(1090) Countdown

Inizia oggi. Fra 5 giorni questo blog si fermerà. Ho intenzione di dedicare altri 5 post in più per parlarvi di questa mia esperienza (quindi vi saluterò definitivamente il 3 ottobre 2019). Finire bene è importante almeno quanto iniziare bene. Il cerchio di chiude e tutto deve trovarsi il suo posto. Se non accade manchi un’occasione che rimpiangerai per tutta la vita (vale per le piccole cose e per le cose importanti).

Iniziare il countdown significa che devi pensare a un sacco di cose. Devi lottare contro molte emozioni contrastanti. Devi tenere botta e rimanere sul pezzo. Non puoi distrarti, hai uno scopo ben preciso che ti sta venendo incontro. Sbatterci la faccia non è una buona idea.

Ne ho vissuti alcuni di countdown durante i miei anni, ma questo è il più consapevole. Gli altri non avevano proprio una scadenza, gli altri stavano su a forza di nervi, una volta che cedevano chiudevo e bon. Ecco come ho imparato che chiudere bene è fondamentale per non ritornarci più sopra. E non si può vivere lasciandosi tutte le porte aperte alle spalle. Non si può continuamente tornare indietro, ripetere ciò che ormai è finito e che deve essere lasciato in pace.

Conviene fare per bene tutto. Progettare una buona fine, realizzare una buona fine, vivere una buona fine. Lo fai una volta, lo fai bene e tutto va a posto.

Ok, oggi inizia il countdown. Saranno giorni strani. Saranno bei giorni. Di tristezza e di sollievo a tratti. Restate con me fino alla fine? Spero di sì.

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(1082) Fiorire

Il significato (uno dei significati) da dizionario è: essere in un periodo di splendore. Bello vero?

Ognuno di noi a questo punto avrà ben chiaro i periodi di massimo splendore che ha vissuto. Possiamo tracciarne le linee e i punti, uno ad uno, con grande chiarezza perché periodi come quelli non solo sono rari, ma sono di per sé indimenticabili. Ci sentiamo bene, tutto gira alla grande e non ci potrebbe fermare nessuno. La durata è ininfluente, la memoria non ne sarà toccata.

Dovremmo fiorire almeno una volta l’anno, certi fiori lo fanno più volte e in ogni stagione. Se non ci impegniamo affinché succeda, temo, l’evento potrebbe verificarsi una volta ogni vent’anni (se va bene). Eh.

Se penso all’ultima volta che mi sono sentita in un periodo di splendore devo tornare talmente indietro nel tempo da dubitare di essere stata io quella là. Una tristezza impressionante.

Eppure le persone che lo stanno vivendo quel periodo ti fanno voltare mentre le incroci per strada, a bocca aperta per l’ammirazione. E se ne rendono conto perché in quel momento la consapevolezza della propria forza è cristallina. Forse è per questo che ti permetti di fare cose che i più possono soltanto desiderare.

Mi domando però come si materializzi questa condizione benedetta. Non ricordo le mie precedenti esperienze come si sono preparate, se avessi fatto qualcosa per aiutarle a palesarsi o se fosse tutto riposto nelle mani delle stelle in congiunzione astrale perfetta. Non ricordo. Ricordassi potrei correre ai ripari e lavorare per ripristinare la situazione. Ma non ricordo.

Forse la tristezza non aiuta.

Eh. La vedo dura.

Davvero.

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(713) Telefonare

Quando non c’era ancora internet – sì, sono piuttosto antica – il telefono era l’unico modo per mantenere i contatti con gli amici. Scrivevo moltissime lettere, giuro, ma se scrivi a chi non ti risponde perché non ama scrivere diventa piuttosto frustrante.

Passavo ore al telefono, per ascoltare e per raccontarmi, amavo il posto che avevo nella vita dei miei amici, mi sembrava fosse importante esserci anche se mi ero trasferita a quasi 500 km di distanza.

A un certo punto, però, ho scoperto che non era un posto per sempre perché la lontananza fisica aveva fatto perdere le mie tracce e la mia voce non bastava più. Facevo fatica a raccontarmi, facevo fatica a farmi capire, facevo fatica a esserci. E dopo anni mi arresi sfinita, come se tutte le energie fossero state succhiate via per sempre.

Non era una questione di pensiero, li pensavo tutti i giorni, né d’affetto perché erano sempre le persone con cui ero cresciuta e avevo condiviso tutto della mia infanzia e della mia adolescenza solo… solo che loro non riconoscevano più me e io non riconoscevo più loro. La vita ci aveva masticato e ci aveva modellato diversi. Riconoscibili solo nei dettagli.

Ora prendere il telefono per chiedere “come stai?” mi fa strano. Il telefono adesso non mi aiuterebbe a riattaccare i pezzi persi, e quei vuoti li temo se si palesano in vuoti di silenzio. Non lo so, sento che raccontarmi a loro – per come sono oggi – andrebbe solo a confondere i ricordi.

Vorrei capirne di più della vita, per fare meno errori, ma al momento tutto quello che posso fare è riconoscere le cose per quel che sono e accettare i cambiamenti per quello che devono essere. Mi fa tristezza, comunque. Da piangere.

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(451) Tappabuchi

tappabuchi s. m. e f. [comp. di tappare e buco]. – Persona a cui si ricorre per rimediare alla momentanea assenza di altri (spesso con riferimento a brevi supplenze scolastiche): fare da t.; mi hanno invitata all’ultimo momento, come tappabuchi.

Che ci vogliamo fare, sono una persona suscettibile. Prendo atto della cosa e vado oltre, perché è un difetto che mi so perdonare. Non è che pretendo che mi venga perdonato anche dal resto del mondo, infatti il resto del mondo neppure se ne accorge che lo sono e solitamente mi smazzo le conseguenze emotive – caso per caso – senza battere ciglio e senza grosse conseguenze sociali.

Eppure, arrivati a questo punto devo fare outing e dichiarare: “Io me ne accorgo”.

Mi accorgo che sto per essere usata come tappabuchi già dal primo squillo del telefono, già dal primo ciao su whatsapp, già dal che di “che fai oggi/stasera/domani/tra un mese”. Ecco proprio dall’inizio, credo dal momento in cui nella testa di quella persona, o quell’altra, nasce l’idea che io posso essere la tappabuchi perfetta per l’occasione.

Me ne accorgo anche se non dico niente, me ne accorgo anche se sembro calma e cado dalle nuvole, me ne accorgo anche quando evito di entrare in polemica o di fare domande imbarazzanti. Me ne accorgo.

La cosa non mi mortifica – non più, non mi addolora – non più, non mi sorprende – non più, mi rende semplicemente furiosa. Mi parte proprio l’embolo. E faccio una fatica bestia a stare calma, a dribblare la trappola, a mantenere ancora rapporti educati con chi si è appena rivelato essere un/una troglodita.

troglodita s. m. e f. [dal gr. trōglodýtēs, comp. di trglē “caverna” e tema di dýō “penetrare in un luogo”] (pl. m. -i). – 1. (etnol.) [uomo che in epoche preistoriche viveva nelle caverne] ≈ cavernicolo, uomo delle caverne. 2. (fig., spreg.) [persona molto rozza, incolta] ≈ bifolco, (region.) burino, buzzurro, cafone, (spreg.) cavernicolo, incivile, (spreg.) primitivo, selvaggio, (roman.) trucido, (scherz.) uomo delle caverne, zoticone.  

Sì, perché non mi sconvolge essere designata la Tappabuchi del Millennio, il mio ego dorme tranquillo comunque, ma mi indigna il fatto che mentre mi stai chiedendo cosa faccio questo pomeriggio – quindi tra mezz’ora – perché potremmo vederci per un caffè, mi fai anche sapere che porti l’auto dal meccanico vicino a casa mia (ma pensa!) e che mentre ti controlla la suddetta tu ti trovi improvvisamente vogliosa di vedermi (che fortuna!). Manco il pudore di mascherare la cosa, manco la delicatezza di celare la tristezza del tuo pensiero, manco l’educazione di evitare di rendere evidente la tua mancanza di stima nei miei confronti. Niente. Come se fosse normale trattare in questo modo qualcuno.

La ciliegina sulla torta? Tu pensi che io non me ne accorga. Oltre che fancazzista pronta a perdere tempo con te, credi che io sia anche idiota da non capire che razza di cavernicola sei. Eh, ma io me ne accorgo. Me ne accorgo, ti blocco e ti evito. E ringrazia il cielo che pratico la non-violenza, perché non sempre ti andrà così bene. Fidati.

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(221) Carezza

Le carezze io le ricordo, tutte. Quelle di mia nonna per farmi addormentare sono le più preziose perché non le potrò avere mai più. Troppo pure, troppo dedicate, troppo amorose per poter essere replicate da chiunque altro.

Ho imparato da lei ad accarezzare. Non lo puoi fare se non sei nella condizione per farlo, non te la puoi inventare la delicatezza se non la conosci, se non la provi.

Le carezze si imparano per osmosi, se le ricevi impari a farle. Se non sei dell’umore giusto per farle, evita perché lasceresti una brutta impronta che poi si fa fatica a cancellare.

Le carezze sono fatte per togliere la stanchezza dal viso di chi ami, per togliere il dolore, per togliere la tristezza, per togliere la sporcizia di un giorno brutto. Mentre toglie, però, lascia. Lascia la dolcezza di un’attenzione esclusiva e dedicata, lascia la cura, lascia l’amore.

Così sono le carezze. Così devono essere le carezze. Così.

 

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(80) Pagliacci

Tristezza. Tristezza. Tristezza.

Sant’Iddio quanta tristezza c’è dentro un pagliaccio. Insopportabile. Far ridere gli altri è una maledizione che ti prendi addosso perché pensi che solo così potrai essere amato. Ho sempre pensato questo, dal Circo di Moira Orfei (le tre volte che mi ci hanno portata da piccola, poi mi sono rifiutata) al cinema di Fellini e oltre. Nemmeno le “Opinioni di un clown” mi hanno aiutato granché ad ampliare la visuale sulla questione, se devo dirla tutta, o il saggio di Tristam Remy o Slava Polunin. No.

Sì, perché mi sono documentata prima di cristallizzare la mia posizione, mica le sparo così tanto per dire. Eh!

[No, non parlo di IT perché è fuori tema]

Ecco. Ho cambiato idea. Oggi ho visto dei clown far sorridere dei bambini, e di solito li fanno sorridere quando sono in ospedale e stanno malissimo, bambini che anche se con problemi seri non sono messi a paranoie come lo ero io alla loro età – evidentemente, e i bambini quando sorridono sono belli da togliere il respiro.

La lezione? Non prendere mai troppo sul serio quello che pensi. Non è mai definitivo, e spesso non è neppure granché intelligente.

Amen.

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