrante che tenga. Fuck.

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(1065) Manufatto

Fare con le mani è una meraviglia che ci appartiene così strettamente, così intimamente, che la diamo per scontata. Se ci fermassimo a riflettere a quando lavoro diamo alle nostre mani, SEMPRE e ININTERROTTAMENTE, e quanto le nostre mani imparino a fare le cose anche più complicate sempre meglio e in automatico (come se si muovessero con un’anima propria connessa ma non necessariamente succube della nostra stessa anima), resteremmo senza parole.

Ogni tanto ci penso e mi stupisco ogni volta.

Allora ricordo una vecchia poesia in friulano che trovai da ragazzina nel bollettino che la parrocchia distribuiva periodicamente in paese. Una poesia scritta da una nonna e si intitolava “Les mes mans” (trad. “Le mie mani”). Raccontava con delle rime delicate il lavoro di ogni giorno di quelle mani che toccavano la terra per far crescere le verdure nell’orto, che pulivano e tagliavano il cibo per cuocerlo in grandi pentole, che trovavano il tempo di rammendare ciò che doveva essere sistemato e di accarezzare i nipoti in cerca di consolazione. Erano mani di donna, di donna abituata a non stare ferma un attimo perché in una casa c’è sempre tanto da fare, di donna cresciuta per rendersi utile e per sostenere tutta una famiglia senza domandarsi se per lei ci fosse anche altro nella vita.

Ricordo che leggevo e rileggevo quella poesia e pensavo alle mani di mia nonna che erano state educate alla stessa vita, ma che avevano qualcosa di ribelle: le unghie lunghe molto resistenti che ogni tanto dipingeva di rosso. Guardavo le mie mani e notavo una certa somiglianza, in certe curve soprattutto. Rivedevo le sue mani alla macchina da cucire, a creare camicie per i clienti e vestitini per me e mia sorella e pensavo che le mani devono essere educate. A fare di più, a fare cose diverse, a fare anche cose matte. Così per divertirsi un po’.

Non sono cambiata, rivedo ancora tutto e ricordo bene quella poesia e mi guardo ogni tanto le mani mentre fanno e disfano e rifanno e trovano modi diversi per non fermarsi. Sono state educate da una tradizione che le ha forgiate e da una ribellione nei geni che le ha liberate. Certo, nel tempo le ho viste cambiare, ma sono proprie mie e io appartengo a loro. Tutto questo mi piace. Mi piace molto.

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(1064) Sottovalutare

Solitamente, più sei intelligente e più tendi a sentirti intelligente. Dirò di più: più ti senti intelligente e più tendi a sopravvalutare la tua intelligenza e sottostimare quella degli altri. La domanda sorge spontanea: pensandoti così intelligente lo sei davvero o sei soltanto un invasato dal tuo stesso ego?

Ebbene. Più ti senti intelligente e più sottovaluti non solo le persone, ma anche le situazioni e le cose. Non perdi neppure tempo a dare un’occhiata a quello che hai davanti o attorno perché sai già come sono le cose. Tu sei intelligente e sai già.

Se sei così tanto intelligente e ti metti pure a studiare qualche cosa, o addirittura studi come un matto per essere sicuro che più di te nessuno mai e che sarai pronto per conquistare il mondo, allora è molto probabile che tante persone attorno a te non siano proprio il top e che tu le riesca a sovrastare con poco impegno.

Eppure. Ho imparato che una persona può essere talmente intelligente da risultare più stupida di un escremento (e non sto sottostimando un escremento, sia ben chiaro, ha anch’esso una ragione d’essere) e non se ne rende conto. Non può rendersene conto perché manca di cuore. Che è quella sfera dell’umano dove il sentimento non è concentrato su se stesso ma si rivolge all’esterno, è la capacità dell’individuo di scrollarsi di dosso tutto ciò che è interesse egoistico per aprirsi alla bellezza imperfetta del mondo.

Un Essere Umano intelligente sa usare ogni sua risorsa per creare benessere per sé stesso e per chi gli sta accanto, nell’ambiente che lo contiene. In questo modo si crea un circolo virtuoso di menti sopraffini che sanno dare sollievo a ciò che di non bello esiste e aiutano il mondo a progredire.

Sottovalutare il resto del mondo è un pericolo. Non per il mondo, però. Perché il mondo – che è roba antica e due cose due le ha imparate – schiaccia gli intelligenti che di lui non si curano. In un modo o nell’altro. Ne ha molti di modi, ha molta esperienza. Quindi non serve implementare l’odio, ma coltivare l’intelligenza emotiva (evviva Goleman!) e avere fede nel mondo e nei suoi modi.

L’attesa non è mai vana.

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(1063) Autoscontri

Li ho sempre odiati, non soltanto per i colpi alla cervicale che riducevano l’ipotetico divertimento in brandelli, ma soprattutto per il concetto che sta alla base del ludico passatempo ormai datato: guido per venirti addosso e darti fastidio. Di solito è un obiettivo che se sei alla guida di un’auto su una strada non ti viene neppure in mente – a meno che tu non sia uno squilibrato – quindi è chiaro che è finzione (perlamordelcielo so di cosa si sta parlando) eppure… secondo me è senza senso. La Finzione (sì, con la lettera maiuscola) segue criteri rigorosi di senso altrimenti si sfascia. Ecco, il concetto degli autoscontri riduce lo scopo finale (il DIVERTIMENTO) abbinandolo al dolore. E non si sta parlando di sesso pertanto la perversione lascia davvero il tempo che trova. 

Detto questo, le premesse sono importanti in certi frangenti, stavo riflettendo che tutti noi abbiamo subito ‘sto maledetto imprinting da autoscontri e ne abbiamo fatto la nostra ragione di vita. Noi non cerchiamo di guidare nel rispetto delle regole di buon senso che mirano a salvaguardare la vita nostra e del nostro prossimo, no. Noi facciamo di tutto per andare addosso a chi ci capita sotto tiro per creargli più fastidio possibile. 

Esempio: sono al bar e mi suona il cellulare. Non solo me ne resto lì in mezzo agli altri che si stanno bevendo qualcosa per i fatti loro e magari sono in compagnia e avrebbero piacere a conversare amabilmente, ma addirittura alzo la voce perché siccome il normale brusio di sottofondo mi dà noia io anziché spostarmi cavalco il mio fastidio e raddoppio il volume per far capire a tutti chi è il più forte. E ti impongo – volente o nolente – di ascoltare la mia dannata conversazione perché così impari a starmi intorno mentre mi faccio i sacrosanti cazzi miei. E non guardarmi perché potrei prenderla male. 

Perfetto. Chiarito con l’esempio quello che intendo con causare-il-maggior-fastidio-possibile-al-mio-prossimo-perché-ne-ho-il-diritto-visto-che-mia-madre-era-la-regina-degli-autoscontri-mentre-era-incinta-di-me e quindi io di conseguenza sono il-principe-degli-autoscontri-e-sono-qui-per-farti-pentire-di-esserti-affiancato-a-me-nel-normale-transito-della-mia-esistenza vi chiedo di fare questo gioco insieme: immaginiamoci tutte le situazioni in cui ci sentiamo sobbalzare perché qualcuno ha cozzato contro di noi o noi abbiamo cozzato contro qualcuno. E una volta che il quadro si compone facciamo una bella cosa: dimezziamo (fifty/fifty) le responsabilità, firmiamo una bella constatazione amichevole e archiviamo il tutto nella cartella “INCIDENTI”.

E poi iniziamo a viaggiare sicuri e soprattutto tranquilli. Non dico di prenderci gusto col Brucomela, ma evitiamo gli urti che ti scollano la colonna vertebrale, per favore. In vecchiaia li si paga tutti questi colpi. 

Fidatevi.

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(1062) Birra

Diamo per scontato che ci sono giornate e giornate. Una diversa dall’altra, per fortuna e purtroppo. Diamo anche per scontato che a volte, dico a volte, si è di buon umore e ben disposti nei confronti di tutto l’Umano possibile e altre no. Diamo per scontato che in quelle no ci sono delle differenze: si può essere leggermente intolleranti, discretamente intolleranti, decisamente intolleranti, pesantemente intolleranti, bestie-sterminatrici-all’attacco (l’ultimo stadio).

Perché l’Essere Umano (in generale) contiene moltitudini (cit. Walt Withman) e alcuni contengono abissi che se vai lì a stuzzicare può succedere il finimondo.

Ecco, io sono nella norma, se mi arrabbio davvero al massimo impreco come un contadino friulano dopo una grandinata che gli ha rovinato la vigna. Finisce lì. Sì, non dimentico (sono pur sempre friulana), ma ci passo sopra il più delle volte. Col tempo posso anche far finta di niente.

Aiuta, però, sapere che in frigo c’è una birra.

La sbronza no, quella lascia strascichi brutti e peggiorare la situazione è idiota, ma una birra fresca – una Guinness ovviamente – che ti fa piombare il malumore ai piedi mentre deglutisci e senti l’amaro in bocca che si mescola con la tostatura irlandese, sì. Ci vuole. Perché pensi meglio, diventi anche più lungimirante. Proietti il maltorto in un tempo così lontano che già ti vedi oltre: oltre tutto quello che si può oltrepassare e che ormai non ti tange più.

Ci sono molti modi di affrontare le giornate, sapere che se tutto va in malora tu puoi contare su qualcuno che ti fa calare il sangue caldo che hai alla testa e ti fa i piedi un po’ più pesanti (conviene avere o divano o letto vicini) è sempre un bel sollievo. No, non è che oggi è andata così male, era tanto per dire. Mi sembrava giusto scriverlo per ricordarmelo e l’ho fatto. Meglio prepararsi al peggio sperando il meglio che essere presi di sorpresa e tirare giù il firmamento con le imprecazioni, giusto?

Cheers.

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(1061) Programmazione

Ho provato a vivermi gli ultimi quindici giorni – la mia vacanza – senza programmazione alcuna. Giornate libere. Faccio quello che voglio. Certo, avevo una lista di cose che avrei voluto fare, ma pensavo che quel voler-fare fosse talmente forte da non dover essere costretto a esplicitarsi. Illusa.

Talmente abituata al programmare le mie giornate affinché risultino onorevolmente produttive, ho scoperto con costernazione immensa che non so vivere in altro modo. Il mio lasciar andare ogni lista da flaggare si riduce a un realizzare in concreto nulla. Piccole cose, ovvio che non resto inerme come una Barbie in fondo allo scatolone dei giocattoli, ma tutto il resto sparisce.

Mi è stato consigliato di fare così perché ero a un passo dal burn out e, in un certo qual modo posso anche essere d’accordo con questa diagnosi un po’ spinta, ma me lo sentivo che alla fine me ne sarei pentita. E infatti è così.

Avrei potuto conquistare il mondo in questi fottuti quindici giorni e invece…

Va bene, forse esagero, sto drammatizzando troppo. Si tratta semplicemente di due settimana di riposo. Ho letto (7 libri), ho vissuto il quotidiano (cosa eccezionale per me), ho buttato su carta un paio di idee (eh, mi stavo annoiando), ho programmato i prossimi mesi. Eeeeeeeeeeeeeeeeesatto. Ho programmato i prossimi mesi. Mi sono proprio messa lì a segnare le scadenze e gli impegni, le possibilità e le impossibilità, il da-farsi e il da-finirsi… Ho cercato di fare mente locale e proiettarmi nel marasma di cose che mi aspettano e così facendo m’è salita una certa preoccupazioni, un’ansia da prestazione che metà basta, eppure. Eppure sento che posso farcela, posso maneggiare tutto questo, posso. Quello che non posso fare è lasciare le mie giornate in balìa del mio umore, non posso permettermelo, sarebbe la disfatta.

La programmazione. È lei che mi salva la vita, ormai ne sono certa.

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(1060) Palla

Quando sta a te giocare la palla ovviamente le cose cambiano. È tutto nelle tue mani: la tua concentrazione, la tua determinazione, le tue capacità, la tua fortuna (sì, quella ci vuole sempre). Se la giochi bene, non puoi che migliorare, se la giochi male e non ti riprendi dalla delusione autoinferta rischi di schiantarti in un fallimento totale.

Avere una palla da giocare non è cosa ovvia. Potrebbe non succederti mai se pensi che l’occasione ti cadrà magicamente in mano. Conviene darsi da fare. Sempre.

Al di là che nella vita si vince e si perde a fasi alterne, e non è dovuto tanto al talento e alle capacità quanto a una serie infinta di varianti e variabili ambientali che a farne la lista non si finisce più, è anche vero che vincere fa sempre bene e perdere mica sempre. Dipende da come perdi. Ma non è del tutto vero neppure questo, perché se perdi per un soffio ti sale un nervoso che preferiresti esserti classificata ultima piuttosto che seconda a un punto di scarto. Eppure…

La vita non è una competizione a punti, ma a situazioni. Nel senso che se le situazioni che non ti vedono in pole position te le giochi comunque bene, al meglio delle tue possibilità, ti prepari il terreno per una probabile vittoria futura. E allora ci si dovrebbe chiedere: cos’è una vittoria? Uno stagliarsi sopra tutti per far vedere al mondo che sei il migliore, o una gratificazione concreta per un lavoro ben fatto a cui ti sei dedicato con passione? Eccoci. Non lo so.

Sinceramente, non lo so. Ho sempre pensato fosse la seconda che ho scritto, ma poi la realtà – le vittorie celebrate – sono le altre. Quindi una vittoria senza celebrazioni vale niente? Sì, è possibile. Quindi una sconfitta fatta passare per vittoria, celebrata come fosse una grande vittoria, può valere più di una senza celebrazione? Sì, è possibile.

Fatto il giro dell’oca con questo ragionamento del tubo, mi posiziono per giocare la mia palla. Conscia della mia preparazione onorevole, della mia determinazione onorevole, del mio impegno onorevole, della mia fortuna ancora da verificare. Devo però ricordarmi di celebrare, alla fine del gioco, con qualsiasi risultato avrò in mano, o non sarà valso a nulla.

Oppure no?

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(1059) Distruzione

Questo senso di paralizzante distruzione ce l’ho addosso – come qualsiasi Essere Umano con un minimo di coscienza – da un bel po’. Vedo che il nostro pianeta si sta squagliando per il troppo caldo (il fuoco che brucia le foreste in Amazzonia e in Siberia e i ghiacciai che si sbriciolano ai Poli) e mi rendo conto che una volta che il disastro inizia non puoi che stare a guardare e sperare che finisca presto e si esaurisca senza creare una distruzione senza più alcuna cura possibile.

Diamoci il carico con la nuova Chernobyl (Severodvinsk) che in Russia sta liberando scorie radioattive di cui non si conosce la portata con la già ben nota catastrofe di Fukushima che rimarrà ancora a nostro carico per il prossimo millennio… serve continuare?

Non possiamo farci niente. Me lo ripeto perché mi sembra inverosimile, mi sembra assurdo, mi sembra fuori dal mondo. Me lo ripeto perché spero di non sentirmi responsabile di qualcosa che non si può controllare, non si può gestire, non si può prevedere perché sappiamo solo una millesima parte di quello che qualcun altro sta facendo alla Terra (che è casa di tutti, non solo di quelli che decidono di fare e fanno fregandosene degli altri).

E mi domando: mi hanno convinto? Mi stanno convincendo apposta per neutralizzare ogni movimento, ogni pensiero, ogni speranza? Mi stanno sbriciolando ogni buon proposito per agire indisturbati e distruggere distruggere distruggere distruggere finché non ci sarà più nulla da distruggere e ben poco da ricostruire?

Lo spirito si rialza e si arma e si prepara. Ma a fare cosa? Una manifestazione in piazza. Certo. Perfetto. Facciamoci infilzare dalle baionette come dei veri rivoluzionari, che Robespierre sarebbe orgoglioso di noi.

No. Guardiamoci negli occhi e facciamoci un favore: basta balle.

Sta finendo il mondo. E noi con lui.

Sorpresa? Ma fatemi il piacere, dai.

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(1058) Fermata

Ogni tanto mi succede di perdere un po’ l’orientamento. Non so a che fermata devo scendere. Così non scendo e continuo ad andare. A volte mi domando se la mia fermata sia già passata – senza che io me ne rendessi conto – e se magari non sia il caso di tornare indietro. Rifare il percorso per verificare. Lo so, follia.

È molto probabile che io abbia fatto attenzione durante il viaggio, con l’ansia che mi contraddistingue è probabile che io abbia controllato tutte le mappe possibili e immaginabili per essere sicura di non scendere alla fermata sbagliata. È così probabile che per la maggior parte del tempo lo do per scontato. Ovvio. Non può essere. Eh.

Quando meno me l’aspetto, però, mi prende un guizzo di panico e mi faccio la domanda fatidica: non è che la fermata a cui dovevo scendere per caso sia già passata?

Ora, che io debba scendere e il perché debba scendere mi sembra neppure questione da discutere. Giusto? Sì. Certo. Ma se leggiamo tutto questo nell’ottica di un viaggio lungo una vita e quindi la fermata ultima è quella della morte, non sarò di certo io a decidere. Se, invece, vediamo il nostro procedere come un normale saliscendi dall’autobus e che a ogni fermata c’è qualcosa lì per noi, che ci aspetta, e quindi mancarne una è un vero peccato… ecco, il film cambia. Giusto?

Vedi che ci si perde a un certo punto del ragionamento? Si entra in un vortice spazio-temporale che non ha nulla a che fare con la realtà bensì con le supposizioni. E di supposizioni ci si può morire. Altroché.

Riprendendo il filo del discorso, agganciandomi al titolo del post, ho la sensazione di essermi persa delle fermate importanti. Ma ho anche la consapevolezza che io abbia volutamente tirato dritto perché non sembravano granché per quella che era la mia aspettativa. Con il senno di poi sono ancora più certa della giustezza di quella sensazione (anche se potrebbe essere una pura costruzione mentale per non mangiarmi le mani dal nervoso), rimane però in ballo la questione del: e se la fermata – quella giusta, quella per me – mi fosse sfuggita da sotto il naso e io – ignara e ansiosa – stessi proseguendo aspettandomi chissà quale meraviglia e invece non ci sarà niente?

E qui sale l’ansia.

Va bene. Facciamo così: alla prossima scendo e vedo cosa c’è.

Ok.

Forse.

Vedremo.

Eh.

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(1057) Bisogno

Ognuno per sé è cosciente dei propri bisogni. Che sono per tutti uguali, ma tutti diversi. Abbiamo tutti bisogno di mangiare, bere, dormire, fare sesso, non tutti allo stesso modo però. Chi più chi meno, chi così chi cosà.

Non è che ci siano solo i bisogni primari, quelli sacri che dovrebbero essere diritto di ogni Essere Vivente, ci sono anche quelli secondari e lì si aprono mondi che a volte sarebbe meglio non sondare perché ti verrebbe da tirare giù ogni santo dal paradiso con bestemmioni da guiness dei primati.

Non è che io abbia questa gran voglia di mettermi lì a fare le pulci alla coscienza di nessuno, ma chiamare le cose col nome che meritano quello sì. E queste cose, fatte passare come bisogni secondari, sono in realtà capricci. E che tu abbia cinque anni o cinquanta non fa nessuna differenza, quel tuo sbattere i piedi per terra finché non ottieni quello che vuoi rimane quello che è: un capriccio.

I bisogni hanno a che fare con delle mancanze d’Anima difficili da spiegare e da quantificare, e questi bisogni ce li ha chiunque. C’è chi decide di soffocarli con lo shopping e chi di ignorarli totalmente. C’è chi li vuole affrontare uno a uno per colmarli e chi ne sceglie alcuni e si fa bastare quelli perché sa che tutto non si può avere (o forse sì e arrendersi è soltanto la cosa più facile da fare?).

Vorrei soltanto soffermarmi su un dettaglio piccolo piccolo: quando i tuoi bisogni primari sono sazi hai tutto il diritto di volere di più, ma se quel di-più che vuoi non ha limiti allora l’appagamento che cerchi è un’utopia. Quindi la mia domanda è (domanda che pongo a me stessa, ovviamente): sei capace di gestire la frustrazione e sorridere all’utopia che insegui o sei destinata a soffrirne e diventare il carnefice di te stessa?

Eh. Bella domanda. Bella domanda davvero. Adesso sì che dormirò tranquilla.

Grazie neh.

Alla prossima.

 

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(1056) Ossessione

Sono fissata con le parole, fissata con il significato che contengono, fissata con il loro potere di creare e di distruggere. Fissata. Fissata. Fissata.

Quando usi l’immanse parola Libertà e la sbatti in faccia agli altri ergendoti a legittimo detentore del titolo di Uomo Libero del Secolo, io ti asfalterei. Non sto scherzando. Tu prendi in mano un contenuto così immenso e lo butti nel fango e ci pisci sopra. E mi dici che tu sei quello che ha potere sul concetto, sulla terra che questo concetto nutre e su chi lo ha abbracciato davvero dando la propria vita  per difendere la Libertà degli altri. E io ti sento parlare e ti sento bestemmiare e ti sento mandare in merda tutto quello che un Essere Umano ha di pulito e di sacro e ti vorrei passare sopra con la ruspa che il tuo partito sbandiera da vent’anni. Vorrei che lo facesse quel Dio che stai insultando, e ti odio perché mi tiri fuori questo lato bestiale che vorrei non avere.

E non voglio parlare di chi ti crede. Non voglio parlare di chi ti segue. Non voglio parlare di chi pensa che la Libertà sia quella che tu tiri in campo per farti buon gioco. Non voglio. So che tante di queste persone sono mosse da un odio più grande del mio e questo odio lo spargono ovunque perché tenerlo dentro sarebbe troppo. E mi dispiace per loro, davvero. Ma tu meriti il peggio. Meriti di sanguinare per una terra che non puoi avere, meriti una vita di privazioni profonde (come le persone che lasci morire in mare), meriti che tutto l’odio che tu infiammi ti si ritorca contro. E succederà così, con calma, diamo tempo al tempo.

No, non sto parlando di politica e non sto parlando di religione, sto parlando di quella materia umana che dovrebbe sapersi innalzare e creare meravigliose opportunità di incontro e crescita e che, invece, viene utilizzata per farci soffocare nella melma. E sembra anche riuscirci.

Oggi ho assistito a una potente lezione di retorica, ho ascoltato bene, tutto quello che potevo, da tutte le voci che in Parlamento si sono espresse. E ho pensato ad Aristotele e anche a Demostene. E mi sono sentita così piena di responsabilità che quasi mi è mancato il respiro.

Poi mi sono ricordata che non siamo qui per sguazzare nella melma e che la pioggia sa lavare via tutto e Noè ne sa qualcosa. E ho danzato perché la pioggia si sbrigasse a fare il suo lavoro per riportare la materia umana a un pulito almeno decoroso.

Sì, quando è troppo è troppo.

 

Non sono mai quelli che vi parlano a rendervi buoni o cattivi: siete invece voi che fate di loro ciò che volete. Infatti non siete voi a sforzarvi di fare ciò che essi vogliono: sono piuttosto loro che si sforzano di dire ciò che essi pensano che voi desideriate. Conviene quindi che voi vogliate cose buone e così tutto andrà bene: infatti, in tal modo, o nessuno terrà più discorsi cattivi, oppure, se qualcuno lo farà, non ne trarrà alcun vantaggio, perché non troverà chi si lasci persuadere.

(Demostene, Sulle Finanze)

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(1055) Verificare

Se andiamo sulla fiducia non ci facciamo un buon servizio. Bisognerebbe riuscire a verificare ogni dettaglio che ci riguardi – sia da vicino che da lontano – e accertarci che le cose siano esattamente così come sembrano. O almeno che non siano tutta un’altra cosa. Il più delle volte non ci prendiamo la briga neppure di fare una domanda in più per essere sicuri che chi abbiamo di fronte non ci stia mentendo. Fare domande è una cosa seria, devi essere pronto a ricevere anche la risposta che non ti aspetti. Devi essere dotato di una certa tempra.

E così nascondiamo la testa sotto la sabbia e il culo ci rimane fuori, e come ben possiamo immaginare è proprio un attimo.

La cosa più ovvia è quella di tenere allertato il nostro senso critico almeno quando viaggiamo in internet o guardiamo la televisione o leggiamo i giornali. Almeno quello. Ma non lo facciamo. Ci affidiamo al primo idiotone che arriva sparando una castronata e partiamo per la tangente. Questo perché ci piace indignarci alla cazzo. Così come viene.

La cosa meno ovvia è quella di saper guardare in faccia la realtà che ci accade sotto il naso, a nostra insaputa. Non perché siano tutti più furbi di noi – dei fantomatici Houdini et simili – ma semplicemente perché non vogliamo vedere e sentire. Andiamo in crisi. Abbiamo paura della verità. Abbiamo paura di affrontare le cose fastidiose, scomode, dolorose e pur di non tirare fuori i pugni e metterci in guardia ci facciamo prendere a bastonate la dignità.

E poi, se proprio proprio non ne possiamo più, quando non sappiamo più dove girarci pur di poter continuare a ignorare la realtà crudele, allora caschiamo dalle nuvole e piangiamo tutte le nostre lacrime. Sceneggiate da soap opera brasiliane che non passano mai di moda.

Verificare se è davvero così come pensiamo che sia è sintomo di intelligenza. Io non disdegnerei questa qualità, l’intelligenza intendo, non è che soltanto perché in giro ce n’è poca è passata di moda. È diventata più preziosa che mai, invece.

Sveglia!

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(1054) Inesploso

Calma apparente. Tutto perfetto in superficie e da qualche parte nelle viscere c’è un countdown che provocherà un disastro. Solitamente i disastri succedono così. Ce lo dice la cronaca nera, ce lo dicono i crolli dei ghiacciai nell’Artico e lo sappiamo anche noi perché ognuno di noi sente il proprio conto alla rovescia senza sapere da che parte prendere la bomba. Vero?

Allora due opzioni interessanti ci si aprono davanti:  la numero uno prevede che anticipiamo il botto e facciamo quello che sentiqmo di dover fare, vada come vada; la numero due ci fa nascondere la testa sotto la sabbia mentre ci prepariamo alla deflagrazione e chi s’è visto s’è visto.

Una cosa è certa: l’inesploso, prima o poi, esploderà. Sta a noi maneggiarci come meglio crediamo e sta a noi prenderci in carico tutte le conseguenze del caso.

Le cose che non diciamo e che dovremmo dire, le cose che non facciamo e che dovremmo fare, le decisioni che rimandiamo, i desideri che bruciamo, le occasioni che lasciamo andare… mica penseremo di passarla liscia vero? Sono tutte lì che contano al rovescio e quel tic-tac ci martella le tempie e sovrasta anche il battito del nostro cuore. Resistere è inutile.

Se diciamo quando dobbiamo dire, facciamo quando dobbiamo fare, decidiamo prima che sia troppo tardi, curiamo i nostri desideri per farli realizzare, prendiamo al volo le occasioni che ci fanno vibrare anche se ci sono dei rischi da correre – ma alla fine che sarà mai? – forse, dico forse, anticipiamo il disastro e pilotiamo gli eventi per il meglio. Per noi, per tutti.

La calma apparente è paurosa, sussurra cose tremende, vero? Ecco, teniamo presente quel tic-tac laggiù in fondo e vediamo di farne qualcosa di utile, qualcosa di buono, qualcosa di coraggioso, qualcosa che ci renderà orgogliosi di esserci e di non esserci tirati indietro soprattutto. Non stavolta. Non adesso.

Tic-tac

tic-tac

tic-tac

(…)

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