(829) Bosco

C’è chi pensa che nel bosco si possa trovare soltanto il lupo e qualche fungo. Questa visione ristretta della faccenda non ha nulla a che vedere con lo storytelling, ovviamente. La cosa che impariamo vivendo, è che nel nostro personale bosco mentale ci possiamo mettere quel diavolo che ci pare e piace e le cose – udite udite! – possono comunque funzionare.

L’importante è che certe cose che nel nostro bosco hanno una loro ragione d’essere, ci rimangano lì dentro per sempre. Non è sano far uscire dal bosco tutto quello che ci abbiamo messo dentro, bisognerebbe tenerlo presente.

E non sto parlando soltanto delle perversioni e delle brutte cose – nel bosco le brutte cose proliferano, lo sappiamo – ma anche delle cose belle. Anche i fiorellini di Cappuccetto Rosso devono rimanere lì e non andarsene a spasso nel nostro giardino. Perché? Perché il bosco è finzione, la realtà è altro. Nel bosco tutto è di più: più luminoso e più oscuro, più intenso e più tormentoso, più accattivante e più ributtante. I colori sono diversi, i suoni, i sapori, gli odori… tutto è di più dentro al bosco. Fuori c’è la realtà.

La realtà ha momenti spettacolari, verissimo, ma il più delle volte ha colori sbiaditi e tempi sbagliati (troppo lenti o troppo veloci) e modi sbagliati. Sbagliati perché castranti. Castranti perché ti bloccano il sogno. Ti inibiscono l’immaginazione. Ti fanno venire una voglia maledetta di buttarti dentro il tuo dannato bosco e restarci per sempre.

Ecco, la realtà non ti coccola, non ti asseconda, non ti rassicura. Ti dà quel che ti deve dare e non ti chiede se gradiresti – forse – altro. Se ne frega.

Il trick, però, che può farti risultare la realtà meno mostruosa sta nel prendere una parte del tuo bosco – quella meno strong, tanto per intenderci – e inserirla di tanto in tanto nel contesto adatto. Quando ci vediamo un film, o leggiamo un libro, o ascoltiamo musica, o balliamo senza che nessuno ci guardi, o cuciniamo assorti nei nostri pensieri, o ci dedichiamo al giardinaggio, al bricolage, alle passeggiate, al bungee jumping… ecco, così.

Non sempre, di tanto in tanto. Non necessariamente in compagnia, anzi meglio se da soli. Non per staccarci dalla realtà, ma per assaporare il mondo con una diversa profondità, come se non fosse tutto racchiuso in quel che c’è o non c’è. Il nostro bosco ha piccole parti di concretezza disarmante, solo che nessuno ne potrebbe indovinare l’esistenza. Nessuno le può vedere. Tranne noi, ovviamente. Tranne noi.

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(807) Ancestrale

C’è una voce che arriva da lontano. Fa sempre molta strada prima di raggiungermi e a volte sono distratta e me ne accorgo che è arrivata solo dopo aver sopportato un mal di testa persistente per giorni – è lei che sta urlando e io niente. Non so come si chiama, mi sono fatta l’idea che un nome non ce l’ha – parto dal presupposto che me l’avrebbe detto fosse altrimenti – che forse è voce di un collettivo, una sapienza ancestrale. Tocca me come può toccare tutti, solo che non tutti la riconoscono, ma è più di un sesto senso spiccato, è più che intuito, è più di quel qualcosa che dipende da te (dal tuo umore, dai tuoi pensieri, dal tuo personale loop). Diverso, è qualcosa di diverso. Diverso come non lo so spiegare, ma diverso (non è che le parole riescono a dire tutto, eh!).

Insomma, questa voce mi porta anche bruscamente a una realtà che non è la mia solita, è un’altra cosa. Non so com’è, è diversa. E quest’altra realtà ha a che fare con cose che sento essere enormi, spaventose per quanto sono enormi e incontrollabili e piene di mistero e di cose incomprensibili. Spaventose. Ma questa voce non me le presenta come cose che son lì perché io le maneggi, perché son fatti suoi – di-come-deve-essere-e-via-di-quel-passo – e io sono soltanto tenuta a guardarle e a tenerle presente. Solo questo.

Mi sta dicendo che è importante che io sappia, non perché io debba farne qualcosa, ma perché saperle è giusto. Così deve essere per noi piccoli umani, dobbiamo sapere, anche se non comprendiamo tutto, dobbiamo però sapere. Sapere quello che c’è e che non si vede. Non si vede, ma ha una sua consistenza e una sostanza che comunque ci tocca. Anche se non ce ne rendiamo conto.

E allora questa cosa che siamo tutti una cosa sola è stramba fino a pagina due. Non più di tanto, quando ti rifletti in questo immenso e tortuoso casino che siamo noi tutto si ridimensiona e il siamo-una-cosa-sola diventa un’ovvietà.

E non mi interessa spiegarlo meglio perché ogni volta che ci provo scompare tutto e mi scoccia ritrovarmi con le mani a stringere il niente. Quindi mi limito a evocare un sapere che non so dire, che non so quantificare, non so qualificare. Un sapere che non so. Ma che c’è. E qui o ci credi o non ci credi, le vie di mezzo non esistono.

Quindi io ci credo

punto

 

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(699) Mappamondo

L’impressione che il mondo stia andando un po’ a farsi benedire è supportata fortemente da tutto quello che del mondo oggi vediamo – più che da quello che sappiamo. Sapere è una parola grossa, vedere è più appropriato perché dalla televisione siamo passati a internet e le immagini e i video ci tengono gli occhi in ostaggio. No, il cuore no, al cuore succede una cosa strana: viene avviluppato nel cellofan. Attutisce i colpi e dimezza la sensibilità. 

Negli occhi si impressiona una gallery spropositata di immagini più o meno in movimento, il nostro cuore non sente come dovrebbe sentire, il cervello si dimentica di funzionare perché è distratto dalle informazioni visive che deve in qualche modo archiviare e… e il mondo seppur vicino, seppure intero, seppur variegato, ci scappa di mano. Rotola via. Non lo sentiamo più, non lo capiamo più, non lo valutiamo più come l’organo che ci permette di vivere. 

Il mondo è fatto di cose e di persone. Cose vive e persone vive. Ricordarlo sarebbe utile e saggio.

Quando smettiamo di considerarlo vivo, il mondo inizia a farci paura. Tutto quello che contiene è come se fosse lì per avere la meglio su di noi. Per difenderci pensiamo che dovremmo sentire meno per assicurarci l’invulnerabilità. E se non ci riusciamo? Ci dobbiamo armare e combattere, ovvio. Combattere chi? Chiunque ci capiti davanti, chiunque ci risultasse pericoloso, minaccioso. Faticoso, logorante e davvero tanto inutile e poco saggio. 

Dovremmo, a volte, evitare di affidarci alla vista e imporci un ascolto minuzioso di tutto ciò che di vivo ci ruota attorno. Dovremmo togliere il cellofan dal cuore e monitorarlo con attenzione per capire quanto può sopportare e di quanto supporto ha bisogno per funzionare meglio. Dovremmo rispolverare le sinapsi e rimetterle in azione, dovremmo rafforzarle per riuscire a sostenere l’ammasso di immondizia che ci viene buttato addosso quotidianamente.

Dovremmo. Ci farebbe male eppure bene. Talmente bene che poi il mondo smetterebbe di farci paura. Inizieremmo a rispettarlo. Bello no?

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(672) Ovvietà

Ultimamente ho cambiato idea: scansare le ovvietà è un gioco pericoloso, bisogna invece abbracciarle e diffonderle. Perché? Perché l’ovvio viene magistralmente ignorato dalla gran parte delle persone. Ci si sente superiori, talmente superiori che lo si cancella, si fa come se non esistesse, come se se ne potesse fare a meno. La conseguenza di questa scelleratezza è che si fanno cose e si dicono cose che partono da presupposti meravigliosamente fantasiosi e creativi, ma totalmente sballati. Come usciti freschi freschi da un rave di tre giorni sull’isola di Mokua con funghi allucinogeni chimicamente addestrati a spappolarti il cervello.

Certo, facciamo finta che ogni ovvietà sia frutto di un cervello troppo basic per noi, facciamo i fenomeni e raccogliamoci nel delirio.

In un solo colpo ci facciamo beffe dell’esperienza (è lei che ti permette di dare per scontato certe ovvietà), del buonsenso (che ti fa guardare alle conseguenze con occhio critico per mantenerne memoria), della cautela (visto che è ovvio, che lo sappiamo, e decidiamo non sia importante, tanto vale buttarsi a testa in giù nelle cose). Siamo un vero, abnorme, disumano disastro. Sul serio.

Noi voliamo troppo in alto per soffermarci sulle ovvietà. Noi capiamo ancor prima che l’ovvietà si estrinsechi su quel che sarà. Noi vediamo più lungo, sentiamo meglio, annusiamo le situazioni  ben oltre lo standard che affonda i comuni mortali. Noi siamo troppo avanti.

E potrei fare una lista infinita di ovvietà che dovremmo recuperare, ma sono davvero stanca e il caldo mi sta uccidendo, quindi la evito. Ovviamente ognuno di noi ne ha una di lista e ovviamente riprenderla in mano non ci farebbe male per rivalutare di tanto in tanto l’opportunità di ciò che vi abbiamo inserito. Ovviamente nessuno lo fa, ovviamente sarebbe una perdita di tempo, ovviamente noi sappiamo sbagliare meglio e senza bisogno di aiuto.

Ovviamente tutto questo non ha alcun senso e, ovviamente, non ce ne frega niente.

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(648) Panorama

Cosa vedi fuori dalla tua finestra? 

Questa domanda mi ha accompagnato per oltre trent’anni, mi ha guidata e mi ha dato la forza di non fermarmi in luoghi dove non c’erano finestre o dove il mio sguardo non potesse spingersi oltre. Difficile da spiegare, ma è esattamente così che ho vissuto in questi anni.

Non l’ho mai detto a nessuno, non l’ho mai usato per giustificare certe mie decisioni e certe mie partenze, non l’ho mai sottovalutato e non l’ho mai zittito: ho lasciato che mi facesse strada, che si prendesse cura di me. Lo ha fatto.

Ci sono stati momenti di finestre sbarrate, di pareti cieche, di panorami squallidi e cieli bui, ma sono stati momenti perché ho agito e mi sono spostata, ho preso in mano la situazione e ho cercato un cielo meno cupo, un panorama più vasto, aprendo la mia finestra per respirare. Non sono mai ritornata indietro, sempre avanti. Senza rimpianti per di più.

Credo sia importante chiederci cosa riusciamo a vedere dalla finestra, quanta vita riesce a passare da lì per incontrarci? Credo sia fondamentale. E cercare il panorama che fa per noi, quello che ci mette in pace con le nostre storture e le nostre tristezze è un dovere oltre che un nostro diritto. Comporta un po’ di sbattimento, sì, certamente sì. E un po’ di disagio interiore, sì lo posso confermare. Ma non importa. Non importa. Non. Importa. Tutto questo serve.

Quando non ci sono finestre non c’è luce, non c’è respiro. Se chiudiamo le nostre finestre smettiamo di sentire il mondo per finire ad occuparci soltanto di noi stessi mettendo in pericolo la nostra mente, il nostro equilibrio. Se poi c’è chi trova l’Illuminazione ritirandosi a vita monastica, buon per lui. Per chi è come me non funziona. Quando sono in un luogo senza finestre so che quel luogo non è il mio. Non funziono senza poter spingere il mio sguardo oltre la finestra, mi si blocca tutto. Non so spiegarlo, ma così è. E così mi basta.

Amen.

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(341) Vortice

Cose da fare fare fare fare fare fare… cose da vedere vedere vedere vedere… cose da dire dire dire dire dire dire dire dire… o da scrivere scrivere scrivere. Una spirale senza fine che ti fa cadere giù, sempre più giù.

Me ne sono resa conto spesso e ci sono ricascata ogni volta. Non riesco neppure a immaginarmi come si può stare quando non fai niente. Voglio dire proprio niente, neppure un pensiero. Niente di niente. Non lo so.

Ho già ribadito il concetto che la meditazione non è contemplata nel mio database, come non lo è il golf, e ritorno proprio lì. Il vortice è quella cosa che tu lo sai che c’è, sai che ci sei dentro, sai che dovresti uscirne, sai che se non ne esci tu nessun’altro può farlo al posto tuo… tu sai. Eppure cadi giù.

Ora, non è che pretendo di non finirci dentro (spesso ci entro tirata per i capelli da qualcuno), ma vorrei farmi almeno furba di quel tanto che mi eviti di rimanerci troppo a lungo. QB. Ecco, se fosse per me io passerei una giornata a settimana a dormire e basta. Dormire e basta. Un altro paio a fare le cose che voglio fare e basta. Il resto della settimana a lavorare. Non mi sembra di chiedere poi molto, eppure non ce n’è, non è mai successo di farmi un mese del genere.

Mi devo impegnare di più. Tsé.

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(302) Curiosità

Curiosity killed the Cat… sì, può anche essere vero, ma è un dato di fatto che la curiosità ti mantiene vivo. Se non te ne frega niente di scoprire cosa succederà domani, bé, sei finito.

E poi da lì il discorso si allarga, perché ci sono cose che se non le guardi con curiosità perdono valore. Anche per le persone funziona così. Se pensi che la persona che hai accanto non sia altro che quello che già sai di lei, se non curiosi negli angoli che ancora di lei non conosci, bé, è finita.

E la curiosità non si insegna, la si coltiva. Ti forzi ad andare oltre la pigrizia, oltre le umane e disumane resistenze, oltre. Dall’altra parte c’è qualcosa da capire, da scoprire, da ascoltare, da vedere… potrebbe essere quella cosa che ti ribalta l’esistenza, potrebbe essere la chiave che apre la tua gabbia, potrebbe essere la musica che stavi cercando, potrebbe.

Non sei curioso di vedere quello che la vita ha in serbo per te? Non dire no, datti una possibilità. Dopotutto te la meriti, non pensi?

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(176) Occhi

Sono astigmatica, e manco poco, perciò vedo tutto sfocato come se fossi dentro il sogno di una favola. Non mi dispiace vedere così, l’ho scoperto a 17 anni e prima di allora le cose non erano diverse dal dopo. Quindi pace.

Certo, se mi metto gli occhiali e il difetto mi si corregge vedo meglio, tutto più nitido, addirittura brillante. Alle volte tanta brillantezza mi dà fastidio. Sono abituata alla mia confortante opacità ovattata e calibro l’uso degli occhiali dosando la brillantezza nella mia giornata con una certa attenzione.

Leggere mi obbliga a mettermi gli occhiali e io leggo molto, per cui gran parte della mia giornata gli occhiali mi colpiscono di brillantezza. Se voglio prendermi una pausa e farmi un caffè, però, mi tolgo gli occhiali. Stacco dalla brillantezza e mi rifugio dietro al mio velo.

Insomma: gestisco i miei occhi come meglio credo. Come tutti, immagino.

Da qui può partire la mia riflessione serale: decido io cosa i miei occhi devono vedere, che io ne sia consapevole o meno. No, non si tratta solo degli occhi, si tratta anche di comprensione, di ascolto, di attenzione, di coraggio (o mancanza di coraggio), di voglia di verità (più che si può, ben sapendo che più in là di una certa percentuale non si va).

Oggi i miei occhi hanno visto tutto quello che potevo vedere. Anche ieri, anche l’altro ieri, anche il giorno prima. Tutto quello che posso vedere i miei occhi lo afferrano. Mi domando quanto sia l’ammontare di ciò che non posso ancora vedere. Mi domando se sia meglio non poter vedere tutto. Mi domando se il vedere di più aiuterebbe i miei occhi e il mio cuore.

Forse no.

Benedetto astigmatismo!

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(135) Cecità

Tutto quello che non vuoi vedere. Tutto quello che non vuoi vedere potrebbe ucciderti e tu neppure te ne accorgeresti. Moriresti inconsapevole.

Non è un bel morire, così. Per niente. Mi auguro un buon morire come mi auguro un buon vivere e penso che per entrambi io possa fare qualcosa. Cercare di vedere tutto quello che c’è da vedere, anche quello che non mi piace, anche quello che fa male. Imporsi la cecità non è solo codardia, è rinuncia. No, faccio fatica ad assumere il ruolo del rinunciatario e l’atroce responsabilità del non-so-che-farci. No.

Vedere, finché posso, finché posso vedere, e tentare di capire, fin dove posso capire, con la mente e con il cuore. Credo sia un modo pieno per vivere e che sia un bel modo di morire. E non c’è nient’altro che voglio se non vivere pienamente e morire con dignità.

Morire a occhi aperti.

 

 

Cerchiamo d’entrare nella morte a occhi aperti. (…) Chi sarebbe così insensato da morire senza aver fatto almeno il giro della propria prigione?

Marguerite Yourcenar (da “Memorie di Adriano”)

 

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(118) Riflesso

La realtà delle cose confonde. Prospettive, punti di vista, opinioni, false credenze e pregiudizi vari invalidano la realtà di cose e persone.

Il riflesso no.

Il riflesso delle cose è sfacettato, è evanescente, è sfuggente, è misterioso, è intrigante, è pieno pieno pieno di sorprese. Mi sono chiesta a un certo punto della mia vita chi me lo facesse fare a focalizzare l’attenzione sulla realtà delle cose (che non mi era mai limpida, essendo io fortemente astigmatica), perché invece non far vagare la mia attenzione sui riflessi?

Attenzione: astigmatica significa che vedo sfocato tutto, ma non tanto da andare a sbattere (quello è dovuto alla mia goffaggine e non al mio difetto di vista) contro il mondo (sbatto contro i muri che scelgo e non quelli che mi scelgono).

Ora: ho scoperto molto più della realtà studiandone i suoi riflessi. Riconosco le trappole per i rumori di sottofondo, annuso l’aria ed ecco che stanno per arrivare menzogne a non finire, guardo ciò che tu non guardi e – toh! – colgo la tua verità.

Fidatevi: il riflesso del mondo vi darà risposte su cui potrete contare.

[Non saranno tutte belle, ma neppure la realtà lo è. Mai]

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(107) Soglia

Resta sulla soglia chi non vuole vedere. Resta sulla soglia chi non vuole capire. Resta sulla soglia chi non vuole sentire. Resta sulla soglia chi ha paura.

Oltre la soglia c’è il rischio di vedere cose che potresti non voler vedere, capire cose che vorresti non dover capire, sentire cose che vorresti evitare di sentire. Preferisci avere paura. Una cosa che conosci ti mette meno in crisi, è più rassicurante.

Varcare quella soglia ti fa comunque cadere nel vuoto e se non ami il vuoto chi te lo fa fare? Varcare quella soglia ti potrebbe far cambiare per sempre, se non ami i cambiamenti non ci pensare nemmeno.

Eppure, oltre la soglia c’è un nuovo te che ti aspetta. Quello coraggioso dei due, non farlo aspettare troppo a lungo potrebbe stancarsi e smettere di credere che ce la puoi fare.

Io, penso, di avercela fatta. Solo perché ho creduto che la me più coraggiosa era quella che valeva di più delle due. Meno male che mi sono fidata di lei.

Meno male.

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(45) Oltre

La fatica viene ricompensata. La fatica di andare oltre viene ricompensata. La fatica di andare oltre la superficie viene ricompensata. Viene ricompensata con una visione più dettagliata della realtà. Realtà che può giocare contro di te se si accorge che la stai sottovalutando o, addirittura, disconoscendo.

La realtà ha sempre la meglio su ciò che noi vogliamo vedere, capire. La realtà va oltre le parole, se ne frega delle nostre parole. Lei urla a modo suo ed è un modo che non si fa dimenticare.

Le parole si staccano, lettera dopo lettera, dalla realtà e la mostrano nuda. Così si vuol far vedere di solito e specialmente quando ci ostiniamo a coprirla con le parole che non attaccano più e ci franano ai piedi.

Noi dovremmo aver voglia di capire anche quando vedere comporta fatica o dolore, paura o scoramento. Poi verremo ricompensati, appena scorgeremo una pallida strada alternativa per sanare la realtà che noi stessi abbiamo creato.

C’è tanto da curare in questo mondo, ma ti devi raccontare la storia giusta per fare del buono. Se te la racconti male, vai a peggiorare la situazione. Non c’è bisogno di peggiorarla ulteriormente, conviene mettersi a fare del buono.

Andare oltre. Subito.

b__

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