(1060) Palla

Quando sta a te giocare la palla ovviamente le cose cambiano. È tutto nelle tue mani: la tua concentrazione, la tua determinazione, le tue capacità, la tua fortuna (sì, quella ci vuole sempre). Se la giochi bene, non puoi che migliorare, se la giochi male e non ti riprendi dalla delusione autoinferta rischi di schiantarti in un fallimento totale.

Avere una palla da giocare non è cosa ovvia. Potrebbe non succederti mai se pensi che l’occasione ti cadrà magicamente in mano. Conviene darsi da fare. Sempre.

Al di là che nella vita si vince e si perde a fasi alterne, e non è dovuto tanto al talento e alle capacità quanto a una serie infinta di varianti e variabili ambientali che a farne la lista non si finisce più, è anche vero che vincere fa sempre bene e perdere mica sempre. Dipende da come perdi. Ma non è del tutto vero neppure questo, perché se perdi per un soffio ti sale un nervoso che preferiresti esserti classificata ultima piuttosto che seconda a un punto di scarto. Eppure…

La vita non è una competizione a punti, ma a situazioni. Nel senso che se le situazioni che non ti vedono in pole position te le giochi comunque bene, al meglio delle tue possibilità, ti prepari il terreno per una probabile vittoria futura. E allora ci si dovrebbe chiedere: cos’è una vittoria? Uno stagliarsi sopra tutti per far vedere al mondo che sei il migliore, o una gratificazione concreta per un lavoro ben fatto a cui ti sei dedicato con passione? Eccoci. Non lo so.

Sinceramente, non lo so. Ho sempre pensato fosse la seconda che ho scritto, ma poi la realtà – le vittorie celebrate – sono le altre. Quindi una vittoria senza celebrazioni vale niente? Sì, è possibile. Quindi una sconfitta fatta passare per vittoria, celebrata come fosse una grande vittoria, può valere più di una senza celebrazione? Sì, è possibile.

Fatto il giro dell’oca con questo ragionamento del tubo, mi posiziono per giocare la mia palla. Conscia della mia preparazione onorevole, della mia determinazione onorevole, del mio impegno onorevole, della mia fortuna ancora da verificare. Devo però ricordarmi di celebrare, alla fine del gioco, con qualsiasi risultato avrò in mano, o non sarà valso a nulla.

Oppure no?

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(917) Romeo

Ok, Romeo era un fake. Nel senso che è, invece, una bella gattona incinta e non lo stalker della mia Mei (che non sapeva più dove scappare). Tutto il film che m’ero fatta era frutto della mia fantasia malata. Bastava che guardassi a quella panciona che cresceva e magari un dubbio me lo sarei fatto venire. Ma non ci ho fatto caso. Non gli ho dato importanza.

Romeo non esiste.

E questa la dice lunga, lunghissima, su quello che succede al nostro cervello quando si fissa su un’idea e smette di guardare la realtà. Questo episodio si è verificato – componendosi step by step – negli ultimi due mesi. Quindi il mio film è durato per ben due mesi. Tutto quello che registravo erano dettagli che andavano a rafforzare la mia idea. Dettagli che decontestualizzati potevano tranquillamente essere letti a modo mio, ma che guardati meglio e messi in collegamento potevano dare una risultanza diversa, addirittura avrebbero potuto farmi notare che quella pancia conteneva delle piccole vite e che la micia aveva bisogno di entrare in casa e di essere nutrita almeno il doppio e che si scontrava con le mie gatte e non il gatto maschio (si ignoravano loro due). Insomma: la realtà mi ha dimostrato quanto so essere cieca e molto probabilmente idiota. Peeeeerfetto.

Come ho potuto appurare che Romeo non esiste e non è mai esistito se non nella mia testa, potremmo tutti fare altrettanto e smascherare enormi ed evidenti fake che ci passano sotto il naso tutti i sacrosanti giorni. Potremmo. Ma lo vogliamo? Ci converrebbe? Ce lo possiamo permettere senza perdere la faccia? Eh. Perché perdere la faccia rode a tutti. Proprio a tutti.

Allora preferiamo credere ai tanti Romeo che la nostra mente partorisce random piuttosto che darci una botta in testa e riappropriarci di un minimo di buon senso. 

Per oggi ho dato, la mia botta in testa l’ho ricevuta. E mi sta pure bene.

‘notte.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(743) Maestosa

Ho un’idea Maestosa della Vita. Di come la Vita è – nonostante tutto quello che di Lei possiamo farci (che non è granché perché non siamo capaci di azioni maestose se non di rado). Eppure la Vita porta in sé – e per sé – questa maestosità in ogni sua espressione. Basta solo farci caso e avremo davanti ai nostri occhi tutte le prove che ci servono.

Questa mia convinzione va contro ogni cosa che affronto quotidianamente perché la Maestosità in gioco non è sempre quella che ti porta carichi di felicità, e forse è ora di sfatare questo mito: la Vita ci vuole vivi ma non necessariamente felici, la scelta sta a noi.

Le proposte che la Vita ci mette a disposizione hanno un miliardo di variabili l’una, cambiano a seconda delle circostanze e degli intrecci e degli incontri e degli incidenti e degli imprevisti e delle sfighe o delle fortune. Variabili a non finire, variabili da perderci il sonno, variabili da sbattere la testa contro il muro. Talmente tanto e talmente tutto insieme che non lo si potrebbe definire se non nel modo che ho scelto io: Maestoso. Un dannatissimo Maestoso modo di farci attraversare ogni atomo dell’Universo con i nostri poveri sensi martoriati.

Come fare per non restare schiacciati da tutta questa Maestosità? Riconoscerla e rispettarla, credo. Non possiamo fare altro se non cavalcarla e sperare che non ci disarcioni. Non dobbiamo fare altro se non affidarci a quello che deve essere senza mai smettere di fare quello che dobbiamo fare: cercare e scoprire, cercare e provare, cercare e trovare. Pezzo dopo pezzo ci faremo un bel puzzle e ce lo guarderemo una volta diventati vecchi, ricordando un po’ e il resto inventando come fanno i bambini. Guarderemo il cielo invidiando le stelle che nonostante la mancanza di vita ancora sanno brillare. E saremo grati per tutto quello che di Maestoso ci avrà attraversato, perché la Vita avrà saputo prendersi cura di noi – nonostante tutto, nonostante noi.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(726) Altezza

Non è che soffro di vertigini, è che l’altezza – se la guardo dal basso – mi disorienta. Dall’alto la gestisco, dal basso no. Questo dà il quadro perfetto di come io sia fatta al contrario – e in un certo senso saperlo può essere pure rassicurante. 

Non ho mai pensato di dover scalare un’ipotetica montagna o un grattacielo per arrivare chissà dove nella vita. Non ci ho mai pensato ma in fin dei conti è quello che ho fatto. Non ho fatto altro che arrampicarmi, santidddio! Una sorta di freeclimber drogato di adrenalina. Presente. Ecco spiegato perché la questione del No Limits e degli sport estremi non mi tocca minimamente, già do e non mi serve altro.

Dall’alto si vede meglio, le cose si ridimensionano. Se plani sulle cose, queste non ti possono crollare addosso – e già qui ci metterei la firma. Quindi quello che faccio è un quotidiano esercizio per restare in quota. Non per essere sempre al top ma per evitare di perdere i punti di riferimento e ritrovarmi a girare a vuoto tra sensi unici, rotonde e incroci inverosimili. Ammetto che ci riesco abbastanza, mai perfettamente, ma abbastanza a lungo e con una certa costanza. Questione di allenamento, senza dubbio. E c’è anche un altro elemento da tenere in considerazione: bisogna non aver paura di cadere. Contando sbucciature e contusioni che mi hanno accompagnato negli ultimi quarantasei anni, cadere non è più una paura per me è una certezza. Io cado. Cado spesso. Cado anche frantumandomi, altroché, quindi lo do per scontato e anziché temerlo me lo aspetto. Quando non cado mi preoccupo: com’è possibile?!

Un paio di volte son precipitata mentre stavo davvero in alto – con l’umore intendo – e forse il mio ironico cinismo è nato per evitarmi la terza volta. Me ne sono bastate due, grazie, la terza me la posso risparmiare – so già quanto male fa.

Quindi, ricapitolando: meglio in alto che in basso. Si cade comunque, inutile procedere con paura, magari dei paraginocchia e un paracadute possono aiutare. Non so davvero se basti un po’ di filosofia e due attrezzi tecnici per affrontare i prossimi mesi, ma visto che non ho altro per le mani è così che procederò. Ci sono tante cose che spingono per entrare in gioco, chi sono io per vietare loro l’entrata? Eh.

Ai posteri l’ardua sentenza.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(725) Testa

Se ti parte la testa son cazzi amari. In tutti i sensi. Conviene tenersela stretta e comunque attaccata al collo. Sarà pure un’affermazione banale, ma tutti la perdono prima o poi e non tutti riescono a ritrovarla, perciò ricordarci dei cazzi amari che ci siamo smazzati a suo tempo – e ringraziare per essere riusciti a ritornare interi – non è poi così banale. 

Perdi la testa quando sei in urgenza di lucidità e quella s’è data perché le circostanze sono tumultuose. Non riesci a controllare quello che ti sta cadendo addosso e neppure te stesso, indifferente che si tratti di catastrofe naturale o innamoramento, le conseguenze sono le stesse: fai e dici cose che non stanno né in cielo né in terra.

Quando la ritrovi, la testa, ti auguri di non aver detto e non aver fatto quello che invece hai detto e fatto e speri che i testimoni superstiti siano stati colpiti da amnesia totale e non tengano memoria alcuna di te sul luogo del misfatto. Non è mai così. Ci saranno sempre foto e video ad immortalare certi momenti, che tu lo voglia o no.

Perdere la testa non è un gioco, non lo fai apposta, ti capita e basta. Non è nelle tue intenzioni, vorresti proprio scansarlo, ti capita e basta. E per quanto tu possa evitare di infilarti in situazioni maledette, non sei mai al sicuro. Certe cose non sono preannunciate da messaggeri dell’Olimpo, ti piombano addosso e ti atterrano. E basta.

E non ti sarà sufficiente l’intelligenza, la sensibilità, la compostezza, l’indifferenza e neppure la saggezza quando ti ci troverai in mezzo, in quel momento sarà la disperazione a spingerti oltre per farti sopravvivere. Sì, anche quando ti innamori.

Detto questo: si salvi chi può.

 

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(722) Soliloquio

Non sono solita bere alcolici, mi sarò sbronzata un paio di volte in tutta la mia vita, eppure oggi ho riletto a casaccio alcuni dei post di questo mio blog e mi sono impressionata. Sembro un’alcolizzata all’ultimo stadio. 

Sto qui a scrivere di pensieri e cose che hanno forma solida soltanto nella mia mente da quasi due anni. Una sbronza bella lunga direi.

Non mi sono mai soffermata sul fatto che chi non mi conosce e passa di qui per caso a leggermi potrebbe farsi un’idea piuttosto squinternata di me – e molto probabilmente succede anche a chi mi conosce nella vita reale. Quindi, visto che non l’ho mai considerato un rischio fino a ora, ho deciso che continuerò a non pensarci. Mi viene più facile.

Quest’ennesimo soliloquio non è che una conferma di tutto quello che il mio stato perenne d’inebriamento comporta: pensieri concatenati che solitamente mi portano a zonzo senza alcuna meta e poi mi lasciano a un angolo o l’altro della strada. Strada deserta, il più delle volte. Che senso ha? Averceli, i pensieri, potrebbe non essere molto sensato ma non posso impedire loro di comparirmi in testa, non scriverli avrebbe ancora meno senso perché mi illudo ancora che uno di questi scritti potrebbe – col senno si poi – rivelarsi illuminante. Non tanto per gli altri quanto per me. Metti che a un certo punto mi viene un pensiero straordinario e poi me lo dimentico… ma scherziamo?!

Chi pensa troppo corre il rischio di intortarsi avvoltolandosi in se stesso. Perdi la bussola, perdi la misura, perdi il controllo. Bisogna ancorarsi a terra in qualche modo e ognuno trova il suo modo. Ecco, il mio modo è pressocché innocuo. Riguarda soltanto me, nessun danno collaterale. Non è mica poco.

Comunque stasera sono in ritardo rispetto al solito e sto crollando dalla stanchezza… questo soliloquio risulterà più alcolico che mai. Quasi quasi me ne faccio un altro. Anzi, ne prendo due. Due on the rocks, ovviamente.

Buonanotte.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(523) Film

E come in un film vedo le cose scorrere, sono coinvolta ma fino a un certo punto, a meno che il protagonista non mi somigli un po’. Per istinto, per ispirazione, per ambizione, per origine, per destino. Almeno un po’.

So bene che essere troppo dentro a una storia ti fa perdere la brocca, non capisci più dove stai tu e dove stanno loro, ti gira la testa, piangi per cose che manco esistono e ridi per cose che in realtà sono crudeli e insensate. Lo so. Per questo, tanto tempo fa, ho deciso che volevo sapere tutto delle storie, ma proprio tutto.

I film che ora mi sanno portare via li scelgo con cura, non tutti, non in ogni momento, non sempre e non per sempre. Ho guadagnato un certo distacco e mi faccio ammaliare solo se la storia è pensata davvero bene. Ho perso ingenuità e anche disposizione a farmi trasportare, è vero, ma in un modo o nell’altro la vita te lo impone – anche se non vuoi crescere – io le ho solo agevolato il compito.

Eppure, quando trovo il film giusto, quello che ha i luoghi perfetti e i tempi che sembrano i miei e i personaggi che mi parlano, mi insegnano, mi fanno sognare… allora diventa indimenticabile. Piango, rido, mi arrabbio e gioisco perché quello che provo è vero. Vero, non verosimile, proprio vero.

E come in un film vivo anche il mio presente che sarà ieri già tra poche ore e che se non lo suddividessi in frame finirei col perdere tutto e perdere tutto mi spaventa. Più del ricordare tutto. Più del cancellare volutamente tutto. Più del reinventare tutto e riscrivere tutto. Perdere è un verbo che non smetterà mai di farmi paura. Per questo non smetterò mai di scrivere.

Ciak si gira.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(492) Yo-yo

Ne avrò avuti dieci di yo-yo, li usavo per un po’ e poi li perdevo. Me li dimenticavo di qua o di là quando avevo perso interesse per loro, ma dopo qualche tempo l’interesse mi tornava e poi mi ripassava. A un certo punto mi sono dimenticata della loro esistenza e sono andata avanti.

La mancanza di interesse era dovuta al fatto che non usavo lo yo-yo in modo creativo, ma facendolo scivolare su e giù e basta. Ero piuttosto bravina, ma una volta che sai fare qualcosa poi scatta la noia del ripetere il gesto in automatico. Ecco: appena un gesto mi viene automatico so che è ora di passare ad altro.

Vorrei fosse così anche per quanto riguarda me: vorrei che le cose che chiarisco di me stessa rimanessero impresse a fuoco (metaforicamente parlando) tanto da potermele scordare perché ormai sono parte di me. Non mi succede. Mi sembra sempre di non poter passare oltre, mi fermo sempre nelle stesse cose e quelle son sempre nuove come la prima volta che le ho scoperte. No, non sono belle sorprese.

Mi costa una fatica orrenda fermarmi, impormi, andare oltre con un gesto che sia veramente una denuncia, una ruggente asserzione e che risuoni forte per sempre. Qualcosa che porti in sé l’eco del non-farlo-succedere-più. Quando ci ho provato (e ci sono anche riuscita) c’è sempre stata una rottura, ogni volta. Queste rotture mi hanno danneggiato intimamente, hanno indurito il mio amor proprio. Reagisco male alle rotture, non riesco a mettermele via e basta.

Considerato tutto quanto scritto sopra, oggi devo andare oltre e prendermi carico del fatto che più sali la montagna e più fatica fai. Più sali e più ti trovi solo. Più sali e più ti manca l’aria. Più sali e più ti rendi conto se salire è quello che vuoi davvero. So che voglio salire, so che devo salire, so che se rimanessi qui comunque perderei e non solo la battaglia, bensì la guerra.

Quindi salgo, con fatica, in solitudine e con il fiato a metà. Senza voltarmi perché la cervicale inizierebbe ad urlarmi: “Cretina, guarda avanti!”. E avere le scimmie urlatrici nel cervello non è una cosa bella.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(387) Ombrelli

Credo che gli ombrelli siano un’invenzione splendida. Davvero. Sono utili, sono colorati – volendo – sono pratici, sono belli. Un’invenzione splendida, ripeto. Gli ombrelli sono quelle cose che ho disseminato un po’ per tutto il tratto Udine-Brescia, o Milano – Brescia, o Torino – Brescia, nei miei anni da pendolare. Li ho dimenticati ovunque: nelle stazioni, nei bar, nei negozi, negli uffici postali… ovunque.

Certe volte, mentre corro sotto la pioggia in cerca di un riparo per non prendermi una polmonite fulminante, vedo perfetti sconosciuti che passeggiano tranquillamente perché portatori sani di bellissimi-utili-colorati ombrelli. Ogni tanto mi è pure sembrato che uno di questi ombrelli somigliasse paurosamente al mio, quello appena perso chissà dove, ma forse è stato solo un inganno della mente.

Non perdo tante cose, almeno non con questa frequenza e questa costanza da Guinness dei Primati, solitamente sto attenta. Ho perso una volta – inspiegabilmente, se ve lo raccontassi non ci credereste neppure voi – le chiavi dell’auto. Fu una giornata disastrosa, da non augurare neppure al tuo peggior nemico. Un’altra volta ho perso la borsetta, anzi, quella volta me la sono proprio dimenticata nella sala d’aspetto del medico condotto e quando l’ho ritrovata – grazie al suddetto medico – era stata ben svuotata di tutti i miei averi. Mi succede, solitamente, quando sono piena di cose in testa, ed è assurdo pretendere che ci stiano troppe cose nella mia testa. Come posso anche ricordarmi di riprendere l’ombrello che ho lasciato all’entrata soltanto dieci minuti prima?!

Non mi piace quando perdo le cose. Peggio quando perdo le persone. Ma se per le persone perse la colpa è da dividere a metà, per le cose me la devo prendere soltanto con me stessa. Eh.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(183) Immersione

Una cosa che mi viene bene, immergermi. Prendo le misure e vado. Sotto, in profondità. Quando sono là sotto perdo il contatto con tutto il resto, quello che lascio in superficie, e là sotto non sento mancanze, non sento lontananza,  là sotto mi basto.

Il tempo dell’immersione non è lunghissimo, ma non per mio volere, soltanto perché qui in superficie ci sono cose da fare e io le devo fare.

Non pratico soltanto un tipo di immersione, ma tutte. Proprio tutte. Immaginane una e io già l’ho provata. Anche se non l’ho sperimentata con il corpo, la mia mente l’ha già percorsa quella via. Si tratta di allenamento, ma l’ho già detto: è una cosa che mi viene dannatamente bene.

Solo una piccola parte di queste immersioni diventa concreta, scritta e quindi consegnata alla realtà della superficie. Credo sia giusto così.

Un dato di fatto è che là sotto ci sono colori pazzeschi e il silenzio è pieno di suoni che parlano di tutto quello che in superficie si frantumerebbe perché delicato, perché pulito, perché troppo vivo.

E così è.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(165) Carte

Tempo fa – molto tempo fa – pensavo che uno nascesse con delle carte da giocarsi e che la partita si risolvesse in una mano soltanto. Ero convinta di essere fregata, avevo delle carte veramente pessime.

Avevo frainteso la questione: ci sono più mani da giocare e le carte vengono ridistribuite più volte (certo, un po’ alla cavolo – bisogna dirlo) per offrirti nuove possibilità di sfangartela.

Il punto è, però, che se non impari a giocare, puoi anche avere le carte migliori del mondo ma non te ne accorgerai mai. L’imparare occupa gran parte della nostra vita e il continuo cambio di carte può portare all’annichilimento. Bisogna imparare e bisogna capire come gestire le carte. E maneggiare dignitosamente la tensione del gioco. E leggere meglio volti e ambienti per intuire eventuali mosse e bluff.

Dimenticavo: si gioca per vincere, non per evitare di perdere o perdere troppo.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(160) Arcobaleno

Lo catturo negli occhi dei ragazzi, di tanto in tanto, quando si dimenticano di fare finta di niente e cascano nella rete del “forse posso”.

Forse posso farlo, forse ce la faccio, forse se ci provo mi potrebbe pure riuscire.

Non sono mai io a dubitare, sono loro stessi a dubitare delle loro capacità. Mollano ancora prima di provarci perché pensano che la delusione di una sconfitta bruci troppo. Non vogliono sentire dolore.

Spesso il dolore è più forte quando lo immagini di quando lo attraversi, spesso se non lo attraversi non lo puoi sconfiggere. Un’immagine difficilmente si fa sconfiggere e quando tu sopravvivi al dolore ti senti forte e pronto a fare meglio.

Oggi gliel’ho dimostrato e ho visto l’arcobaleno nei loro occhi. Bellissimo.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF