(1032) Mosse

Quando sei in partita, qualsiasi mossa tu faccia può essere l’inizio del tuo fallimento o della tua vittoria. Ogni dannata mossa. Se non dimentichi questo dettaglio la cautela può giocare contro di te, se te lo dimentichi la leggerezza potresti pagarla cara prima di finire la partita. Comunque sia son cavoli tuoi.

Dosare cautela e leggerezza diventa cosa di primaria importanza. Se vuoi vincere. E tutti vogliono vincere.

Il valutare la mossa e calibrare la potenza dell’azione dovrebbe essere anche divertente, altrimenti che giochi a fare? Se non ti diverti, chiediti il perché. Non sei obbligato a giocare, puoi sempre scegliere di lasciare la partita e chi s’è visto s’è visto.

A me piace giocare quando si rispettano le regole, quando la vittoria non è scontata, quando il sorriso accompagna l’azione. Sono pochi i giochi che sanno garantire queste premesse. Col tempo ho perso la predisposizione al gioco. Scelgo bene, anzi ci penso su parecchio prima di scegliere. Sperando di scegliere per il meglio. Non sempre ci riesco.

Le mie mosse al momento sono cervellotiche, sulla difensiva. Mi ritrovo a calcolare troppo le eventuali perdite e le cadute. Sono più preoccupata di subire una cocente sconfitta piuttosto che focalizzata sul vincere. Giocare così non ha senso.

L’unica mossa intelligente che posso permettermi al momento è non giocare affatto. Aspettare. Osservare. Ascoltare. Lasciare che il gioco sia condotto da chi si sta divertendo e che può impiegare il suo tempo senza altro scopo se non il vedere-come-andrà.

Rimando al futuro ciò che nel presente non so maneggiare.

Passo e chiudo.

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(932) Ricucire

Evidentemente viviamo di strappi. Partiamo tutti belli compatti, niente ci potrebbe distruggere – il nostro pensiero nasce libero e splendente ancora prima di uscire dalla mamma – ma non è così. Appena ci confrontiamo con il mondo iniziamo a subire piccoli strappi. Piccoli, quasi invisibili, ma la nostra trama si indebolisce per forza di cose.

Mano a mano che ce ne accorgiamo, ci costringiamo a prendere ago e filo e ricucirci… un pezzettino per volta, con pazienza. Se non lo fai ti disintegri, pertanto impari a farlo. Impari a farlo sempre meglio. Impari a farlo di default, perché sai che gli strappi sono all’ordine del giorno. 

Ci stanchiamo più a ricucire i nostri strappi che a cercare di schivarli, ma per quanto tu faccia è stramaledettamente difficile evitarli. Siamo Esseri sensibili al tempo, agli umori, ai dispiaceri, ai problemi, alle perdite, alle mancanze, alle frustrazioni, alle umiliazioni, ai sogni infranti e via dicendo. Tutto è, potenzialmente parlando, foriero di strappi. Anche se non ci facciamo caso, anche se ci siamo abituati, anche se siamo diventati dei sarti provetti. Non fa niente, è così che si vive. Di strappi e ricuciture.

A me dispiace, voglio dire che preferirei passare il mio tempo a sfoderare colori meravigliosi come fanno i pavoni piuttosto che rammendare orli e rattoppare buchi e sistemare quello che ogni giorno cede in me. Solo che se lascio andare a ramengo tutto non è che si sistema da sola la faccenda, anzi. Una smagliatura al collant e addio collant se lo lasci fare, tanto per intenderci.

Però mi dispiace. Speravo di riuscire a proteggermi meglio.

Epic fail.

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(623) Conti

Bisogna saper fare i conti. Detto da me, diplomata fantozziana che ha ben pensato di fare altro nella vita, è tutto un dire. Fare i conti e farli bene, questo ti fa fare passi in avanti costanti e solidi. 

Forse il Perdite e Profitti che alle superiori mi ha fatto sputare sorci verdi, grazie a una prof che voleva farmi capire per bene che quella non era la mia strada, mi è entrato così bene nel sangue che circola-oggi-circola-domani mi ha aiutato a fare i passi giusti, anche se non sempre consapevolmente. La mia coscienza si è rifiutata più volte di mettersi lì con il pallottoliere a spostare di qua quel che andava spostato di qua e di là quello che stava di qua e non doveva starci, eppure alla fine ‘sto lavoro infame si è rivelato utile.

La parte mortificante, per me, arriva quando devo portare a terra i progetti e capire quanto sono effettivamente geniali come io mi racconto e, soprattutto, quanto sono fattibili come io auspico. I conti non tornano mai come dovrebbero, come io vorrei che tornassero. Da lì la caterva di problematiche da risolvere, che può semplicemente mandare all’aria entusiasmo, buoni propositi, fiducia nella tua buona stella, speranza nell’aiuto Divino, offerte di sangue all’altare della botta di culo. Tutto quanto in un colpo solo.

Mi ritrovo, pertanto, sempre lì con lo Stato Patrimoniale del Dare e Avere, a capire dove posso dare di più (come cantava il trio Raf-Ruggeri-Tozzi) e dove di meno, dove è il caso di Avere e dove scordarselo proprio. Non riesce a piacermi, è sempre la parte peggiore di tutte, eppure è necessario. Far tornare i conti  è necessario. Ti fa capire quello che c’è e quello che manca. Ti rende evidente dove manca qualcosa e dove ce n’è troppo. Ti svela arcani interessanti tipo: perché sono sempre al verde-dove sono sparite le risorse-cosa mi resta da fare ora? Cose così, di poco conto, vita-o-morte.

No, niente da fare, neppure a scriverla ‘sta cosa riesco a digerirla. Puah!

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(470) Catarsi

Pensavo di dover lavorare molto per ottenere ciò che volevo. L’ho fatto, ma non sono mai riuscita a ottenere quello che volevo, mi sono sempre fermata un passo prima. Non lo so il perché.

Pensavo di dover impegnarmi molto per diventare ciò che volevo essere. L’ho fatto ma ancora non sono riuscita a essere ciò che voglio veramente essere. Non credo ci riuscirò mai.

Questa presa di coscienza non è recente, risale perlomeno a un quindicennio fa, eppure faccio fatica a digerire certe verità, mi ci vuole davvero molto molto tempo. Mentre passa il tempo faccio conti e bilanci, rimurgino, rivivo vicende e circostanze nella stanza buia delle memorie e mi tormento non poco. Il Perdite e Profitti non torna mai, ancora oggi non so come io abbia fatto a prendere 8 nel compito di ragioneria degli esami di maturità. Culo, non c’è dubbio.

Fatto sta che tutto questo struggimento senza fine, senza senso e senza possibilità di rivalsa perché ciò che è stato è stato, ha un luogo dove viene sospeso e per quel tempo in cui sono lì non esiste più.

Quel luogo è stretto e spaziosissimo, è profondo, altissimo e claustrofobico. Un luogo non sempre accessibile, non sempre comodo, non sempre solido. Fa caldo e fa freddo, è umido e secco. Un inferno, raramente un paradiso. Eppure, arrivo lì e non esiste più nulla di certo, il reale si rende effimero, l’effimero si concretizza.

Quella catarsi mi mantiene viva. Mi fa sopportare tutto quello che non sarò mai, tutto quello che non avrò mai, tutto quello che non oserò mai sognare, tutto quello che non so neppure di ignorare. Non lo so dire meglio, ma credo di essere fortunata.

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(43) Posto

Anche se faccio finta di non pensarci, alla fine ci devo pensare. Quando mi rendo conto di non essere nel posto giusto, giusto per me, devo per forza di cose domandarmi: ma qual è il posto giusto per me?

Non l’ho ancora trovato. Fine del discorso.

No, è solo l’inizio. Non è un posto fuori, ma un posto dentro. Indoor. Detto così sembra idiota, ma non lo è se provi quello che provo io. Tutto quello che sta fuori da me mi appare inverosimile, tutto quello che è in me mi pare reale, anche più reale del reale.

Houston abbiamo un problema.

Più di uno, a fare i conti, perché da qui si apre un ventaglio pressocché infinito di possibilità che mi portano esattamente in nessun-posto, dove mi trovo ormai così a mio agio da farmi uscire a fatica.

Il mio posto è dove scrivo. Per esempio è qui e ora, qui sul mio blog-diariovirtuale e ora che sto digitando senza sapere dove sto andando, mentre seguo semplicemente il filo dei miei pensieri. Sembrerà assurdo, ma è il mio posto. Certo che è da squilibrati, ma a me va bene così.

A guardarmi da fuori, forse, non è così evidente (almeno lo spero) e posso barcamenarmi con un po’ di fortuna e un po’ di attenzione, ma la cosa mi si rende chiara di anno in anno sempre di più. L’effetto big-domino-rally è partito da molto tempo e non si fermerà finché l’ultimo mattoncino non piomberà a terra.

No, non sono spaventata. Non più.

Significa che c’è preoccupazione e non paura. Anche questa cosa la capisce soltanto chi la prova. Spiegarlo ora non mi va, sono stanca, ma forse ci ritornerò su prima o poi. Stasera volevo solo parlare del posto dove sentirsi a posto, senza scompensi al Profitti e Perdite del proprio gestionale interno.

Ecco, io ce l’ho. Non è così evidente, forse, ma ce l’ho.

Ora non devo far altro che farmelo bastare. Sì, sarebbe ora che io me lo facessi bastare. Lo farò da adesso, promesso.

b__

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