(986) Spine

È come se tanto tempo fa mi fossi spinata la mano e quelle spine ancora non sono riuscita a togliermele tutte. Cioè, è passata una vita e ancora la metà sono qui e fanno un male boia.

Che non è quel dolore che ti vien voglia di tirare giù i santi e le madonne, è una cosa che esce ogni tanto quando ci prendi dentro. Tac. Ti ricordi di quella fottuta spina e ti dici che te la dovrai togliere prima o poi ma non ci riesci.

E non serve, forse, neppure ripensare a quando quella spina ti si è infilata nella pelle, basterebbe capire come fare per farsela uscire da lì. Maledizione.

Quindi la situazione è questa: sempre lo stesso fastidio, sempre la stessa reazione, sempre lo stesso dolore, sempre la stessa condizione. Loop.

Mi rendo conto che o me le tengo e smetto di lamentarmi o le tolgo e vedo come sto senza. Non è che le alternative si sprechino e non è che questo mi risolva il dilemma.

Ovvio che da sole non usciranno.

Ovvio che al momento ignoro bellamente cosa fare di mediamente intelligente per liberarmi dal filo spinato.

Sì, perché è un filo, è evidente che si tratti di un filo.

Buona o cattiva notizia?

Ma che ne so.

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(815) Apparenza

In apparenza va tutto bene, ma sotto? Sotto la superficie, sotto la pelle? In apparenza le cose possono scivolare via, come se non fossero importanti, come se tutto fosse lo stesso. Raramente lo è, lo stesso, raramente l’apparenza ci può bastare. 

Apparire e scomparire, lo fa ogni mago che si rispetti, ma se ci pensiamo bene lo facciamo un po’ tutti. Forse meno magicamente, ma sempre in modo pressocché efficace. Lasciamo vuoti e colmiamo vuoti, incessantemente.

In apparenza ci si muove, si percorrono distanze inenarrabili, si vola, si cammina, si corre, si nuota, si pedala, si dà gas ai motori. Spesso rimaniamo fermi inchiodati ai nostri limiti, alle nostre debolezze, alle nostre vulnerabilità. Questo dovrebbe avere qualche rilevanza per noi, ma anche se in apparenza sembriamo tanto profondi, sotto sotto pensiamo di farla franca. Sbagliamo.

Apparire per mostrarsi a un pubblico, di solito non pagante, che però è pronto a dare il meglio di sé con opinioni, valutazioni, giudizi implacabili, che sanno esattamente come colpire. Apparentemente in buona fede. Ovvio.

In apparenza le cose che facciamo parlano di noi, le cose che mangiamo, che compriamo, che scegliamo. Non è così quando siamo consci dei riflettori e della portata del nostro apparire, che dovrebbe sempre giocare a nostro favore, mica contro. Certe volte ci riusciamo, altre meno, altre per niente. Ma non diamo mai colpa all’apparenza, pensiamo sempre che la sfiga in qualche modo s’è accorta di noi.

Va bene, anche per oggi sono apparsa. E ora è meglio che sparisca. Augh.

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(755) Intermittenza

Andiamo a intermittenza. Andiamo a intermittenza e ci stupiamo che gli altri non stiano ai nostri luce/buio come vorremmo. E che devi fa’ della tua vita se non star dietro al mio umore? Cosa? Lo shampoo?

E finché è l’umore va ancora bene, pensiamo a cosa succede quando ad andare a intermittenza sono i nostri sentimenti. Ti amo/non ti amo, ti odio/non ti odio, ti voglio/non ti voglio, ti penso/non ti penso… delirio costante.

Se ce lo tenessimo per noi non sarebbe poi un gran difetto, ma onorandone il culto lo imponiamo a chi ci sta accanto. Lo facciamo andare su e giù come uno yo-yo, lo facciamo girare e pirlare come se fosse un burattino, lo facciamo parlare o lo zittiamo come se il suo esserci dipendesse da noi. Aguzzini spudorati, ecco cosa siamo.

Eppure pretendiamo sicurezza, solidità, coerenza, fedeltà, da chi abbiamo vicino. Se mi ami ora mi amerai per sempre. Anche se ti prendessi a calci in culo, ormai hai promesso e son cazzi tuoi. Belle cose, davvero. Facciamo della scostanza la nostra religione e calpestiamo il diritto a cambiare idea, cambiare il proprio sentire, cambiare opinione, cambiare pelle – se serve e certe volte serve proprio – di chi ci sta attorno. Tutti traditori, ma noi no.

Accendi e spegni la luce facendomi girare nella stanza e sbatto contro tutto e mi sto facendo male, ma tu accendi e spegni la luce finché mi scoppiano gli occhi e non riesco a vedere più niente. Chiamala crudeltà mentale, tesoro, non amore.

Se qualcuno avesse il coraggi di dirlo, se qualcuno avesse il coraggio di staccarsi dall’interruttore nel sentirsi rivolgere queste parole, forse – dico forse – le cose potrebbero migliorare. Voglio essere ottimista, stasera, voglio accendere la luce.

 

 

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(560) Chiacchiere

Le chiacchiere stanno a zero. Sul serio. Alla fine, quando tiri le somme, ti rendi conto che ci sono cose che sanno parlare senza bisogno di tirar fuori la voce e altre che per quanto riescano a rincretinirti di parole non ti lasciano niente.

E dire che a me piace comunicare, dire, far uscire suoni abbracciati ai pensieri, ma ci sono giorni in cui la mia voce si piega e si accascia al suolo, esausta. Mi rendo conto che metà di quello che dico è stato buttato. Non ha neppure scalfito la superficie del guscio contro il quale si è andata a schiantare. Energia sprecata, tempo sprecato, voce sprecata e intenzione mortificata.

Quando sono sola, le chiacchiere degli altri non mi colpiscono e le mie smettono di avere peso. Il mio chiacchierare con me stessa è leggero, più che altro un accompagnamento, e se i pensieri sono troppi arrivo al silenzio. Il silenzio seda le chiacchiere, anche quelle degli altri. Se tengo botta e non mi lascio andare a commenti, se riesco a lasciar correre, la persona che mi sta rintronando con i suoi bla-bla-bla dopo poco molla e se ne va via. Non regge il silenzio uno che vive di aria fritta. 

Quando riesco a ripulirmi da tutte le parole che mi hanno lanciato contro e che si sono appiccicate ovunque, mi sorprendo di quanto alcune siano riuscite a bruciarmi ogni strato e che comunque non se ne andranno. La non-dimenticanza è una questione di ferite, la pelle non dimentica e la pelle non perdona… perché il cuore dovrebbe? 

Le chiacchiere stanno a zero. Sul serio. A zero proprio.

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(505) Trucco

Il trucco serve a mascherare, a nascondere. Serve a renderci diversi all’apparenza, a renderti più bella o più brutta dipende se devi sedurre qualcuno o se sei lo zombie a una festa di Carnevale. Il trucco a un certo punto va via, sbiadisce. Tu che stavi sotto sei costretta a tornare in superficie. Con sollievo o vergogna, questo lo deciderai tu, di volta in volta.

Quando il trucco c’è e non si vede, la meraviglia è una magia. Quando il trucco viene smascherato, la delusione ti fa scivolare il sorriso e chi s’è visto s’è visto.

Credo che il trucco, quando c’è, è meglio che non si veda, perché gestirsi la delusione è una brutta rogna. Credo che mettersi addosso un po’ di trucco, o anche tanto, sia sacrosanto se ne senti il bisogno, perché non ci hanno fornito alla nascita un’armatura capace di proteggerci da tutto e da tutti e invece ne avremmo tanto bisogno.

Poi c’è chi, come me, non ne usa, né trucco in faccia né trucchi in sala, e non è neppure una scelta ragionata, è soltanto pigrizia. Si sa che la pigrizia la si paga cara e i miei conti son sempre stati piuttosto salati, però…

Però vivendo già in superficie, a pelle scoperta, non riservo brutte sorprese a me stessa e neppure sgambetti fastidiosi a chi mi sta attorno. Ho imparato a mollare pugni sul naso, però, e piano piano alcuni se ne stanno rendendo conto. Eh, va così! La vita in superficie ti indurisce la pelle e ti rafforza il cuore. Che sia un bene o un male, questo non è dato saperlo e a dirla tutta non me ne frega niente.

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(385) Ustione

La pelle ricorda tutto, ogni sgarro che le hai fatto le è rimasto impresso. I segni – cicatrici, smagliature, macchie ecc. – rimarranno con te per sempre per ricordarti quanto sei stato idiota in un dato momento della tua misera vita. Un modo simpatico per darti una svegliata e farti usare il cervello – cosa non troppo ovvia, evidentemente.

Mi sono ustionata durante una lunga giornata al mare, il mare di luglio, senza ombrellone e con la crema solare sbagliata (a dirla tutta l’avevo scambiata con l’autoabbronzate, non serve aggiungere altro). La mia pelle da quel momento rifiuta il sole, me lo urla facendomi salire la febbre.

Questa cosa super irritante me la devo tenere assieme alle conseguenze del caso, nonostante io ami a dismisura il mare. Racconto questa cosa perché è la più raccontabile, ho fatto un discreto numero di idiozie ben peggiori di questa e le conseguenze me le gestisco meno bene. Questo per dire che con il senno di poi avrei potuto benissimo evitarmi sofferenze e fastidi se al momento opportuno avessi usato il buonsenso. Mi sembrava poco importante, mi sembrava che non ci sarebbero stati strascichi e che tutto si sarebbe sistemato con poco.

L’idiozia è congenita, non si cura, ma la cosa che mi rode è che persone ben più idiote di me riescano a gestirsi le conseguenze decisamente meglio di me. Lo trovo ingiusto, ecco. Volevo soltanto dirlo: è profondamente ingiusto.

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(332) Crimine

Ogni Essere Umano dovrebbe considerarsi alla stregua di un luogo del delitto e transennarsi in modo da non permettere che nessuno oltrepassi i limiti. Perché? Perché tutti noi siamo vittime di un crimine, più o meno grave non fa alcuna differenza. Lo siamo tutti, senza distinzione di razza, di credo, di ceto sociale. Tutti.

Non ce ne rendiamo conto, ma siamo sempre così incazzati perché nel nostro subconscio lo sappiamo. Lo sappiamo, soffriamo, eppure non abbiamo il coraggio di denunciarlo: “Sono vittima di un efferato crimine e nessuno se n’è mai accorto!“.

Siamo incazzati per questo, tutti senza distinzioni di sorta. Quelli che lo sanno sono quelli che hanno subito i crimini più evidenti, dove i segni si vedono sulla pelle e ben oltre la pelle. Quando il crimine è sotto gli occhi di tutti, la società lo riconosce e la rabbia un po’ si attenua. Quel non-puoi-fare-finta-di-nulla non ti viene ributtato addosso con scherno e la tua rabbia trova un istante di pace. Se il crimine non viene percepito, riconosciuto, condannato dalla società… è come se non fosse mai successo. E qui la rabbia cova e s’ingigantisce fino a farti implodere o esplodere.

So con certezza che se non iniziamo a considerarci tutte vittime non potremmo mai provare vicinanza nei confronti degli altri. Chi si prende in carico il proprio dolore, smette di odiare, smette di covare rabbia, smette di augurare dolore al suo prossimo. Perché sa di cosa sta parlando, sa il peso di quella sofferenza.

Sto male e pertanto odio tutti? No, sto male e quindi auguro a tutti di non provare il mio stesso dolore. Tutto qui. Pertanto consideriamoci luoghi del crimine e proteggiamoci digerendo come si deve le nostre ferite. Siamo ancora qui, dopo tutto, giusto? Appunto.

 

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(126) Interconnessioni

Voi non le vedete mai? Quelle cose volatili, eteree, indicibili che ti fanno andare dal punto A al punto B e da lì al punto C (e così via)? Ci sono. Sono molto meno volatili, eteree e indicibili di quel che si potrebbe pensare. Ci sono e lottano con noi.

Significa che se noi non facciamo un minimo sforzo per individuarle e cavalcarle e far sì che la nostra mente ingenua possa attraversare ogni passaggio del Senso, ci girano le spalle e via.

Va bene essere pigri, distratti, noncuranti, superficiali e apatici, ma essere coglioni no!

Le deliziose interconnessioni tra le cose e le situazioni e gli eventi e le persone, dannazione, sono lì per farci un favore. Per farci agire o reagire, per farci fermare e riflettere o farci correre a più non posso per metterci in salvo. Quando si presentano davanti ai nostri occhi per farci solidi e impavidi e detronizzare l’abominio che altrimenti avrebbe la meglio, abbiamo il dovere di rispondere: presente.

No, non da soli, insieme. Ognuno a suo modo, ma insieme.

Le interconnessioni sono qui per salvarci la pelle, e non dite che non ve ne siete mai accorti. Come scusa non vale.

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