(1024) Inciampare

Possiamo inciampare su tutto e tutti. Io, per esempio, in questo sono una maestra. Scegli una cosa a caso, una cosa innocua, inutile, invisibile, io posso inciamparci. E, nove volte su dieci, farmi male.

No, no, sembra una cosa da nulla, invece è un vero talento. Appena capisco come farlo fruttare diventerò ricca e famosa. Mi basterebbe ricca, a dire il vero.

Lo faccio da sempre, inciampare su tutto intendo, e l’ho sempre dato per scontato, come fosse una cosa che appartiene all’intero Genere Umano, una delle conseguenze del vivere quotidiano che tocca chiunque, nessuno escluso. Ho scoperto, troppo tardi ovviamente, che non tutti sono così fortunati da inciampare spesso e senza pregiudizi di sorta. Ci vuole proprio un talento preciso.

Quello che ancora non mi è chiaro è come io sia sopravvissuta a questa pratica naturale fino a oggi così coriacemente e così inconsapevolmente. È addirittura più inspiegabile del talento stesso. Fatto sta che a volte sono inciampata in persone che han portato nella mia vita grosse sorprese (no, non necessariamente belle), altre in cose che mi hanno dato accesso a luoghi di conoscenza benefici e proficui (altre volte meno, ovvio), a volte sono inciampata in occasioni che sembravano opportunità, altre in opportunità che si sono rivelate solo stupide occasioni. Sono inciampata in sassi che non c’erano, gradini di mezzo centimetro, fili d’erba innocenti, buche apparse all’improvviso (queste sono ovunque, non si possono schivare tutte, ma io posso prenderle tutte).

Oggi sono inciampata su una frase che mi ha ispirato il pensiero da cui questo post è partito. Non odiatemi, è un talento naturale. Inconsapevole. Inutile. E se lo si ignora, innocuo.

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(990) Quid

Quel certo non-so-che, presente? Se lo cerchi non lo trovi, quando lo cerchi per gratificare la tua fame di bellezza. Quando non lo cerchi lo trovi, per allertarti e farti presente che i conti non tornano.

Strano ‘sto quid, no? Sì, strano.

Come sinonimo ha dettaglio, ma secondo me tiene dentro di sé un potere diverso, una sorta di magia, un qualcosa che ti collega con la quinta dimensione. Ha un suo odore, ha una sua voce. Niente a che fare con quello che conosciamo noi, per questo ci risulta strano e impalpabile, per questo non riusciamo a trovare parole adatte a descriverlo.

Il quid è quella parvenza che non sarà mai sostanza, seppur sappia trasportare la stessa densità. Lo trovi nelle persone e nelle situazioni, non nelle cose. Le cose si affidano ai dettagli, che sono statici, non si muovono. Il quid, invece, è fluido, scorre, come se fosse linfa di un albero o sangue di un animale/uomo. Non lo puoi fotografare, non si mette in posa. Lo puoi percepire sulla nuca o tra le dita, anche se non lo puoi stringere, non lo puoi schiacciare.

Non lo puoi contenere, non lo puoi usare. Non si consuma. E non lo puoi inventare, non lo puoi creare ad hoc. Se non c’è, non c’è e basta.

Il quid è quel-certo-non-so-che. E ti lascia sempre un po’ stordito, sempre un po’ traballante, sempre un po’ vulnerabile. Quasi sull’orlo, lì lì per cadere.

Ops.

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(956) Scollinare

È quello che sto facendo, suppongo: passare da un versante all’altro di una collina. Ci ho pensato oggi, mentre valutavo un po’ le mie condizioni psico-fisiche (una sorta di check up sommario che mi concedo tra un accidente e l’altro, con il sollievo di trovarmi ancora in discreta salute).

Sono salita sulla collina, ho raggiunto l’apice, mi sono guardata attorno e mo’ sto scendendo. Sperando di non arrivare in fondo ruzzolando poco elegantemente.

La chiarezza di questa immagine, al momento, mi affascina. Da quanto ci stavo pensando? Perché è uscita proprio ora? Significa che sono cresciuta in consapevolezza o sono la solita tonta che si sveglia sempre troppo tardi? Lo ignoro bellamente.

Accorgersi che lo shampoo che stai usando da anni non va più bene per i tuoi capelli (i tuoi capelli sono cambiati), che la crema per il viso è insufficiente a tenere tutto nella norma (devi prendere quella anti-rughe), che i vestiti che avevi messo da parte dieci anni fa li puoi buttare senza problemi (non recupererai mai la forma di un tempo), che le cose che ti piacevano non sono più le stesse, che le persone che frequentavi sono troppo lontane ormai (e va bene così)… insomma: hai scollinato, bella mia.

Quindi devi provare un altro shampoo, scegliere un’altra crema, comprarti vestiti nuovi, dedicarti alle cose che ora ti piacciono, stare con le persone che sono simili a te. E con calma sistemerai tutto.

Ma pensa te che scoperte che vado a fare una domenica come tante in mezzo al casino che c’è. Mah!

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(888) Venezia

Ognuno di noi ha una sua Venezia dentro il cuore. Con i canali, tanta acqua, palazzi che fanno sognare un tempo passato un po’ più felice (forse) e… tanti turisti che rompono le palle sparsi in giro.

Il tuo luogo non è mai incontaminato. I turisti sono ovunque. E la cosa peggiore è che tu sei il turista nel luogo speciale di qualcun altro. Noi Esseri Umani siamo nati per darci il reciproco tormento. Innegabile.

Sto divagando, ero partita col pensiero che una Venezia sia per forza di cose irriproducibile (nonostante ci abbiano provato anche con risultati notevoli), perché quella malinconia sognante che puoi grattare giù dai muri, raccogliere da ogni pietra, acchiappare al volo dalle gocce d’acqua che schizzano al passaggio di un traghetto, quella cosa lì non la si può inventare. Non la si può ricreare. Non la si può dimenticare, una volta che l’hai incontrata.

Come certe persone che sono passate attraverso di te, che le hai sentite con tutto il corpo e che per quanto tu faccia non le potrai mai sostituire, le puoi solo ricordare con struggente nostalgia.

E ci sono cose che davvero non ritornano e cose che ti si presentano davanti con abito nuovo, ma sono sempre le stesse, e tu non sai se abbracciarle o mandarle al diavolo.

Sono spesso presa dallo Spleen, un tormento che ti parla di quello che non c’è mai stato e che si continua a desiderare perché lo si immagina perfetto. Lo so, un’enorme perdita di tempo, ma neppure me ne accorgo. Ci casco dentro e bon, ci rimango per un po’, finché non mi stanco e ricomincio. Un’autoindulgenza che fa poco bene, ma anche poco male, e allora chissenefrega. Di qualcosa dovrò pur morire e non morirò di certo di Spleen.

Ho Venezia stasera che mi luccica dentro. No, non mi sta facendo bene, ma neppure troppo male. Quindi chissenefrega.

Buonanotte.

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(852) Scontato

Entrare dentro i mondi delle persone è sempre questione delicata. Devi esserci portato o come ti muovi fai danni. Spesso le persone ti invitano e ti aprono la porta, ma soltanto perché non sanno i rischi che corrono. A saperlo, uno ci pensa più di una volta prima di farlo. 

Mi sono fermata spesso sulla soglia. Ho fatto fermare spesso le persone sulla soglia. Non so se ho fatto bene o male. L’ho fatto e basta.

Sono giorni che mi passa dentro un fastidioso aratro, non so che cavolo voglia scavare ancora, mi sembrava che il più fosse venuto in superficie. Sbagliarmi mi rende nervosa. Ieri non ho scritto nulla, oggi faccio fatica (si capisce?), forse dopo 850 giorni così me lo posso anche permettere, no? Scrivere non è scontato, neppure se non vorresti fare altro al mondo.

Conosco un migliaio di persone che continuano a ripetersi che un giorno scriveranno un romanzo. Raramente lo fanno. Scrivere non è scontato, è una scelta e una fatica. Seppur non vorresti fare altro.

Fatto sta che in questi giorni di aratura, mi infastidisce anche solo il pensiero che tra la tastiera e le mie dita ci siano degli spazi. Horror Vacui. Che ne so. Non ci dovrebbero essere spazi, ci dovrebbero essere soltanto parole, una attaccata all’altra come quando non esisteva la punteggiatura. Tu pensa che artista, però, chi ha inventato le virgole e i punti e gli spazi. Uno che del respiro e del ritmo ha saputo far altro che mera sopravvivenza.

Vabbé, riprendo il filo della non-logica di stasera. Sto vagando in questi spazi e le parole non mi si legano ai concetti, un po’ la febbre e un po’ che-ne-so-io, il punto è che non so come uscirne. Sono partita pensando ai mondi e alle persone che li abitano, ho pensato anche al mio mondo e a chi permetto di abitarlo e devo ammettere che pensarci  è già un inizio. Magari mi porterà da qualche parte, prima o poi. Oltre la soglia.

Dai, intanto oggi ho scritto. E non era proprio per niente scontato. Per niente.

 

 

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(817) Natale

Sto cercando di farmi venire idee natalizie, così da non stonare con l’atmosfera. Niente da fare. Fingere non mi riesce neppure a fin di bene. Il bene di chi? Della massa che sta festeggiando il Natale. Noi, Grandi Italiani, che abbiamo rifiutato di dare approvvigionamento a quasi 350 anime che stanno da giorni in mezzo al mare senza poter approdare in nessun porto. Buon Natale a tutti noi, noi che non ci pensiamo perché siamo al caldo e a pancia piena.

Questi sono i pensieri che mi ribollono in corpo in questi giorni. Non ci posso fare niente, il Natale per me rimane una bufala. La sagra dell’ipocrisia.

Certo, certo, c’è chi il Natale lo sente in modo sincero, c’è chi fa del bene, c’è chi ha fede e prega col cuore. Queste persone, però, lo fanno sempre, non solo a Natale. Queste persone sono sempre in linea con il proprio sentire, non fingono. Quindi non è con loro che me la sto prendendo. Con gli altri. E gli altri sono tanti.

Natale è quella cosa che, al di là del bambinello e del bue e l’asinello nella stalla, ti riporta a una nascita, a una rinascita anche. E non è facile nascere, figuriamoci rinascere dopo che la vita la si è conosciuta e la si è strapazzata per bene. Figuriamoci. Dovremmo prendere certe cose più seriamente, lasciare gli sketch da Zelig ai commedianti che abbiamo al governo. A loro viene bene la battuta e la menzogna, hanno sorrisi da spendere perché a loro non costano nulla. Plastica a perdere.

E a dirla tutta, io sono al caldo e a pancia piena, non sono in mezzo al mare a prestare aiuto, sto solo pensandoci qui al sicuro tra le quattro mura di casa. Quindi non è che mi senta proprio a mio agio a festeggiare, sono un’ipocrita almeno quanto quelli là, anche se in modo diverso. Io mi sento una merda, loro si sentono splendidi. Ma quel tipo di splendore non lo vorrei neppure gratis, figuriamoci se costa la vita a persone che hanno soltanto la colpa di voler vivere, vivere meglio intendo, e che invece se qualcuno non li aiuta moriranno atrocemente.

Sì, stanno ricevendo aiuto, ma non da noi italiani. Questa è una vergogna per tutti noi. Tutti, tutti, tutti. Noi non abbiamo concesso loro neppure coperte e un po’ di cibo per affrontare il Natale in mare, col meteo che non promette bene. Non ne parliamo, non ci pensiamo. Come se tutto fosse normale, tutto fosse a posto. Italiani brava gente. Certo.

Auguri, quindi, alla nostra anima di plexiglass. Ne abbiamo bisogno.

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(816) Tempo

Credo di aver fatto in tempo. Rischiavo di perpetrare il mio ostinarmi finché le corna non si fossero rotte. Sono solo ammaccate. Non è mica facile fermarsi e farsi due conti, anche se sospetti il risultato non giocherà a tuo favore, tendi sempre a procrastinare. Avere in mano la certezza non è bello.

Quando sai non c’è finzione che tenga. Non è bello.

Credo di aver fatto in tempo. Non mi sono ancora trasformata in una velenosa ciabatta sfatta. Sono ancora moderatamente decorosa – dentro e più o meno fuori – da poter trascorrere i prossimi anni con dignità. La dignità che è obbligo di ogni Essere Umano. 

Credo di aver fatto in tempo. Me ne accorgo quando guardo la televisione, quando navigo in internet, quando saluto persone che conosco, quando sorrido a persone che non conosco. O quando mando a quel paese persone conosciute e sconosciute, perché quel genere di umanità mi fa proprio schifo.

Credo di aver fatto in tempo. Che non significa che sono fuori pericolo, ma che se continuo a prestare attenzione, forse, riuscirò a non cascare nel fango per trasformarmi in una porcata di Essere Vivente. Sono onorata di poter condividere il mio tempo e la mia energia con chi la pensa come me e vive come me, senza mai dimenticare la propria fortuna e le proprie origini. Che anche questo conta, altroché se conta.

So di avere fatto in tempo ed è un sollievo. Davvero.

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(766) Uomini

Perché parlare non basta, sono i fatti che dimostrano chi sei. Quando il dubbio su chi sia il migliore neppure ti sfiora, la gentilezza si spande soffice e uniforme senza squilli di trombe. Non ci sono sguardi stonati, non ci sono imposizioni. Nessun sottomesso e nessun padrone. Che a scriverlo sembra fantascienza, vero?

Non nasci per servire qualcuno, neppure l’uomo che hai scelto di accompagnare. E se tu accompagni lui, lui accompagna te.

L’ascolto segue binari fluidi, forse ritmi diversi e tonalità che fanno da contrasto, ma non è guerra, potrebbe piuttosto essere un concerto strampalato. Che quando si è in due a suonare, anche fosse la stessa canzone, qualche nota dallo spartito può scappare e se ritorna la si risuona meglio, più sicura, basta volere un’altra occasione.

Quando si sbaglia si chiede scusa, non perché la pensiamo diversamente però. Non ci si scusa per ciò in cui si crede, si spera, si sogna.

Gli uomini, quelli che vorresti incontrare, sono quelli che sanno chiedere pronti a ricevere risposte che non si aspettano eppure accettano perché nient’altro saprebbero fare se non comprendere. Sono quelli che non si fanno intrattenere  per non pensare, sanno condividere per approfondire quel che serve e capire meglio quello che non conoscono. Senza paura, senza inganno.

Noi donne amiamo volentieri anche gli uomini che dicono di non voler essere amati perché raramente ci fermiamo alla superficie. Le cose dette volano via nell’istante in cui si aprono al suono, i fatti si posano – per rimanere – sulle Persone e sulle Cose e sulla Vita e sulla Morte. Anche sull’Amore.

Soprattutto sull’Amore.

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(716) Isolare

Quando isoli una persona dal contesto (ambiente e persone) acquista luci e ombre piuttosto diverse, da studiare. Una persona isolata ha la libertà di essere o non essere ciò che vuole, lontano anche dal suo passato e dalle sue origini, distante anche da quello che ha sempre desiderato e sognato. Come se si reinventasse, per un minuto o per una nuova vita, senza catene.

Isolare una persona ha valenza negativa perché la si mette in una condizione di tensione, costretta davanti a una scelta che forse non ha mai contemplato: essere o non essere quello che fino a ora sono stato?

Una persona isolata può avere reazioni imprevedibili, dipende dalla decisione che prende e se questa è conscia o inconscia. Una persona isolata può trasformarsi in un rischio per tutti – soprattutto in quelle condizioni dove la violenza è legge, oppure può perdere la forza e smettere di reagire, smettere di vivere. Si arrende al suo nuovo, e non voluto, stato.

In ogni caso isolare qualcuno è fargli un danno, o almeno tentare di fargli un danno, perché l’Essere Umano costretto alla solitudine e all’emarginazione è capace di tutto come di niente, è sempre la bomba inesplosa ma non disinnescata che può scoppiarti in mano.

Isolarsi dal mondo, invece, come atto volontario ha un valore credo totalmente diverso: di purificazione – quando si ha bisogno di disintossicarsi dal proprio quotidiano, oppure di rinascita – quando il cambiamento è totale e duraturo. Un gesto coraggioso, audace, che comporta un certo rischio promettendo un maggior benessere. Isolarsi per un po’ ti permette di pensare meglio, di andare in profondità, di riprendere contatto con la tua voce interiore. Può essere un po’ stordente, ma di sicuro è tonificante perché quando rientri nei ranghi vedi meglio, senti meglio, assapori meglio tutto quello che ti circonda.

Un’isola di per sé può essere selvaggia e splendida o selvaggia e spaventosa. Può essere collegata al mondo o completamente fuori dal mondo. Un’isola può renderti pazzo di felicità o pazzo di dolore. Un’isola può essere rifugio o prigione. Se ci andiamo di nostra volontà è un’avventura, se siamo costretti con la violenza a viverci è una condanna a morte. Come spesso accade la positività o la negatività oggettiva non esiste, esistono le circostanze e le condizioni che determinano e gestiscono gli Esseri Umani che vi capitano in mezzo.

Difficile giudicare, difficile condannare o assolvere. Difficile essere Umani. Difficile essere Umani tra gli Umani, specialmente tra quegli Umani che hanno perso la propria Umanità ergendosi a Déi egoici dell’Olimpo.

Tornate giù, deficienti, tornate giù a prendervi quel che di Umano vi spetta per la vostra superbia e per la vostra crudeltà. Lassù isolati sembra facile, ma noi vi aspettiamo qui e vi sarà difficile ridere quando la vita vi presenterà il conto. Perché siete carne e ossa come tutti noi, dovrete ricordarlo – chi prima, chi poi. Tutti.

 

 

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(699) Mappamondo

L’impressione che il mondo stia andando un po’ a farsi benedire è supportata fortemente da tutto quello che del mondo oggi vediamo – più che da quello che sappiamo. Sapere è una parola grossa, vedere è più appropriato perché dalla televisione siamo passati a internet e le immagini e i video ci tengono gli occhi in ostaggio. No, il cuore no, al cuore succede una cosa strana: viene avviluppato nel cellofan. Attutisce i colpi e dimezza la sensibilità. 

Negli occhi si impressiona una gallery spropositata di immagini più o meno in movimento, il nostro cuore non sente come dovrebbe sentire, il cervello si dimentica di funzionare perché è distratto dalle informazioni visive che deve in qualche modo archiviare e… e il mondo seppur vicino, seppure intero, seppur variegato, ci scappa di mano. Rotola via. Non lo sentiamo più, non lo capiamo più, non lo valutiamo più come l’organo che ci permette di vivere. 

Il mondo è fatto di cose e di persone. Cose vive e persone vive. Ricordarlo sarebbe utile e saggio.

Quando smettiamo di considerarlo vivo, il mondo inizia a farci paura. Tutto quello che contiene è come se fosse lì per avere la meglio su di noi. Per difenderci pensiamo che dovremmo sentire meno per assicurarci l’invulnerabilità. E se non ci riusciamo? Ci dobbiamo armare e combattere, ovvio. Combattere chi? Chiunque ci capiti davanti, chiunque ci risultasse pericoloso, minaccioso. Faticoso, logorante e davvero tanto inutile e poco saggio. 

Dovremmo, a volte, evitare di affidarci alla vista e imporci un ascolto minuzioso di tutto ciò che di vivo ci ruota attorno. Dovremmo togliere il cellofan dal cuore e monitorarlo con attenzione per capire quanto può sopportare e di quanto supporto ha bisogno per funzionare meglio. Dovremmo rispolverare le sinapsi e rimetterle in azione, dovremmo rafforzarle per riuscire a sostenere l’ammasso di immondizia che ci viene buttato addosso quotidianamente.

Dovremmo. Ci farebbe male eppure bene. Talmente bene che poi il mondo smetterebbe di farci paura. Inizieremmo a rispettarlo. Bello no?

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(693) Piangere

Ci sono cose che fanno piangere, e anche persone che sanno come far piangere. E ci sono almeno mille modi diversi di piangere e un milione di ragioni diverse per cui si piange. Ogni lacrima versata si porta via con sé un intricato garbuglio di sentimenti. Non piangi mai per una cosa soltanto, inizi con una motivazione – certo – ma poi a valanga vieni sommerso da tutto quello che fino a quel momento stava in piedi per miracolo. E quando l’incantesimo si spezza: addio.

Addio nervi, soprattutto.

Io piango quando rido di cuore. Nel senso che anche quando rido piango. Questo fa di me presenza fastidiosa per esempio al cinema: se un film mi piace piango. Fosse anche un film comico, fa niente, io piango. Che poi il mio non sia un pianto becero è un dato di fatto. Piango in silenzio. In un certo qual modo il mio pudore ha la meglio. Decoro innanzitutto, sono pur sempre friulana. 

La questione ha anche un’altra faccia: piango raramente per me. Mi faccio piuttosto compassione in diversi momenti, ma più che piangere per me mi viene naturale ridere di me. Questa cosa mi stordisce. Voglio dire: è una cosa positiva o una cosa negativa? Lo ignoro bellamente. Non lo so proprio, non riesco a capirlo dalle conseguenze che mi porto addosso perché è così da molto tempo e le conseguenze sono diventate parte di me. Forse è un male e sono malata, o forse non sono del tutto fuori di testa perché questa dinamica mi fa bene. Boh.

Riassumendo: piango per gli eventi, per le persone (e a causa di certe persone), piango per le storie che ascolto/vedo/incontro, piango per le cose che mi fanno incazzare. Non piango per me, anche se credo che esistano buone ragioni che lo potrebbero giustificare (un bel pianto ognittanto, mica sempre). Eh. Quindi? Niente, era soltanto per fare il punto della situazione. Facciamo che ora che l’ho scritto lo possiamo serenamente archiviare, ok? 

Bene, buonanotte a tutti e grazie per l’ascolto (e buonanotte anche a me).

 

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(685) Compagnia

Essere in compagnia non mi è mai bastato, essere in buona compagnia ha valore per me. Piuttosto da sola che con le persone sbagliate. Essere in tanti mi fa girare la testa, essere in due mi pianta bene a terra. Posso ascoltare meglio, posso conoscere meglio.

Partendo da questi presupposti suono stramba e magari anche sfuggente, a volte. Per chi non sa di me, per chi non si cura troppo di sapere. Una volta ci facevo caso, ora non m’importa più. Nella mia crescita s’è inserito un certo distacco dal giudizio degli altri, gli altri a cui non serve guardare perché già sanno tutto. Beati loro.

E poi, quel essere-in-due che diventa coppia e diventa disegno di vita è una questione che tira in ballo troppe cose. Davvero troppe. Gli incontri nella vita li puoi forzare fino a un certo punto, i sentimenti non li puoi ritagliare per inseguire la moda o per combinarsi meglio con i tuoi interessi. Mi domando spesso se le mie scelte siano state dettate più dal mio volermi bene o dal mio volermi male, la risposta più sincera è che il bene ha finito per vincere su tutto. Era così che doveva andare.

Essere in due per non essere soli non funziona in nessun mondo, in nessun modo, per nessuno. Essere in due per colmare vuoti, per accomodare il quotidiano, per mettersi al riparo da ogni possibile tempesta: ingenui tentativi che preannunciano montagne di sofferenza. Non si mercanteggia con l’Anima, anche se ti sembra di averla convinta, Lei non cede. Tu sì. Se non subito, tra un po’, e Lei lo sa e ti aspetta lì, esattamente dove cadrai.

C’è solo un modo, per me, di immaginare di essere in due ed è quello che in una ipotetica foto mi mostra come sono. E mi mostra sorridente. Non ci sono compromessi, non ci sono preghiere, non ci sono miracoli all’orizzonte. Ci sono gli incontri, e un certo tipo di incontri non sono programmabili. E a desiderarli non si accorciano i tempi, tutt’altro.

C’è una sorta di ineluttabilità in tutto questo che non riesco ad accettare. Credo che il problema sia tutto lì. Maledizione.

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(667) Spiaggia

Soltanto se deserta, non ci voglio vedere nemmeno un paguro, solo così la potrei frequentare. Una relazione esclusiva, senza interferenze e senza distrazioni.

Questo per dire che ci sono cose e situazioni (addirittura persone) che riesci ad apprezzare davvero soltanto se c’è una connessione diretta – senza filtri – e senza inclusioni o condivisioni. La mia lista è lunghissima (sospetto di avere un problema, ma non è questo il punto) e anche se me la scorressi più e più volte al giorno, non credo cambierebbe di molto: rimango un’estremista della focalizzazione, non ci posso fare nulla.

Un bel libro che ti viene rovinato dalle chiacchiere del vicino d’ombrellone che mantiene un volume da rave party anche quando sussurra, figuriamoci al cellulare mentre racconta della sua ultima scopata. Presente? Ok, mi metto a leggere un libro solo in un luogo dove le probabilità di essere disturbata si riducono a un buon 10%. Questo è soltanto un esempio, ma credo basti per rendere l’idea.

Ci sono persone che vanno incontrate e conosciute senza avere attorno casino, bisognerebbe farci attenzione, altrimenti rischiamo di non capirci niente.

Una spiaggia deserta ti urla tutta la sua potenza, potenza che merita di essere ascoltata per intero – guai a perdersi anche soltanto un suono. L’attenzione esclusiva ci viene negata continuamente, come fosse un pericolo e non una intrigante possibilità di scoperta e di comprensione profonda. 

Non dico che tutto dovrebbe essere vissuto così intensamente, ma farsi una lista di cose/persone/situazioni che secondo il nostro sentire meritano un’immersione totale, pura e gioiosa del nostro Essere, credo sia un buon consiglio da offrire a chiunque abbia voglia di costruirsi Giorni Così di una certa sostanza. Ecco.

 

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(661) Moltitudine

Quando è troppo è troppo. Una moltitudine per me è sempre troppo. Preferisco poche cose per volta, poche persone per volta, pochi pensieri per volta, poco insomma. Nel poco riesco a destreggiarmi meglio, riesco a fare meglio.

C’ho messo un bel po’ a rassegnarmi che contenevo moltitudini (grazie Walt Whitman) e che andava bene così. Temevo per la mia autenticità, eppure una cosa non va a inficiare l’altra – ho scoperto in età matura.

Man mano che accettavo la mia moltitudine riuscivo a individuare quella altrui, un po’ destabilizzante ma un cambiamento opportuno per la sopravvivenza. E a un certo punto il giudizio quello brutto cade, ci si sente persi, sembra che tutto sia lecito e tutto plausibile. L’età avanza e recuperi i filtri, riprendi in mano il tuo metro per misurare e valutare secondo altri criteri: quel che per te va bene ed è giusto e quello che non lo è. Dai per scontato che non sia un parere universale, è soltanto il tuo. Questo ti permette di ripercorrere il concetto di “moltitudine” con una certa serenità nell’anima. Segui la voce che ti rassicura: “Va tutto bene”.

A volte le credi, altre meno, ma lei non smette di restarti accanto e intanto il tempo passa.

Ci sono diversi strati dentro di me, alcuni me li sono dimenticati sotto la polvere, altri li ho archiviati perché non mi servono più. Faccio fatica a buttarli, e non lo so il perché. Un dato di fatto è che troppe cose e troppa gente mi creano ancora fastidio, troppo rimane troppo per me. Forse perché ho imparato come stare immersa nel niente. O forse me la sto soltanto raccontando, mah!

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(638) Fragole

Mi piacciono tantissimo, ma proprio tanto. Mi piacciono così tanto che vado in cerca di quelle migliori: profumate, dolci, succose. Non sempre le trovo, anzi. Negli ultimi anni una volta su dieci, se va bene.

Questa situazione può essere presa benissimo come metafora per qualsiasi cosa che mi piaccia. Ricerco il meglio. Poi non lo trovo sempre, ovvio, ma miro al meglio che c’è. Tanto per intenderci: o mangio una pizza buona o non la mangio, o mi compro un paio di scarpe belle e comode o non me le compro proprio, o ho l’occasione di passare del tempo con persone che per me sono speciali oppure me ne resto da sola. Sono forse un’estremista nella ricerca forsennata della qualità? Sì, e Pirsig sarebbe fiero di me.

Gli escamotage che rendono light le cose che sono in realtà buonissime ma pesanti, li schifo. Piuttosto me ne privo, non è la fine del mondo, ma la Coca-Cola light non la voglio neppure vedere in fotografia. Vada retro.

Stessa cosa per le persone light. E lo so che se lo scrivo sembra ancora più brutto che a dirlo soltanto, ma è la verità. Sono una persona pessima, ma le persone con i neuroni light mi fanno salire la saudade. Non je la posso fa’.

La cosa peggiore? Più invecchio e più ‘sta cosa si radica in me. E non me ne frega niente. Se quand’ero giovane potevo avere un qualche dubbio o rimorso, se riuscivo ancora a valutare la versione sociopatica di me come un problema da risolvere, ora è tutto l’opposto. Ho una sola versione e la versione ribadisce il concetto: solo il meglio. E non è un problema. Un’aggravante che non lascia via di scampo. Lo so.

Fatto sta che il tempo non fa che mettere ancor più in evidenza quei tratti del mio carattere che cercavo di mimetizzare pensandoli orrendi. Mi viene da ridere, ora. Sono probabilmente diventata una persona orrenda e la trovo una cosa superdivertente. A saperlo prima!

Noi prendiamo una manciata di sabbia dal panorama infinito delle percezioni e la chiamiamo mondo.

(Robert M. Pirsig, “Lo Zen e l’Arte della manutenzione della motocicletta”)

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(601) Ostinazione

Come ogni cosa che riguardi l’Animo Umano bisogna andarci cauti. Le parole non sono mai bastanti, bisogna saperle rivoltare come un calzino prima di appoggiarle sopra a un sentimento, a uno stato dell’Essere. Ostinazione, per esempio, può rivelarsi un tratto indispensabile del carattere per una persona che non molla mai e persegue gli obiettivi che si è posto senza farsi fermare da niente e da nessuno. Ostinazione può anche risultare un macigno sullo stomaco per chi non si permette di cambiare e di crescere. 

La mettono come caratteristica del mio segno zodiacale, lo si legge sempre e ovunque: il Toro è ostinato e possessivo, oltre che attaccato alle cose materiali. Ammetto che nella lista ci dovrebbe essere anche permaloso perché a me questo sguardo mi ha sempre offesa. Sono determinata, non ostinata. Curo le persone e le cose che mi stanno a cuore, non penso di possedere nessuno e ho sempre condiviso le mie cose con le persone di cui mi fido. Mi piaccione le cose belle, materiali è vero, ma le metto davvero all’ultimo posto nella classifica delle mie priorità. Il fatto, invece, che sono permalosa non ha sconti.

Una cosa che dà parecchio fastidio di me è la mia assertività – che a volte viene volutamente spinta per provocare crepe interessanti – e anche certe mie posizioni. Francamente, le mie posizioni non sono statiche, tendono a muoversi quando mi rendo conto che si stanno sgretolando perché i conti non mi tornano. So cambiare idea, so ammetterlo e so che è successo, succede e succederà spesso.

In tutto questo, il mio ostinarmi a resistere è davvero estremo. Questo sì. Resisto. Resisto. Resisto. Lo faccio perché non voglio e non intendo darmi altra scelta. L’ostinazione in questo senso è l’unico modo che ho per trattare con me stessa, con la parte pigra e indolente che cerca di trattenermi e di sedare ciò che di vitale ancora c’è dentro di me. Posso anche sembrare sopita, ma è soltanto perché da buon segno di terra i miei tempi sono più allungati, meno forsennati di altri. A volte è un limite, altri è una gran fortuna. Per la maggior parte del tempo è così e basta e non me ne occupo né me ne preoccupo.

Se mi permetto l’ostinazione è per rendere grazie a questa vita ogni giorno, oltre le mie lamentele oltre le mie cadute oltre i miei fastidi oltre oltre oltre oltre… Quindi anziché star qui a farmi un processo preferisco andare a farmi una doccia. Lavo via l’ostinazione della giornata per riposare meglio e domani ne indosserò una nuova. Pulita e vigorosa, perché è meglio attrezzarsi adeguatamente… non si sa mai.

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(520) Brina

La brina è un ghiaccio gentile. Si scioglie con poco, è discreta. Fa luccicare qualsiasi cosa quando si appoggia, i cristalli si animano e sembra tutto più bello. Ha origine nella rugiada e lì ritorna, appena la temperatura glielo permette. L’ho già detto: è discreta.

Le persone-brina sono le mie preferite. Non ce ne sono tante in giro, ma quando ne incontri una non puoi che riconoscerla come Essere Delicato. Senti un fresco luccicore nella spina dorsale e appena te ne rendi conto se n’è già scivolata via come solo una goccia sa fare.

Non rimangono mai troppo a lungo, sono sensibili a ogni cambio di temperatura, sanno quando brillare e quando sciogliersi – senza che nessuno glielo abbia mai insegnato, è una dote naturale. 

Le persone-brina non hanno il ghiaccio nel cuore, altrimenti non potrebbero cambiare forma e sostanza. Le persone-brina non si appiccicano come colla, loro sono libere di andare appena l’aria gira.

Le persone-brina se si posano su di te non lo fanno per coprirti o per schiacciarti, ma solo per farti un po’ compagnia e darti quella luce che ti manca.

Le persone-brina non si fanno abbracciare, e questo è un peccato, e non si fanno neppure possedere, e questa è la loro fortuna. 

Ne vorrei incontrare di più, ma come ho già detto sono rare e silenziose, se non presti attenzione rischi di calpestarle senza neppure capire cosa ti sei perso.

La vita è lieve per le persone-brina, anche se la solitudine a volte può pesare più di un macigno. Almeno così lo immagino io, che sono poco brina – probabilmente.

 

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(514) Affetto

Credo sia quel filo di seta che lega un’anima all’altra, per chissà quale motivo, per sempre. Va al di là di quanto ci vai d’accordo, dei torti subiti o fatti, dei fastidi e dell’interesse personale, bypassa tutto per resistere.

Ci si può vedere spesso o anche mai, ma proprio mai neppure per sbaglio, eppure quando il pensiero va lì il filo vibra e senti che c’è ancora. Semplicemente c’è.

Seppur io sia una di ben poche sfumature quando si tratta di legami, ho sempre considerato l’affetto come la panacea per tutto. Grazie a questo sentire – leggero eppure forte – sono riuscita a perdonare, sono riuscita quasi a dimenticare o comunque a non serbare rancore. La cosa notevole è che non mi serve che sia ricambiato. Posso provare affetto per qualcuno anche quando questo qualcuno mi respinge o mi ignora o non sa neppure che io esista.

Alcuni pensano che non sia Amore, quindi abbia meno importanza, io penso invece che sia la forma più libera ed evoluta dell’amore perché non impone e non subisce regole, perché non si aggrappa al possesso o all’esclusività, perché non implica un essere protagonista, perché non ha limiti di tempo né confini spaziali.

L’affetto si basa sull’impronta che qualcuno ha lasciato in te, consapevole o meno, e che tu non hai voluto grattare via come fosse sporco da togliere, ma che hai spolverato di tanto in tanto per accertarti che ci fosse ancora. Detto questo: ci sono persone che possono restare nella tua vita soltanto quando sono lontane e non possono più farti male. Da lontano le pensi, le curi, le innondi di affetto. Affetto silenzioso, leggero, libero, eterno.

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(481) Salvagente

Non so se ci si pensa abbastanza seriamente, in generale, ma credo che dovremmo farlo. Tutti dovrebbero riflettere su che cosa ci fa restare a galla. Cos’è che non ci fa piombare a fondo quando tutto ci viene a mancare?

Se riuscissimo a individuare quella cosa che ha il potere di farci stare su, nonostante ci venga a mancare anche la voglia o la forza per stare su, avremmo la chiave della serenità. Quella cosa lì penserà a me quando neppure io sarò in grado di pensarci. Cambierebbe tutto.

Se guardiamo a quello che abbiamo da quest’ottica, scopriremmo di poter fare a meno dell’80% delle cose che ci circondano – e che erroneamente consideriamo vitali – e concentreremmo le nostre energie su quel 20% che resta e che ha la forza e il potere di farci da salvagente quando la vita si storta.

Ho provato a fare una lista, è una lista breve – spaventosamente breve – e non si tratta di cose bensì di persone. Sorprendentemente, però, in cima alla lista c’è una cosa che fa parte di una persona e quella persona sono io e quella cosa è il mio cervello. Cervello comune, niente di che, ma collegato a un cuore – nella norma, niente di che – e a un “sentire” che vuol dire tutto e al contempo niente, ma che sostiene il resto in modo onorevole.

Tutte le scelte che ho fatto partono da questo presupposto, questo salvagente personale che ha sempre fatto il proprio dovere, in qualsiasi situazione e con tutti i mezzi che aveva a disposizione. Restare a galla ti dà la possibilità di continuare a respirare. Non ho nient’altro da aggiungere.

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(415) Evoluzione

Indietro non si torna, evolvere è l’unica strada.

Questo delizioso aforisma l’ho coniato quando avevo sedici anni. Un secolo fa, in pratica. Se devo essere franca, e non vedo motivo per cui io non debba esserlo, l’unica cosa che mi rende davvero orgogliosa di me stessa è proprio questa: ho mantenuto fede alla promessa.

Guardando alle mie origini posso affermare tranquillamente che l’evoluzione c’è stata. Oddio, molto inferiore alle mie ambizioni, ma tutto considerato in linea con la mia indole e le mie capacità (mai troppe, mai splendide).

Il nocciolo della questione sta proprio qui: imporsi un’evoluzione anziché adagiarsi e rischiare un’involuzione è già di per sé un modo per salvarsi l’anima. Che è qui che noi ci salviamo l’anima e se aspettiamo troppo diventa tardi, dovrebbe esserci chiaro il concetto anche se lo ignoriamo caparbiamente.

Evoluzione mi piacerebbe fosse sinonimo di salto quantico, ma nel mio caso non lo è e questo è duro da digerire, ma rassegnarmi soltanto perché la Natura non mi ha dotata di genio (in nessun campo) è sempre stato fuori discussione. Una sorta di amor proprio che si può confondere con la presunzione – lo so – ma che in fin dei conti non ha mai danneggiato nessuno se non me (in alcune occasioni) e mai troppo seriamente.

Anche solo per il fatto che ora sto scrivendo, il mio credo ha trovato soddisfazione. Scusate, non è cosa da poco e non è cosa ovvia. Ammiro le persone che sanno evolvere il proprio pensiero senza farsi sconti di sorta, mantenendo la pulizia interiore e la limpidezza della visione. Sono la mia ispirazione, guardare a loro mi rafforza la speranza. In cosa? Nella salvezza del Genere Umano.

Se lo guardo troppo da vicino non ci fa una gran bella figura, ma quando zoommo sulle persone giuste l’impennata di ottimismo è evidente. Sono convinta più che mai che noi siamo qui per evolvere la nostra anima e con questa prospettiva tutto sembra avere un senso, tutto sembra avere il suo posto. Cade la rabbia, cade la rogna, cade la voglia di mandare tutto al diavolo. Evolvere significa avvicinarsi al tiepido abbraccio della vita, senza soffermarsi in dettagli da nulla, senza discussioni, senza lamentele.

Al lavoro, ordunque!

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(300) Profumo

Ogni tanto mi ricompare sotto il naso, come se non fossero passati 35 anni, il profumo che usava la mia nonna. Un misto di borotalco e di rosa. Altre volte il profumo del cibo che mi cucinava e ne posso sentire ancora il sapore.

Ogni tanto rieccolo il profumo del Mare del Nord e quello delle Highlands e quello del Tay River, e chiudo gli occhi e sono di nuovo in Scozia, di nuovo immersa in quella terra che mi faceva stare bene.

Ogni tanto vengo colpita con un pugno allo stomaco dal profumo di qualcuno che ho perso e che mi manca.

Il profumo delle persone e delle cose mi rimane nella carne e non c’è verso di farlo andare via. Non si può cancellare come fai con i segni della matita su un foglio, sono disegni radicati per sempre.

E certe volte fanno bene, altre fanno male. Certe volte bene e altre male. Bene e male, mescolati con nostalgia e struggimento. Alla fine della storia, credo di essere fatta di profumi più che di parole, e con questo ho detto tutto – almeno per oggi.

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