(1084) Crepuscolo

Scende la luce e scende il giorno che si corica sul selciato aspettandosi un po’ di silenzio. Ma il silenzio parla comunque, specialmente a chi non ha voglia di ascoltare. E il silenzio parla di scelte fatte e non fatte, quelle azzeccate e quelle che sono state un disastro. Le scelte disastrose son quelle che fanno più casino, riducono il silenzio in briciole.

Quindi una sta lì ad ascoltare e si arrende al fatto che i conti non tornano, che dovrebbe stare bene e invece no. E si domanda perché no. E comincia a scandagliare il passato e trova tutte le magagne del caso (siamo tutti pieni di sporcizia nascosta sotto il tappeto che dovrebbe scomparire e invece si sedimenta). E non è che hai sempre voglia di star lì a pulire, è sceso il giorno anche per te e tutta la stanchezza del Creato.

Non si sa il perché, ma è al crepuscolo che la polvere si alza. Aspetta di avere tutta la tua attenzione per materializzarsi davanti ai tuoi occhi che si stanno chiudendo ben sapendo di non poter avere riposo. Le cose si squagliano assieme alle motivazioni e ti rimangono in mano tristi rimasugli di conseguenze. E che te ne farai mai di tutta quella roba? Boh.

La si mette sotto al tappeto, ovviamente. Strato su strato. Potrai mai perdonartelo? Il tuo essere quella delle scelte sbilenche, delle motivazioni da torero, delle posizioni granitiche su pavimenti scivolosi. Potrai mai perdonartelo? Al crepuscolo puoi. Sì, perché ne hai piene le palle di giudicare ogni pensiero e ogni passo che hai fatto nel corso di tutta la tua esistenza e meno male che la memoria ti oscura buona parte del vissuto altrimenti non ne usciresti viva.

Ecco: l’intenzione è di uscirne viva. Una volta focalizzato l’obiettivo si fa in fretta a prendere una direzione e – senza guardarsi troppo indietro – si taglia diritto per di là.

Se’… ti piacerebbe. Dai, non ci credi neppure tu. E smettila di ridere!

 

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(1072) Scaffale

“Allora ci si colloca nello scaffale degli oggetti smarriti, si aspetta di essere cercati di nuovo e si resta ad occhi aperti la notte aspettando il passo di chi torni a reclamarci. Ma nessuno torna e dopo il giusto tempo si è di nuovo se stessi, sciolti dal possesso, liberi perché si diventa liberi dopo essere stati perduti.”
(“Aceto, arcobaleno” di Erri De Luca)

Stai lì sovrapensiero, sai che ti gira qualcosa che potrebbe avere parole ma che si rifiuta di parlare. Non puoi fare altro che aspettare che accada. Se non parla dovrà per forza palesarsi con un’azione, altrimenti che sta lì a fare? 

Vaghi sovrapensiero tra i post del diario di Facebook, non è che uno pensa a sta sempre immobile e scorrere è sempre meglio di stagnare. Così tanto per dire. Fatto sta che accade quel che doveva accadere e leggi una frase riportata da qualcuno e postata come omaggio all’Autore. Sei sovrapensiero e quindi leggi solo con gli occhi. Veloce. E vai avanti. Dopo un po’ gli occhi si sono collegati al cervello riportando un messaggio che evidenzia due o tre parole e poco altro. Non c’è verso di archiviarle, ci pensi mentre scorri e devi tornare indietro. E lo ritrovi quel post, e rileggi quella frase una volta, due volte, tre volte. 

Accade quindi (perché gli accadimenti sono sempre a valanga) che quella frase ti scoppia nella testa e ti muove come un terremoto col boato scuro. Sì, il tuo scaffale trema. 

Ti rendi conto che il giusto tempo è arrivato e che si è sciolto il possesso. Ti accorgi che non sei più perduto e che riconsiderarsi libero non è un peccato. Non sei più sovrapensiero sei dentro il pensiero e se lo allarghi un po’ vedi e senti meglio. Ti mancava l’aria e non te n’eri neppure accorta. L’aria c’è sempre stata ma te la stavi negando. Ti stavi annegando. Perché? Sortilegio maledetto.

L’Oceano in movimento ti compare davanti senza averlo mai visto. Dovresti vederlo, pensi. Dovresti andarlo a incontrare. Ci sono storie che devono essere raccontate. Prima o poi, nel tempo giusto.

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(1004) Modellare

È difficile immaginarci come sarebbe andata se non avessimo detto o non avessimo fatto, o se avessimo detto e fatto anziché starcene immobili o andarcene nel momento in cui dovevamo restare. Si prende la via di Sliding Doors e si viaggia di fantasia. Poteva succedere di tutto, ci diciamo, per giustificarci (scampato pericolo) o per scusarci (mancanza di coraggio). Poteva.

Quel che facciamo è una manipolazione della nostra esistenza che perpetriamo con una certa nonchalance, come se non contasse nulla. Anziché prendere coscienza di come stiamo modellando il nostro oggi e il nostro domani ci rendiamo autori di un ieri che non volevamo e non vogliamo. E lo trattiamo come se non fossimo stati noi a decidere, a fare o non fare, dire o non dire.

Eravamo noi. Magari diversi da quello che siamo oggi, ma eravamo noi. Noi lì a modellare incoscientemente quel che poi sarebbe restato a testimonianza del nostro passaggio nel tempo.

Modellare significa dare forma. Dare una forma ci permette di riconoscere quel che stiamo creando come un’espressione del nostro volere e della nostra capacità di rendere concrete certe idee, certi pensieri.

Modellare quel che abbiamo tra le mani significa avere un’idea su quello che sarà il suo scopo, la sua utilità, foss’anche soltanto qualcosa di bello da guardare. Perché la Bellezza fino ad ora non è riuscita a salvare il mondo, ma lo tiene a galla. Onorevolmente, considerato che è rimasta sola a combattere la battaglia, lei sola a crederci.

Modellare è nelle nostre possibilità, è nelle nostre corde, sappiamo come fare e sappiamo anche farlo bene quando ci impegniamo. Dovremmo forse impegnarci più spesso. Se fossimo concentrati sul nostro modellare la nostra esistenza saremmo meno focalizzati sul disturbare o distruggere il lavoro di chi lo sta facendo, magari anche bene, magari anche meglio di noi.

Ma si sa, siamo qui per crearci fastidio l’un l’altro, siamo qui per rovinare quello che di bello ci è stato dato in dotazione nell’istante in cui abbiamo fatto il primo respiro. E pensiamo di averne il diritto, siamo tutti così annoiati dal nostro vivere.

Qualcuno, poco tempo fa, mi ha detto: meritiamo di estinguerci. E ho sentito una stretta allo stomaco rendendomi conto che è quello che ci meritiamo davvero. Poi ho continuato il pensiero per vedere dove mi stava portando e il pensiero si è preso cura di me ricordandomi che a molti sbagli si può porre rimedio e che a modellare un po’ meglio si fa sempre in tempo.

Bisogna soltanto credere che ne valga la pena.

Ne vale la pena?

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(988) Frustrazione

Sentimento di chi ritiene che il proprio agire sia vano, questa è la definizione da dizionario. Credo sia perfetta. Bellissima. Precisa, senza via di scampo. La indossi e te la senti cadere nei punti giusti, non tira da nessuna parte, è proprio quella cosa lì che cercavi per comprendere quello che stai provando.

E adesso? Adesso, come al solito, come fanno le persone assennate, come fanno le persone mature, come fanno le persone che vogliono risolvere le proprie miserie senza per questo armarsi di kalashnikov per mettere in atto un massacro… adesso si razionalizza.

Pronti? Via!

Partiamo dal presupposto che non posso provare frustrazione se mi limito al pensiero senza farlo seguire da un’azione. Se ti fermi al pensare non puoi dirti frustrato, devi trovare un altro aggettivo che definisca il tuo sentimento. Perché è giusto rivendicare la maternità/paternità del NOSTRO aggettivo, nostro ovvero di coloro che non pensano e stop, ma AGISCONO  e poi verificano coi fatti che il proprio agire sia stato vano. Cioè, non ti puoi fare un film in testa e dichiararti vano soltanto perché hai paura che una volta esplicitata l’azione non servirà a niente. Prima prova e poi – se va buca – aggrappati alla frustrazione. È tuo diritto, te lo sei meritato, perché ci hai provato e non è andata bene. La frustrazione è tua. Goditela.

Da qui soltanto, con questo trofeo guadagnato in campo, si può avanzare nel ragionamento. La frustrazione deriva dal tentativo vano, ma i motivi del fallimento cambiano di situazione in situazione per cui è lì che bisogna andare a indagare. Auguri.

Una volta che arrivi all’origine del flop (pensiero bacato in partenza? Azione poco decisa o esagerata? Situazione troppo incasinata per affrontarla da solo? Situazione senza via d’uscita?), devi procedere con una lista di “potevo/dovevo invece fare” oppure “dovevo pensare anche che”. Lo so, è una menata, ma se non lo fai tu non lo può fare nessuno al tuo posto e la frustrazione si appiccica furiosamente a chi subisce inerme. Pensaci.

Ok, a questa fase segue la parte più significativa: la reazione.

Io reagisco incazzandomi. Ecco, mi rendo conto che è limitato e limitante come contrattacco, ma sono una persona semplice. Da A vado a B, non salto passaggi, non sono programmata per farlo. Quindi, attraversando la furia, arrivo a una stanchezza devastante (la furia ha un costo), e dalla stanchezza passo a uno stato strano permeato di “ma-chi-se-ne-fotte”. Dura poco. Forse dura troppo poco. 

Annoiata dalla stasi neuronale, trovo un altro motivo per muovermi e agire, andando incontro a nuove scintillanti frustrazioni. L’ennesimo loop dal quale non uscirò mai.

Tutto questo razionalizzando. Figuriamoci se girassi armata. 

 

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(976) Dipingere

Certo che i colori sono fondamentali. Certo. I colori parlano di chi siamo (come vediamo e come le cose ci fanno sentire), parlano di come vorremmo il mondo e di come viviamo il mondo e l’oltremondo. Certo. Pochi però si rendono conto che il pennello che usiamo per dipingere questo nostro “fuori” e il nostro “dentro” ha una determinata fattezza e che la dimensione e la disposizione e la quantità di setole di cui è composto pesano in modo consistente. 

Ci sono tratti sottili e precisi, altri grossi e pastosi, altri morbidi e acquosi e via dicendo. Il tratto sbagliato produce un risultato fuori tono. Lo percepiamo noi e lo percepiscono gli altri. C’è qualcosa che non va. Ma cosa? Beh, quella cosa lì. Hai usato un pennello a spatola anziché a goccia, o un tre al posto di un cinque, e hai rovinato tutto.

Mi rendo conto che l’ho presa di nuovo larga, ma la riflessione di stasera è che va bene dare una mano di colore, ma poi si deve andare di dettagli perché altrimenti rimaniamo imbianchini (e va benissimo) anziché diventare pittori. E dovremmo ambire a diventare pittori che sanno fare gli imbianchini, così non c’è parete che tenga noi sapremo sempre cosa fare. E cosa aspettarci.

Quindi, arrivata fin qui posso ammettere tranquillamente che sono in cerca di dettagli da dipingere (dentro e fuori) per una sorta di evoluzione del pensiero a cui non posso negarmi. Non è che so spiegarlo meglio, ma so cosa fare.

E ogni tanto sapere cosa fare è già qualcosa.

Eh.

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(935) Resurrezione

Sai cosa si fa quando non se ne può più? Si cambia.

(Alberto Moravia)

E ci sono cambiamenti sottili che preparano quelli più importanti, comunque sia il processo è irreversibile. Un riposizionamento, un rinnovamento, una resurrezione. Questo è il cambiamento di cui parlo.

Non divento un’altra persona, divento meglio quello che sono perché lascio andare vincoli e filtri che fino a ora mi hanno intrappolato, mi hanno fatto assumere sembianze innocue e neutre che potessero mettere a proprio agio gli altri, quelli che vanno in crisi davanti al valore del loro prossimo.

Una resurrezione presuppone una morte. La morte di quel che era la mia armatura fino a ieri, la depongo vuota per girare nuda. La forza della nudità di pensiero che metto in campo senza più il timore che venga considerata debolezza è la nuova scoperta. Una rinnovata libertà, senza né porte né finestre.

Non torno tra gli altri per risistemarmi nella mia casellina, parte dell’archivio umano, ma mi permetto di girare tra gli scaffali e mettermi un po’ dove mi pare, magari non troppo a lungo, se non serve. Se non serve.

L’utilità di questo muovermi dovuto alla mia resurrezione è fine a sé stesso, non ha obiettivi di conquista del pianeta o di arrampicate verticali dove arrivare lassù ti assicura visibilità e potere. Libera ma innocua per il potere altrui. Libera e innocua. Soprattutto libera.

Buona Resurrezione a tutti.

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(882) Gente

Tanta, ovunque, sempre. Trovare un luogo dove non ce ne sia almeno una manciata è un’utopia. Siamo in tanti. Tantissimi. 

Facciamo di tutto per ritagliarci il nostro piccolo spazio nel mondo e va a finire che non è mai solo nostro, c’è sempre qualcuno tra i piedi. Ovvio che ti viene il nervoso e inizi a sbottare sul fatto che ti senti invaso. C’è un’invasione di Esseri Umani! 

Allora ti verrebbe voglia di prendere il primo treno per casa-di-dio e fermarti lì a goderti… il nulla. Il nulla. Certo, ci potrà essere la Natura attorno a te, e il nulla. Ci potranno essere animali attorno a te, e il nulla. Il nulla ci sarà sempre. A meno che tu non accogli nel tuo spazio un altro Essere Umano. Il nulla si riempirebbe di un significato che solo tra simili è possibile cogliere. Il nulla scompare se un Essere Umano si connette con un altro Essere Umano. 

Come si fa per crearsi una connessione con Madre Natura? Si entra in una dimensione che non è la nostra, è la sua. Perfetto. Entri nel suo mondo, dominato da una logica che non riuscirai mai a comprendere davvero fino in fondo, e ti lasci trasportare. Come ci si connette con gli altri Esseri Viventi  (animali, insetti ecc.)? Dimenticandoci di chi siamo, della nostra modalità di pensiero e d’azione. Ci modelliamo seguendo la loro natura per azzardare un contatto. Perfetto. Ci dimentichiamo per qualche istante di noi perdendoci in un transfert che riteniamo utile affinché si possa creare una sorta di empatia simpatica, sperando vada dritta. D’altro canto sono sempre Esseri Altri rispetto a noi. 

Come si fa, invece, tra noi Esseri Umani? Si va in presa diretta, il confronto non ha altre strade se non quelle che il nostro pensiero ci propone solitamente. E il feedback che riceviamo percorre le stesse vie. Sembra che non ci sia fatica in questo darsi senza filtri. Ci guardiamo negli occhi e ci diciamo silenziosamente: “Certo che sei tu, sei come me, ti riconosco”. Perfetto. 

Eppure è faticoso, è pericoloso, è una lotta. Eppure abbiamo bisogno di staccarci, di allontanarci, di renderci estraneo qualsiasi umano sulla faccia della Terra per ritrovarci e smettere di confonderci con i nostri simili. Ci allontaniamo per cercare Madre Natura, e il suo sostegno, in poche parole. Eh.

Giro giro tondo, casca il mondo, casca la Terra… e tutti giù per terra.

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(827) Pastasciutta

Andiamo per stereotipi va là: sono italiana e amo la pasta. Con quasi tutte le salse. Quasi tutte perché pure io c’ho i miei gusti – e le mie intolleranze alimentari che son qui apposta per rovinarmi l’appetito. Comunque, la pastasciutta ITALIANA, quindi cucinata da noi come noi sappiamo fare e basta, è il mio salvagente. La cosa migliore della pasta è che esiste in diversi formati e consistenze e te la puoi condire come diavolo vuoi tu. Perfetto.

Mangiare sempre pasta non va bene, non è sano e neppure sensato, quindi è ovvio che io abbia anche altri cibi preferiti, tra questi non c’è molta carne e non tutto il pesce, come non tutta la verdura. C’ho pure io i miei gusti, l’ho già scritto. Ok, dove voglio arrivare? Eh, l’ho presa un po’ larga ma mi serviva per rendere chiaro il concetto: la pasta non ti chiede di fare da topping a una pizza, non ti chiede di essere sperimentata come dessert, non ti chiede di essere sintetizzata in una pillola che Morpheus ti fa scegliere quando sei arrivato al punto cruciale della questione. La pasta è pasta, vuole fare la pasta e non gliene frega nulla di quello che vuoi tu. Se non ti piace mangia altro.

Sostituendo il soggetto (pasta) con Uomo/Donna funziona allo stesso modo. Un Uomo non ti chiede di farlo diventare più dolce o più salato, più alto o più basso, più elegante o più fattone, più intelligente o più stupido, più simpatico o più borioso. Un Uomo è così com’è. Se non ti piace scegli altro.

Stessa cosa per una Donna, che non ti chiede di farla diventare più bella o più brutta, più intelligente o più scema, più fashion o più-che-diavolo-ne-so-io (ormai avete capito dove voglio andare a parare): una Donna è quello che è. Se non ti piace scegli altro.

Certo che entrambi possiamo essere conditi in diversi modi e abbiamo diverse fattezze e consistenze, ma Santiddddddddio perché dobbiamo sempre partire dal presupposto che scegliere un Essere Umano da amare voglia dire farlo diventare ciò che tu vuoi che sia? Significa darsi la zappa sui piedi, decretare il proprio inferno, far subire al prescelto/alla prescelta una serie di punizioni davvero crudeli oltre che imbarazzanti. Ma siamo matti?

Scegli la pasta che vuoi, per i cavoli di motivi che vuoi, ma mentre la stai mangiando non pensare che vorresti una pizza o una cotoletta, goditi la pasta cosciente di quello che stai gustando e basta. E basta. Se poi ne hai abbastanza della pasta e vuoi cambiare, va bene, vai con Dio e prenditi una pizza, ma non pretendere che sia la pasta a trasformarsi in pizza: muovi il culo e vattela a prendere da solo la pizza che vuoi. E lascia la pasta in pace, una volta per tutte.

Questa non è una storia autobiografica nel senso stretto della parola, è un pensiero filosofico autobiografico però. Difendo a spada tratta il diritto di chiunque di essere quello che è senza che qualcun altro lo pretenda diverso.

NdR: il post qui sopra è stato scritto con tono assertivo, ma non incazzato. Non si capisce?

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(824) Bollicine

Creano una piccola meraviglia e poi scoppiano, come gli istanti di Felicità che ci nascono dentro senza sapere – a volte – neppure il perché. Bollicine di Felicità. Pensata così non spaventa vero? Non per sempre, sarebbe innaturale se lo fosse, soltanto per alcuni istanti perché di più non potremmo sopportare, ci scoppierebbe il cuore. Allora per evitarcelo scoppia lei, la Felicità, come mille bollicine di spumante dolce (quello che preferisco).

E come si fa fatica a contare le bollicine così si fa fatica a contare le Felicità che hanno costellato un intero anno – figuriamoci un’intera vita – e anche questo ha la sua ragione: tenere presente tutte le Felicità, messe in fila una dopo l’altra, ci farebbe scordare che esiste anche tutto il resto e poi – una volta svanite – rimarremmo senza protezione, in balìa di un mondo pronto a mangiarci. Quindi le Felicità tendiamo a scordarle, a meno che non siano proprio grandi. Quelle ci danno la forza per cercarne ancora, per volerne ancora, per non lasciarci divorare dal resto.

Nel 2018 ho avuto bollicine a non finire, non le ho segnate tutte, alcune manco mi sono accorta fossero Felicità perché sono state piccolissime e improvvise e della durata di un nanosecondo. Però ci sono state, sono qui a scrivere stasera per ringraziarle. Almeno una volta all’anno ci vuole un bel grazie, no?

Più che altro vorrei ringraziare tutte le persone che hanno contribuito a far nascere in me una bollicina di felicità, non le nominerò (questione di privacy), ma i loro visi e i loro nomi non sono bollicine e non scompariranno facilmente dal mio cuore, questo lo posso garantire. A molte di loro posso dire grazie con la voce ad altre solo con il pensiero, ma sono dettagli da nulla quando si parla di Felicità.

E chi dice che non esiste la Felicità si dovrebbe ricredere, dovrebbe iniziare a contare quelle bollicine silenziose che si porta dentro da tanto tempo e che ha sempre pensato che fossero lì per disturbargli il sonno. Le piccole Felicità si insinuano nei sogni per darci il tormento, per ricordarci che siamo qui per questo, per essere felici, e che se non ti svegli rischi di non accorgertene anche se te ne cadessero in mano mille al secondo. Sono piccole benedizioni che ci dobbiamo meritare. Come? Con la presenza. Sul serio, con la presenza.

Quindi stasera si brinda per augurarci un Buon 2019 e… millemila bollicine per tutti!

 

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(822) Sigillo

Il sigillo di garanzia, lo cerchiamo tutti vero? Quasi un’ossessione, vogliamo essere sicuri che quello che stiamo toccando, respirando, vivendo sia di qualità. Se ce lo mettono il sigillo ci rassicurano, come se noi non fossimo in grado di capire cos’è di qualità e cosa non lo è. Mr. Pirsig non ne sarebbe contento, lui che ci ha scritto un libro e s’era fatto anche un bel pensiero al riguardo (vedi: “Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta” – Adelphi).

Quindi lo cerchiamo e lo pretendiamo il sigillo, vogliamo spendere bene i nostri soldi. Giusto.

Quando si tratta, però, delle persone e della loro qualità ci lasciamo abbindolare dai lustrini, dalla forma, dal gioco di specchi di cui si fanno portatori. Basta che si sappiano vendere bene e noi mettiamo loro il sigillo. Ci facciamo beffare, ma piuttosto di ammetterlo siamo pronti ad andare contro i nostri valori, contro tutto quello in cui crediamo, preferiamo non veder crollare quell’illusione di qualità che abbiamo costruito loro intorno.

Dimentichiamo che così facendo il nostro sigillo di qualità – il nostro personale, quello che ci portiamo addosso – perde valore. Non è il nostro parere la debolezza da sostenere, ma il nostro nome. Possiamo cambiare idea, è lecito, è giusto e sacrosanto in certe condizioni. Non possiamo negare noi stessi soltanto per non aver trovato il coraggio di ammettere: “Mi sono sbagliato”.

“Mi sembravi una persona portatrice di un pensiero illuminato, di una condotta esemplare, di un’integrità ammirevole, ma mi sono sbagliato”. Non è che io sono un idiota per questo, l’idiota sei tu che vendendoti bene hai pensato che io me la bevessi per sempre. Sei un idiota perché hai sottovalutato la mia capacità di riconoscere la qualità di una persona e come t’ho dato il sigillo di garanzia ora sono pronto a togliertelo. Perché sei un bluff, perché sei un poveraccio pieno di niente che pensa di essere migliore degli altri. Perché non mi piaci più”. Liberatorio, vero?

Ok, credo che se ci sbarazzassimo di questo pudore nel dichiarare che ci siamo sbagliati e che ora abbiamo aperto gli occhi, il nostro presente potrebbe darsi una bella ripulita e potremmo andar fieri di noi stessi. Perché il nostro sigillo di qualità lo dobbiamo rendere meta ambita, non lo possiamo consegnare al primo che passa. Anche avesse un fottuto talento nel farsi splendido a comando.

Rendiamoci meta e non lacchè. Diamine!

 

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(793) Candido

Spesso pensiamo che soltanto perché la nostra vita fino a quel momento è andata in un certo modo le cose sono destinate a restare così per sempre. Non riusciamo a vedere le pagine bianche che sono lì davanti ai nostri occhi che chiedono di essere riempite. Candidamente, entusiasticamente, creativamente. Non le vediamo.

Karen Blixen ha scritto che la pagina bianca è una risorsa perché contiene infinite possibilità. E come darle torto?

Invece noi ci facciamo sopra uno scarabocchio e poi ne prendiamo un’altra, un altro scarabocchio e poi un’altra pagina. Come se non avessero significato, come se il disegno alla fine non contasse nulla, ma il disegno conta, soprattutto alla fine. Soprattutto alla fine.

I segni che tracciamo non possono essere cancellati, ma possono essere modellati dai segni che seguono. Immaginarsi il risultato finale aiuta. Ti fa procedere in una direzione mirata anche se mai certa e definitiva. C’è margine di sviluppo in ogni storia, basta saperla guardare. Basta avere il coraggio di viverla.

Io ho deciso che ritiro fuori il mio coraggio, ma in modo diverso. Non traccerò più i miei segni dentro ai margini che già conoscono, li farò strabordare e li osserverò mentre prenderanno forme che ho sempre sognato. Solo sognato, mai vissuto.

L’ho deciso ora. Perché solo ora? Ora sono riuscita a vedere il mio disegno, quello che fino a oggi ho tracciato e ho visto i margini da cui posso uscire e mi sono chiesta: quando ti decidi a farlo? Mi sono risposta adesso, prima solo con il pensiero e poi con l’azione. Ma prima è il mio pensiero che deve immaginare il nuovo tracciato e poi il resto seguirà.

Sono pronta. Ora mi butto a letto e sognerò un nuovo sogno. Vediamo come va.

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(760) Sposa

Non ci ho mai pensato. Non ho mai pensato a me stessa come una possibile sposa. Chiaramente se non c’è pensiero non c’è concretizzazione di nulla. Chiaramente per me non è un vuoto, è esattamente come sono: così.

Non mi sono mai immaginata indaffarata nel cercare il mio vestito da sposa, a fare liste di invitati, assaggi di menu e torte e via di questo passo. Mai e poi mai. I miei pensieri sono sempre stati altrove

Voglio fare un ulteriore passo indietro: non mi sono mai immaginata un Principe Azzurro, una fiaba felice, un idillio amoroso. Mai e poi mai. Ho avuto però passioni, ossessioni e grandi amori, li ho avuti comunque, li ho vissuti comunque.

Non mi sono mai confusa con un’altra Anima, mai pensato di essere la metà della mela di qualcun altro, mai sognato due cuori e una capanna, mai voluto condividere il mio Cornetto Algida con chichessia. Il pensiero che ha queste origini non mi appartiene, può piacere o meno ma rimane così.

L’allarme mi suona di orecchio in orecchio quando si usa l’appartenenza come vincolo di sangue, come promessa del per-sempre. L’Amore non pone veti, non traccia limiti, non lega con corde e non benda gli occhi. Chiamiamolo con altri nomi quel gioco, ci sono molti altri nomi con cui chiamarlo.

Trovare l’anima gemella è il tranello, l’anima gemella è l’inganno. La sua immagine è la menzogna di un malefico incantesimo che ci rende supplichevoli, arrendevoli, vittime. Se scartiamo la tagliola scopriamo la Potenza che senza neppure essere nominata ci trasporta verso un Uomo con la voglia di scoprire com’è il mondo dall’altra parte, dove il femminile è guardato e studiato ma ben poco vissuto per quello che realmente può essere.

Non sono sposa, non lo sarò. Una scelta che non mi ha mai tormentata con dubbi e sensi di colpa scaturiti da ridicoli dictat sociali. Ho amato, amo e amerò. Non ho bisogno d’altro. E se mi chiedete ancora il perché è giusto che sappiate che non ho più intenzione di cercare altre risposte che vi possano compiacere. Ho terminato le scorte di pazienza e anche quelle della compassione. Vi beccate quel che è senza filtri. Perché “Così è (se vi pare)” (cit. Luigi Pirandello).

 

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(754) Tunnel

Stai parlando e a un certo punto ti accorgi che hai preso un tunnel. Una strada che non ti permette distrazioni, né di paesaggio né di umanità sparsa. e che ti obbliga a focalizzarti su quello che stai facendo, ovvero: parlando.

Quindi sei costretto ad ascoltarti. Ascolti il suono dei pensieri, che anticipano l’emissione vocale, e ti rendi conto della densità di ciò che stai comunicando.

Se ti stai davvero ascoltando e ti accorgi che la comunicazione ti sta sfuggendo di mano, dovresti chiudere la bocca. Prendere un bel respiro. Resettare i pensieri. Capire cosa è il caso di dire. Dirlo. In questa sequenza precisa o diventa un casino ancora peggiore. Il tunnel non ti permette vie di fuga, o procedi o procedi. Fare inversione è da pazzi, mettere la retro è da pazzi, fermarsi è da pazzi.

Ritornare ai propri pensieri per salvare il salvabile è l’unica via possibile. Se non lo fai son cazzi tuoi. Ecco perché quando chi mi sta di fronte prende il tunnel io aspetto. Aspetto di vedere come va a finire. Sono davvero interessata, mi metto proprio tutta intera a guardare quel che accadrà. Non resto mai delusa. Nel senso che succede sempre qualcosa che mi fa capire meglio certe dinamiche bastarde della comunicazione. Imparo sempre. 

I miei tunnel sono spesso illuminati da una luce fioca, rallento per non andare a sbattere, ma di solito procedo senza intoppi. O non li vedo proprio o li salto. Non so neppure io come faccio, ma lo faccio. Succede anche che mentre focalizzo l’attenzione sui miei pensieri, la voce mi si impiglia o che il respiro mi manchi all’improvviso. Questo perché dappertutto non riesco a esserci e qualche cosa mi scappa sempre. Se mi accorgo che sto deragliando, che i pensieri vanno da una parte e il suono dall’altra inizio a preoccuparmi. Mi zittisco e cerco di riprendere il filo del discorso. Una cosa ho imparato a fare, e a farla bene: se mi sto sbagliando lo dichiaro.

“Scusa, non ho capito”

“Scusa, non volevo dire questo”

“Scusa, ho ascoltato soltanto una parte del tuo discorso e penso di avere frainteso”

Ecco, queste frasi aiutano me a fermarmi e a chi mi sta parlando a capire dove mi sono fermata. Sono sempre nel mio tunnel, ma mi sono dovuta fermare. So che non si dovrebbe fare, ma sono pronta per rimettere la prima e ripartire. Nella giusta direzione, con la giusta velocità e la giusta concentrazione.

Quando non mi riesce mi sento malissimo. Proprio malissimo.

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(713) Telefonare

Quando non c’era ancora internet – sì, sono piuttosto antica – il telefono era l’unico modo per mantenere i contatti con gli amici. Scrivevo moltissime lettere, giuro, ma se scrivi a chi non ti risponde perché non ama scrivere diventa piuttosto frustrante.

Passavo ore al telefono, per ascoltare e per raccontarmi, amavo il posto che avevo nella vita dei miei amici, mi sembrava fosse importante esserci anche se mi ero trasferita a quasi 500 km di distanza.

A un certo punto, però, ho scoperto che non era un posto per sempre perché la lontananza fisica aveva fatto perdere le mie tracce e la mia voce non bastava più. Facevo fatica a raccontarmi, facevo fatica a farmi capire, facevo fatica a esserci. E dopo anni mi arresi sfinita, come se tutte le energie fossero state succhiate via per sempre.

Non era una questione di pensiero, li pensavo tutti i giorni, né d’affetto perché erano sempre le persone con cui ero cresciuta e avevo condiviso tutto della mia infanzia e della mia adolescenza solo… solo che loro non riconoscevano più me e io non riconoscevo più loro. La vita ci aveva masticato e ci aveva modellato diversi. Riconoscibili solo nei dettagli.

Ora prendere il telefono per chiedere “come stai?” mi fa strano. Il telefono adesso non mi aiuterebbe a riattaccare i pezzi persi, e quei vuoti li temo se si palesano in vuoti di silenzio. Non lo so, sento che raccontarmi a loro – per come sono oggi – andrebbe solo a confondere i ricordi.

Vorrei capirne di più della vita, per fare meno errori, ma al momento tutto quello che posso fare è riconoscere le cose per quel che sono e accettare i cambiamenti per quello che devono essere. Mi fa tristezza, comunque. Da piangere.

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(659) Pavone

C’è solo il pavone che può permettersi di fare il pavone. Primo perché lo è, e nessuno lo può confutare, e secondo perché è bellissimo e anche questo è inconfutabile. Chiuso il discorso.

Parliamo di cosa dovremmo fare davanti a chi pavone non è ma lo fa. Tu stai lì e lo guardi sfoggiare una miserevole boria e ti vien voglia di dargli una testata. Non lo fai. Un po’ perché il mal di testa conseguente te lo vuoi evitare, un po’ perché la violenza se puoi te la risparmi. Ma ti rimane la voglia, quello sì.

I vanagloriosi sono un popolo vasto, vastissimo. Un vero e proprio ammasso di decerebrati che fa sfoggio di tutto quello che non possiede: intelligenza, sensibilità, eleganza, stile. Questi gap incolmabili sono enormi buchi neri che si palesano a chiunque sia dotato di un minimo di decenza, pudore, buongusto (oltre che intelligenza, sensibilità, eleganza e stile), e lo spettacolo è impressionante. Non ci si può credere di quanto sia profonda la pochezza d’animo di questi campioni di ben poca umanità. 

Trovare un modo efficace per far chiudere loro la coda una volta per tutte ed evitare in contemporanea la violenza fisica, secondo me, non è umanamente possibile. Non la capiscono che sono fuori luogo, che sono disgustosi, che sono dei cialtroni senza sostanza, che sono tenuti per decoro a starsene zitti. Non la capiscono. Non possono. Averne compassione, forse, è la strada. Ma per riuscirci bisognerebbe essere evoluti, io non lo sono. Io mi fermo alle mani che prudono e alla voglia di mollargli una testata sul naso. Mi fermo lì, al pensiero. Ma non perché sono buona, soltanto perché non voglio sprecare energie preziose. Mi ritraggo per mancanza di coraggio? O per pigrizia? O per indifferenza per le sorti del genere umano? Non lo so. 

Non sono indifferente, in realtà, forse sono soltanto stanca di fare la Don Chisciotte della situazione. E poi mi fa male la testa. 

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(636) Spiga

Spiga ha come sinonimi: conseguenza, effetto, esito, frutto, risultato. L’ho scoperto oggi. Cavoli, non lo sapevo. Mi si è aperto un mondo.

Se a frutto ci si può arrivare facilmente, con conseguenza-effetto-esito-risultato è già meno ovvio. Almeno per me. Ed eccomi qui a elucubrare su come poter utilizzare questa nuova risorsa in contesti che mi sono famigliari… che lingua pazzesca abbiamo!

Parliamo allora delle spighe con cui mi trovo a combattere in questi giorni, derivate da brutte abitudini di pensiero: quando ci si accorge che il proprio pensiero è calibrato per distruggerci bisogna cambiarlo. Farlo virare verso felici scappatoie. Detto così son bravi tutti, a mettere in pratica certe acrobazie, però, neppure il Barone Rosso. Mi piacerebbe si potesse fare come con il gesso sulla lavagna: passi il cancellino e correggi. Coreggi il pensiero, gli rendi l’equilibrio, la dignità. Senza accuse né giustificazioni, non servono. Basta correggere la disfunzione, farlo in silenzio va bene uguale. Può essere un gesto privato, non da nascondere, ma da viversi nella propria intimità. Cosa d’altri tempi? Forse, ma il tempo è una questione di percezioni e certi magheggi vengono facili.

Non ho mai fatto nulla pensando di schivarne le conseguenze, non m’è proprio mai venuto in mente di poterlo farlo – va’ a capire il perché! – ma ci sono state conseguenze un po’ esagerate in certi frangenti – va’ a capire il perché!

E ti viene da chiedere: ma quelli che mi sorpassano in tangenziale ai 110 Km/h si prendono la multa o vengono calcolati illegali soltanto i miei 96,5 Km/h anche se il limite è per tutti di 90 Km/h?

Ecco, stessa cosa per gli effetti esagerati di certe azioni da nulla: ma quelli che la fanno ben più pesante di me si sciroppano conseguenze adeguate o la loro parte rimbalza su di me e tanti saluti?

Se stai lì a farti due calcoli ti parte il veleno, meglio glissare. Le spighe più belle sono i frutti della terra, in ogni caso, specialmente quando sono mature e hanno il giallo del sole che le fa brillare. Le più belle, non ce n’è per nessuno.

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(556) Zippare

Quando è possibile farlo senza essere fraintesi è una meraviglia. Mille cose da dire per spiegarlo, zero voglia di farlo, e ti ritrovi in un mutismo totale. Frustrante. Invece se trovi la persona che coglie al volo il senso di tutto, bastano due cose, due cose scelte – certo – ma brevi perché così non si spezza il mistero, e lo zip non è altro che un salto quantico.

Non succede spesso, tutt’altro. Solitamente zippare significa tagliare corto perché ti rendi conto che l’attenzione che la persona che ti sta di fronte ti può offrire è ridotta a 10 secondi lordi. Allora che fai? Un rapido calcolo e scegli le parole chiave per condensare il pensiero. Ti rendi conto che diventa ben misero, ti rendi conto che la comunicazione è un’altra cosa, ti rendi conto che a quel punto te ne potevi anche stare zitta che sarebbe stata la stessa cosa, anzi meglio. Sì, ti rendi conto, eppure ci sei cascata un’altra volta. Hai peccato di ottimismo, ti sei illusa che potesse funzionare, che dalle parole chiave si sarebbe scivolati in una domanda di interesse e da lì in un pensiero più condito e poi magari il salto quantico.

Brutta cosa l’ottimismo. Crea aspettative soltanto per fartele sbriciolare dalla realtà. La realtà spesso è cinica, sa già che basta poco a sbrindellare e ridurre in cenere le buone intenzioni, basta mezzo metro di silenzio. E il tonfo echeggia per anni. Pazzesco.

Puoi comprimere, sì, un pensiero anche se è ramificato, ma come si fa a zippare un sentimento? Come puoi ridurlo, accorciarlo, abbreviarlo, farlo striminzito anzitempo? Quando il sentimento sta lì nel pieno della sua forza, come puoi comprimerlo per riuscire a farlo arrivare al mondo? Già è difficile tenerselo dentro, che si deve fare spazio tra gli organi e inizi a sentire dolori dappertutto, come puoi pensare di farlo uscire stritolato e inscatolato?

Eh, son belle domande queste. E adesso chi riesce più a dormire?

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(532) Clandestino

Nascosto, perché sai che esce dalle regole. Segreto, perché sai che sarà giudicato. Un viaggiare senza biglietto che verrà punito, prima o poi. Devi solo valutare se vale la pena rischiare. E se le conseguenze ricadono solo su di te o anche su chi non c’entra nulla, e in quel caso rinunciare sarebbe la cosa migliore.

Il pensiero è clandestino, lo deve essere per forza, è libero e così deve rimanere. L’azione ha limiti, ne deve avere per forza, deve concretizzarsi nel rispetto della vita – quella propria e quella altrui.

Ma se amo smisuratamente la clandestinità del mio pensiero, sono anche terrorizzata da quella del pensiero altrui. Dal pensiero clandestino tradotto in azione malvagia e senza scrupolo. Essere danneggiata senza aver alcun tipo di responsabilità mi fa rabbia. Gran brutta bestia la rabbia.

Ci sono fughe sacrosante, però, e non c’è biglietto che tenga. 

Non tutto ciò che è nascosto ha natura malvagia. Anzi. Le cose più tenere e vulnerabili sono nascoste ai nostri occhi per non venir sciupate.

Non tutto ciò che è segreto è per forza da condannare. Anzi. Il giudizio umano spesso è privo di compassione e falcia tutto ciò che non sa capire.

Non tutto ciò che è clandestino lo è con l’intento di ledere. Anzi. Viaggiare senza biglietto è portarsi addosso il peso della mancata accoglienza.

Il mio pensiero clandestino bypassa gli ostacoli cercando vie alternative che non compromettano il mio essere integra. Mi permette di sondare certe profondità, ma non di calpestare la mia indole dignitosa, né quella altrui. Il mio pensiero clandestino segue regole ben più rigide di quanto si possa immaginare, perché la sua condizione non è volta alla fuberia e non fa dell’anarchia una scusa per rendere lecito ciò che lecito non è.

E poi, la libertà quella vera veste gli abiti della clandestinità. E guai se non fosse così.

 

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(467) Menomale

Tutto attaccato, sì, non è un errore, è un modo d’essere. Menomale è quell’espressione di sollievo che scaturisce da un fatto spiacevole. Non lo dici per le cose belle che ti accadono, ma per la cosa che salva il brutto per un pelo. Ti viene proprio dal cuore, è naturale, è liberatorio, è consolatorio.

Menomale funziona quasi come il “perfortuna”, solo che è più onesto, non è frutto di un calcolo d’interesse, è proprio il pesetto che metti sul bilancino che rimette leggermente in pari le cose.

Menomale che ho fatto in tempo a rincasare prima che la casa mi andasse totalmente a fuoco. Capito? La casa comunque è andata un po’ a fuoco, ma non totalmente. Il male c’è ma è meno, ovvero: menomale.

Ora, per chi non bazzica troppo volentieri le parole è una cosa da nulla, ma con l’andare del tempo il mio menomale-pensiero si è andato fortificando e ha svolto un ruolo fondamentale nella gestione della mia sopravvivenza. Il segreto sta nell’individuare lo scenario peggiore per quella data situazione è portarlo come confronto ultimo: menomale che cadendo dalla bici, a velocità piena, in discesa sui tornanti, ho sterzato a destra anziché sinistra perché altrimenti volavo giù dal dirupo!

Hai il naso sfasciato, un braccio rotto, la bici è diventata un cumulo di briciole d’acciaio, ma… non ti sei sfracellato precipitando là sotto. Fortuna? Ehmmmm, no. Perché se avessi avuto veramente fortuna non ti saresti rotto il braccio e sfasciato la faccia, saresti finito sull’erba e non sul muretto, la fortuna è sfacciata, mica gioca di fino. No, il menomale denota una prontezza di riflessi, una presenza, un’agilità che nessun’altro se non tu stesso avresti potuto avere in quel maledetto frangente. I tuoi nervi saldi, la tua esperienza, tu: questo è il menomale.

Il menomale toglie potere alla fortuna, così come alla sfortuna, per riporlo nelle nostre mani e renderlo valore aggiunto del kit di sopravvivenza di cui la vita ci impone l’acquisto. Ci fa prendere in carico il fatto che anche nella sfiga più nera, se guardi meglio la situazione, trovi un angolo dove un menomale ti aspetta. Non devi far altro che prenderlo velocemente e farne uso.

Menomale che l’ho scritto, avrei anche potuto dimenticarlo e mi sarei fatta un torto perché questo è uno di quei consigli che mi darei quando sbattere la testa al muro sembra l’unica soluzione.

Un menomale non è per sempre, ma solleva sempre, proprio sempre. E menomale!

 

 

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(456) Locomotiva

C’è chi nasce locomotrice e chi nasce per andare a rimorchio. Non credo si possa passare da una natura all’altra senza soffrirne, non credo che la si possa cambiare al volo quando ti rendi conto che non ti fa comodo: è una condizione senza via d’uscita.

Chi traina non ha scampo, deve trainare. Sempre. Chi s’aggancia per essere trainato, non ha altra scelta se non quella di farsi trainare. Se pensi di non voler essere trainato e provi a trainare è a tuo rischio e pericolo. Trainare significa pensiero solido su cui poggiare il passo e progettazione del percorso, significa costruire il senso e segnare le tappe con criterio, significa sapere da dove partire e sapere dove si vuole arrivare. Prendi con te la vita di altri, la responsabilità non si può dismettere come un abito che non ti veste più, la motivazione non te la può passare chi ti deve seguire, la determinazione non deve avere cedimenti perché frutto di pensiero-dedizione-azione ben strutturati.

Un locomotore ha in sé le caratteristiche che lo evidenzieranno in ogni situazione, spicca tra la folla, la gente si sposta al suo passaggio e volentieri si aggrappa alle falde del suo lungo cappotto per farsi un viaggio che non si sarebbe mai immaginata di poter fare da sola. E se qualcuno tra i tanti inizia a pensare che sì, anche lui può essere locomotore, allora bisognerebbe domandarsi se andare a rimorchio sia stata – fino a quel momento – una pratica di comodo o se, invece, sia una condizione di nascita. Nella seconda ipotesi non ci sarà nulla di buono nel percorrere la spinta della presunzione per spacciarsi altro da ciò che si è.

Quindi se pensi di essere nato per andare a rimorchio e ci stai male, valuta la tua natura e se sei nato locomotiva allora datti da fare. Se la responsabilità, la dedizione, il pensiero e la creazione sono per te un peso di cui puoi fare a meno, allora non sei locomotiva e, credimi,  non c’è nulla di male in questo. Vivi a rimorchio in modo dignitoso e smettila di lamentarti che le locomotive son tutte uguali: scegli quella che fa per te e collabora nel viaggio senza opporre stupida resistenza.

L’umiltà è dote sia per chi traina che per chi viene trainato, in questo siamo tutti uguali.

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(451) Tappabuchi

tappabuchi s. m. e f. [comp. di tappare e buco]. – Persona a cui si ricorre per rimediare alla momentanea assenza di altri (spesso con riferimento a brevi supplenze scolastiche): fare da t.; mi hanno invitata all’ultimo momento, come tappabuchi.

Che ci vogliamo fare, sono una persona suscettibile. Prendo atto della cosa e vado oltre, perché è un difetto che mi so perdonare. Non è che pretendo che mi venga perdonato anche dal resto del mondo, infatti il resto del mondo neppure se ne accorge che lo sono e solitamente mi smazzo le conseguenze emotive – caso per caso – senza battere ciglio e senza grosse conseguenze sociali.

Eppure, arrivati a questo punto devo fare outing e dichiarare: “Io me ne accorgo”.

Mi accorgo che sto per essere usata come tappabuchi già dal primo squillo del telefono, già dal primo ciao su whatsapp, già dal che di “che fai oggi/stasera/domani/tra un mese”. Ecco proprio dall’inizio, credo dal momento in cui nella testa di quella persona, o quell’altra, nasce l’idea che io posso essere la tappabuchi perfetta per l’occasione.

Me ne accorgo anche se non dico niente, me ne accorgo anche se sembro calma e cado dalle nuvole, me ne accorgo anche quando evito di entrare in polemica o di fare domande imbarazzanti. Me ne accorgo.

La cosa non mi mortifica – non più, non mi addolora – non più, non mi sorprende – non più, mi rende semplicemente furiosa. Mi parte proprio l’embolo. E faccio una fatica bestia a stare calma, a dribblare la trappola, a mantenere ancora rapporti educati con chi si è appena rivelato essere un/una troglodita.

troglodita s. m. e f. [dal gr. trōglodýtēs, comp. di trglē “caverna” e tema di dýō “penetrare in un luogo”] (pl. m. -i). – 1. (etnol.) [uomo che in epoche preistoriche viveva nelle caverne] ≈ cavernicolo, uomo delle caverne. 2. (fig., spreg.) [persona molto rozza, incolta] ≈ bifolco, (region.) burino, buzzurro, cafone, (spreg.) cavernicolo, incivile, (spreg.) primitivo, selvaggio, (roman.) trucido, (scherz.) uomo delle caverne, zoticone.  

Sì, perché non mi sconvolge essere designata la Tappabuchi del Millennio, il mio ego dorme tranquillo comunque, ma mi indigna il fatto che mentre mi stai chiedendo cosa faccio questo pomeriggio – quindi tra mezz’ora – perché potremmo vederci per un caffè, mi fai anche sapere che porti l’auto dal meccanico vicino a casa mia (ma pensa!) e che mentre ti controlla la suddetta tu ti trovi improvvisamente vogliosa di vedermi (che fortuna!). Manco il pudore di mascherare la cosa, manco la delicatezza di celare la tristezza del tuo pensiero, manco l’educazione di evitare di rendere evidente la tua mancanza di stima nei miei confronti. Niente. Come se fosse normale trattare in questo modo qualcuno.

La ciliegina sulla torta? Tu pensi che io non me ne accorga. Oltre che fancazzista pronta a perdere tempo con te, credi che io sia anche idiota da non capire che razza di cavernicola sei. Eh, ma io me ne accorgo. Me ne accorgo, ti blocco e ti evito. E ringrazia il cielo che pratico la non-violenza, perché non sempre ti andrà così bene. Fidati.

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