(715) Tanti

Quanti? Tanti. E la questione non cambia perché la quantità – il concetto di quantità – ci sovrasta. Quando è Tanto significa che siamo vicini al limite. Quando è Troppo il limite è stato superato, ma il Tanto ti mette in allarme e ti fa presente che qualcosa devi fare. 

Si potrebbe pensare che funzioni così soltanto per le cose negative, che tanta felicità non sia rischiosa, ma c’è chi è morto per troppa felicità – bisognerebbe ricordarselo.

Il nostro cervello quando si trova ad avere a che fare con il Tanto si allerta, sa che bisogna attendersi qualcosa. Se il Tanto cala naturalmente il vuoto della differenza può essere devastante. Ecco perché il tanto benessere teme anche il minimo calo, si aspetta un crollo subitaneo. Il panico fa scattare il meccanismo o-io-o-te e tutto va in vacca (per dirla in modo elegante).

Non l’ho mai sperimentata “la tanta ricchezza” – lo desidererei sinceramente – eppure credo che da lassù il Tanto prenda forma ben più feroce. Ma potrei sbagliarmi, certo.

Siamo in tanti e abbiamo tanti problemi, abbiamo tanti desideri, abbiamo tante ambizioni contrastanti e ognuno di noi contiene moltitudini (cit. Walt Whitman), per la serie: siam messi proprio bene.

A volte il Tanto mi mette a disagio, mi fa sentire le formiche addosso, anche se il Tanto riguarda qualcosa di bello. Sarà che i miei sensori si sono progressivamente fusi con l’età avanzata… bah. Vorrei avere un rapporto migliore con il Tanto, ma non so da dove cominciare. Forse il Tanto che vorrei mi spaventa ed è per questo che mi sfugge. Un bel dilemma Watson.

Tanto vale che mi faccia una bella dormita sopra. Tanto domani nulla sarà cambiato tra me e il Tanto e magari a mente fredda potremmo discutere meglio. Tanto lo so che sarà lui ad avere la meglio e che rimarrò nel mio dilemma a farmi tanto male. Bah.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(661) Moltitudine

Quando è troppo è troppo. Una moltitudine per me è sempre troppo. Preferisco poche cose per volta, poche persone per volta, pochi pensieri per volta, poco insomma. Nel poco riesco a destreggiarmi meglio, riesco a fare meglio.

C’ho messo un bel po’ a rassegnarmi che contenevo moltitudini (grazie Walt Whitman) e che andava bene così. Temevo per la mia autenticità, eppure una cosa non va a inficiare l’altra – ho scoperto in età matura.

Man mano che accettavo la mia moltitudine riuscivo a individuare quella altrui, un po’ destabilizzante ma un cambiamento opportuno per la sopravvivenza. E a un certo punto il giudizio quello brutto cade, ci si sente persi, sembra che tutto sia lecito e tutto plausibile. L’età avanza e recuperi i filtri, riprendi in mano il tuo metro per misurare e valutare secondo altri criteri: quel che per te va bene ed è giusto e quello che non lo è. Dai per scontato che non sia un parere universale, è soltanto il tuo. Questo ti permette di ripercorrere il concetto di “moltitudine” con una certa serenità nell’anima. Segui la voce che ti rassicura: “Va tutto bene”.

A volte le credi, altre meno, ma lei non smette di restarti accanto e intanto il tempo passa.

Ci sono diversi strati dentro di me, alcuni me li sono dimenticati sotto la polvere, altri li ho archiviati perché non mi servono più. Faccio fatica a buttarli, e non lo so il perché. Un dato di fatto è che troppe cose e troppa gente mi creano ancora fastidio, troppo rimane troppo per me. Forse perché ho imparato come stare immersa nel niente. O forse me la sto soltanto raccontando, mah!

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(656) Elevazione

Quel tanto che basta per non farsi tirare dentro dalle cose e dalle persone che sguazzano nel marasma e hanno tanta voglia di includerti nei loro piani autodistruttivi. Ti fermi, inquadri la situazione, t’imponi di non vacillare, fai un bel respiro e poi ti elevi con un elegante: “Grazie, no”. 

Ok, se ti sembra un po’ troppo brusco – ma il tono della voce è tutto, ricordalo – ci si può mettere d’accordo cercando una frase più adatta. Quella che non ti provoca sensi di colpa, rimorsi o ripensamenti, quella che a dirla non t’inciampi perché liscio è il tuo pensiero in merito e limpide le tue intenzioni. 

Non serve inventarsi una scusa, basta essere assertivi. Ricordiamocelo.

Ora, però, vediamo che cosa possiamo fare per realizzare quel saltino quantico che ci permette l’elevazione. Per esempio, anche se io non faccio proprio testo in quanto equilibrio mentale, io mi prendo un caffè al guaranà perché ha un buon sapore, è energetico, e lo bevo in una tazzona termica che mi posso portare ovunque. Tipo copertina di Linus. Un’altra cosa che faccio per distaccarmi dal marasma e restare ferma su una posizione neutrale per farmi un’idea riguardo l’origine del marasma. Se è qualcosa che proprio non mi appartiene mi è facile dire no, ma è anche vero che attiriamo le cose che ci mettono in crisi apposta per poterle superare, quindi l’attrattiva a volte è forte. Mettiamo in conto anche che non sempre ho voglia di accrescere la mia consapevolezza – non ambisco all’Illuminazione in questa attuale vita – mi piaccio anche quando sono nel dormiveglia e posso sognare per i cavoli miei, quindi facendomi un paio di domande mi sgamo abbastanza in fretta. 

La parte più difficile è tenere botta una volta che ho deciso da che parte stare – ovvero dalla mia – perché le insistenze, le invadenze, le reminiscenze, i sensi di colpa maledetti ecc. ecc. intaccano enormemente la mia assertività. Allora lì, udite udite, posso usare la mia arma segreta: la pigrizia.

Sì, lo so, ai più sembra essere un difetto, ma ogni cosa la si può considerare una medaglia con doppia faccia e vi assicuro che la pigrizia è l’unica capace di potenziare la mia assertività. Quel forte “non c’ho voglia proprio per un caxxo” che sento rimbalzarmi dentro al cervello – per propagarsi a ogni nervo del mio corpo – mi ha salvato spesso da catastrofi annunciate che stavo per abbracciare soltanto per non sentirmi un verme per non averlo fatto.

Contenere moltitudini, mio caro Whitman, è un casino. Penso tu lo sapessi, ma penso anche che riuscivi a maneggiarle molto meglio di me. I miei limiti non aiutano, me ne rendo conto. Vabbé… e-l-e-v-a-t-i-o-n!

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(637) Identico

Stasera faccio una cosa diversa: prima scrivo e poi ricavo dal testo il titolo. Si potrebbe pensare che sappia già cosa scrivere, giusto? No, sbagliato. Soltanto che mi sono un po’ stancata delle gabbie che mi sto costruendo da 636 post, ho bisogno di un po’ d’aria senza filtri.

Potrei parlare di come una volta che ti viene confezionato addosso un abito sia un gran casino cambiarselo. Tipo: ti fai vedere in giro con bermuda hawaiane, canotta fantozziana, calzini con sandali alla tedesca e per tutti sarai per sempre quel disadattato che in una giornata di scazzo s’è fatto quattro passi sovrappensiero mentre cercava una buona idea per pagarsi le bollette. Fa niente se di solito vesti in frac e sei un gran signore, tu sei e rimani per tutti un eccentrico e grottesco fannullone finché muori. Stessa cosa anche fosse la situazione inversa. Funziona così.

Ogni volta che qualcuno mi chiede che lavoro fai, partendo da questo presupposto, vado in crisi. Ho fatto la cameriera, la baby-sitter, la donna delle pulizie, la commessa, la centralinista, la segretaria, l’insegnante di scrittura creativa e ora sono responsabile della comunicazione di una manciata di start-up… ho cambiato abito mille volte ed è probabile che lo cambierò ancora, quindi mi chiedo: che lavoro faccio?

Le varianti confondono. La fluidità, contrapposta alla catalogazione, affatica. La malleabilità viene guardata con sospetto. Il cambiamento infastidisce.

Abbiamo i nostri schemi, i nostri scatoloni in cui infilare tutto, mettiamo ogni cosa al suo posto così la teniamo sotto controllo, così non ci salterà addosso per mangiarci le orecchie durante la notte. Mi viene da ridere, ma che amarezza!

Siamo così impegnati a pretendere pulizia dagli altri che nascondiamo la nostra sporcizia sotto lo zerbino che diventa collina e montagna e noi come se niente fosse domandiamo ancora e ancora: cosa fai? Cosa fai? Cosa fai?

E se cambiassimo la domanda in: chi sei?

E no! Comporterebbe la rogna di andarsi a cercare la risposta in chissà quale anfratto dell’anima. Sempre diversa a ogni occasione. Perché non siamo mai una cosa sola e sola soltanto. Conteniamo moltitudini come Walt Whitman ci ha insegnato, e queste moltitudini ci spaventano a morte. Le nostre, poi, sono le più terrificanti di tutte perché in fondo in fondo le conosciamo bene, anche se ce le nascondiamo. Sappiamo che siamo noi ad averle generate e non riusciamo a perdonarcelo. Ma perché?!

E se non ci fosse nulla da perdonare? Eh? 

Lo sguardo che va a pesare sul collo affossa l’idea che abbiamo di noi ed è una violenza inaccettabile da noi stessi perpetrata. Se, invece, è il nostro sguardo a pesare sul collo di qualcun altro meritiamo lo stesso inferno che stiamo causando. Ma proprio uguale uguale.

Identico.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(422) Cuspide

In astrologia la cuspide è una linea immaginaria che divide un segno zodiacale da quello successivo e da quello precedente. Una linea immaginaria è quel sottile spazio dove tutto può succedere e lì, in quello spazio, non c’è regola che tenga.

Se sei cuspide ti puoi permettere il meglio e il peggio di due segni zodiacali senza colpo ferire. Come avere un bonus senza scadenza che ti permette di fare e di essere più cose contemporaneamente e non hai neppure bisogno di giustificare sentimenti e azioni, basta dichiarare il tuo stato e il mondo capisce, accetta, passa oltre.

A quelli come me, quelli che odiano certe furbate, stanno sulle palle le cuspidi, ma ammetto che essere cuspide può risultare nel concreto piuttosto divertente.

Ho sempre pensato che essere tutta d’un pezzo fosse una gran fregatura, eppure anche se nella piena consapevolezza dei miei limiti non ho mai saputo fare altrimenti. Mai saputo darmi la possibilità di mutare forma pur rimanendo sempre una fan del “contengo moltitudini” del poeta Walt Whitman.

Forse che mi contraddico? | Benissimo, allora vuol dire che mi contraddico, | sono vasto, contengo moltitudini.]

Do I contradict myself? Very well, then I contradict myself, I am large, I contain multitudes.

Ecco, Walt, non te l’ho mai confessato, ma contenere moltitudini a volte non basta, bisogna pure avere le palle per farle uscire ‘ste moltitudini, perché chiuse in una scatola fanno la muffa. Molto probabilmente, azzardo, non ne ho mai avute abbastanza di palle.

Quindi esplicitarsi in incongruenze, discontinuità, contrari e opposti, oltre che risultare liberatorio potrebbe anche essere un modo per riscoprirsi e riprendere un posto nell’Universo che non sia troppo scontato o troppo noioso. Ovviamente tutto questo lo trovo bellissimo in teoria, in pratica mi risulta faticoso e dispersivo. Va a finire che se mi ci ostino creo a me stessa più disagio che libertà e, pur guardando con meno fastidio le cuspidi, rimango nel mio pezzo convinta che – tutto sommato – una certa solidità a qualcuno dovrà pur piacere.

A me, onestamente, non dispiace, ma non nego sia la mia ignavia a parlare per me. Mah!

Share
   Invia l'articolo in formato PDF