(1081) Scorta

La mia scorta di pazienza era notevole. La mia scorta di buone-intenzioni-nonostante tutto era mica da ridere. La mia scorta di comprensione e vicinanza poteva far invidia al Dalai Lama. Lo giuro. 

Ebbene: tutto esaurito.

Non mi è rimasto più un grammo da utilizzare, sono stata prosciugata dagli eventi. E sono d’accordo che ho il 50% di responsabilità e che dovevo averne più cura, ma è anche sacrosanto che tirare la corda oltre ogni limite come se fosse normale e addirittura ovvio è una scelta calcolata e bastarda e le persone che ne sono artefici non si fermano finché glielo permetti.

Ebbene: non lo permetto più.

E non ci sono arrivata perché sono diventata arrogante ed egoista. Purtroppo no, sarebbe bello fosse così perché significherebbe meno patimento e più godimento. No, troppo facile. Ci sono arrivata per sfinimento, esaurimento delle scorte. E la cosa ha tutta un’altra portata. So che chi lo ha provato lo capisce perfettamente senza bisogno di spiegazioni.

Quando sei agli sgoccioli, quando non ne hai più, ti passa proprio la poesia. Ti viene voglia di tirare calci e pugni random, ti partono gli smadonnamenti per ogni cazzata che ti viene a sbattere addosso. Ecco. So che chi ci è passato sa esattamente di cosa sto parlando.

Quindi: si mette un punto.

Si chiarisce che di lì non si passa più. Si cambia. Si cambia in quello che puoi e vuoi fare. Si cambia in quello che sei disposto a condividere e quello che sei disposto a sopportare. Si cambia, punto e basta. E non lo so ancora se sarà un cambiamento permanente o se è soltanto un periodo di svarioni, addirittura non me ne frega nulla. Non è che le scorte son finite all’improvviso, le ho viste calare di mese in mese, di anno in anno, e ho anche tentato di fermare l’emorragia, ma nonostante i miei tentativi non c’è stato verso di salvare il salvabile.

Perfetto: ormai le cose stanno così.

Chiaramente non muore nessuno, non ci saranno Apocalissi e molto probabilmente saranno in pochi ad accorgersene, ma va benissimo. Basta che lo sappia io, basta che sia io a sentire nello stomaco e nella testa quel punto che ho messo e che resterà lì a lungo. Credo per sempre.

No, non mi dispiace. Non me ne frega più niente.

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(998) Ineluttabile

Una volta che lo hai definito sei a posto: te lo trovi davanti e ti arrendi. Non stai lì a discutere, a tentare di convincerlo, a inventarti mille escamotage per passare inosservata. No. Risparmiati la fatica: lo riconosci e ti arrendi. Subito.

Mi rendo conto che sembra un discorso troppo vago, ma a contestualizzarlo troppo perde potenza. Bisogna andare per concetti per vedere il giusto, altrimenti i troppi dettagli ti fanno perdere il filo e ti sembra che a ben vedere le cose si possano gestire differentemente. No. In questo caso no.

L’ineluttabile non si può definire, ma si può riconoscere. L’ineluttabile non si può fermare (per sua stessa definizione), ma lo si può assecondare in modo da limitare i danni. L’ineluttabile non si può prendere sottogamba, sta un attimo a schienarti e buttarsi sopra il tuo corpo per schiacciarti senza pietà.

In linea di massima, in ogni situazione in cui ci si dovesse trovare di fronte all’ineluttabile cosa bisogna fare? Arrendersi.

Non è una cosa brutta, tutt’altro. È una mossa astuta. Lui pensa che riconosci la sua potenza e non infierisce. Perché in realtà non è un essere crudele, fa soltanto il suo lavoro che è semplicemente compiersi. Lui si esplicita davanti ai tuoi occhi e fa il suo dovere. Tu ti prendi quello che ti devi prendere addosso, cerchi di tenere la testa fuori dalla slavina e conti lentamente fino a cento. Se dovesse servire anche fino a mille, finché ha finito. Poi fai in modo di cavarti fuori dalle macerie e ritorni alla tua vita.

Ricordiamoci che non serve combattere, si spreca energia per il dopo. Ricordiamoci anche che se giocata con astuzia e pazienza, la partita alla fine la si vince perché lo scopo è sopravvivere.

Detto questo, facciamoci un cicchetto e iniziamo a contare.

Uno

due

tre

quattro

cinque

sei…

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(964) Stiletto

Ci sono parole che pungono, altre che accarezzano. Ci sono modi, toni, che scuotono, altri che rassicurano. Ci sono voci che assaltano, altre che accompagnano. Dipende dalle intenzioni, dal sentimento che traghettano, dalla persona da cui scaturiscono.

Certe parole in bocca a un estraneo neppure le senti. Se escono da chi ami è tutta un’altra storia. 

Quando sappiamo che colpire il quel punto provocherà dolore e decidiamo di colpire comunque, siamo imperdonabili. Sarebbe obbligatorio scusarci, spesso non ne abbiamo il coraggio. Ci vuole una bella tempra per chiedere scusa e sentire davvero la vergogna di aver ferito qualcuno volontariamente. 

Quanto riusciamo a perdonarci soltanto perché abbiamo imparato l’arte dell’autogiustificazione? Non ci giudichiamo mai crudeli, siamo sempre stati portati a dare quella fatale stilettata per un motivo o per l’altro. Inevitabilmente abbiamo dovuto reagire così. Inevitabilmente è andato a buon fine il colpo che abbiamo tirato. Doveva andare così. 

Ti ho fatto male? Pazienza, la prossima volta evita di portarmi fin lì. Fermati prima.

Ci deresponsabilizziamo volentieri. E andiamo avanti. I danni che ci lasciamo alle spalle non ci riguardano: brandelli di fiducia e risentimenti sparsi ci sembrano poco importanti.

Finché un giorno toccherà a noi raccoglierli e non sarà un bel giorno. Ma pazienza, bastava fermarsi un po’ prima e non l’abbiamo fatto.

Pazienza.

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(913) Groviglio

I sentimenti non stanno mai al loro posto, lì dove decidi di metterli. Si aggrovigliano continuamente. Li dipani con pazienza, li suddividi disciplinatamente, scegli quali tenere e quali archiviare e pensi che l’ordine sia fatto. Fucking Wrong.

Il groviglio, per una sorta di incantesimo maledetto, ti si addensa sotto i tuoi stessi attoniti occhi appena ti rilassi un attimo. 

Prendi un capo e l’altro dei sottili fili (tutt’altro che delicati, i sentimenti sono resistenti, son fatti per restare, per questo li puoi archiviare ma non li puoi bruciare sul rogo assieme alla Strega che vive in te), li scorri per snodare quelli che han deciso di incasinarti la vita e di nuovo li sistemi ben tirati davanti a te.

Ti giri e il groviglio ricompare. Sono fili elastici o sono soltanto degli stramaledetti stronzi? Non è dato saperlo. Una questione di metodo o di miraggio? Vallo a capire. 

Pensavo di aver sistemato le cose in sospeso, pensavo di aver ripulito dalla polvere e dalla muffa, pensavo di aver piallato e lucidato a dovere. Pensavo. La mente mente. La mente mente in modo spudorato. La mente mente in modo spudorato e come se niente fosse. 

Il groviglio prende forme strane e si prende spazio. Un groviglio è per sua natura un elemento in espansione. Non se ne resta immobile senza dar fastidio. Si allarga. E la tua mente presa dallo sconforto ti dice che non è così importante, che è così che ormai funziona, che è tutto un incrociarsi e un annodarsi di cose e situazioni e persone e dettagli ed emozioni e tanti disastri e poche gioie e tanti discorsi e pochi fatti. Tutto insieme, tutto confuso, tutto senza senso. Chi te lo fa fare a faticare per niente. Abbraccia la rassegnazione! [esortazione di ben dubbia validità]

Oggi, davanti al mio groviglio sto filosofeggiando prima di rimboccarmi le maniche e ritentare un approccio alla Marie Kondo. 

Fallirò. 

Lo so.

Pazienza. 

Mi posso rassegnare al fallimento di un ordine che non posso gestire, non mi rassegnerò mai al groviglio. Che sia chiaro.

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(883) Tranquillità

Non è che è gratis, te la devi proprio guadagnare. Costruirsi uno spazio dentro di noi dove poter stare tranquilli è cosa di pochi. Lo devi proprio volere con tutte le tue forze e lo devi anche saper difendere e riconquistare ogni volta che ti viene espugnato. Sì, è una guerra. Ma il premio è la tranquillità. A conti fatti ne dovrebbe valere la pena.

Devi però ricordarti come si fa a stare tranquillo. Cioé, a forza di combattere prendi quell’abitudine e ti vien difficile anche solo immaginarti in uno stato rilassato – che assomiglia molto alla pace interiore. Ti rimane dentro quella cosa che ti soffrigge lo stomaco, stai in una sorta di guardinga allerta, ti aspetti da un momento all’altro che la tua tranquillità venga presa d’assalto da un nemico qualsiasi. Il più delle volte è così, quindi il nemico vince anche quando non c’è o quando è lontano o quando ancora non si è accorto di te. Assurdo.

Sì, l’abitudine alla guerra è una bestia maledetta.

L’unica cosa da fare è rimanere concentrati sull’obiettivo: rimanere tranquilli nonostante la maledetta imperversi in ogni dove. Un modo per proteggere il fortino è di non farla entrare in casa. Prevenire è meglio che curare (sarà poco originale ma è sempre vero). Ci sono situazioni che sai già ti manderanno a remengo tutto, lo sai già. Ecco, tirarsi indietro, girarsi dall’altra parte, in questi casi ti salva dalla catastrofe. Non apri la porta all’Apocalisse. La saluti dallo stipite e te ne torni dentro. Semplicemente.

Qualcuno se la prenderà a male? Pazienza. La vita è difficile per tutti. 

Il pericolo è che, a forza di combattere, tu stesso inizi a pensare che la vita sia tutta lì. Se cadi in questo black hole tutto quello che ti accade si trasformerà in un’impresa sfiancante, senza neppure che tu te ne accorga. La prendi male già da prima, la vedi già come una cosa che ti rovinerà le giornate, la vivi male a prescindere. Questo, la bestia maledetta, può fare. Bisogna farci attenzione.

Detto questo: mi sto aggrappando alle mie parole per ripristinare in me un approccio sano all’esistenza. Una guerra maledetta contro il già vissuto e il già visto che mi si è tatuato addosso negli anni.

Ecco, ci sono ricascata: non sei in guerra, diamine, non sei in guerra Babs!

 

 

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(830) Màndala

L’Universo, il cosmo, le connessioni tra le forze cosmiche e le divinità: questo sono i Màndala. Un modo per proiettarti nello spazio, non per trovare risposte alle tue domande (lecite), ma per catturare luce (colori) e forme che possano tradurre tutto l’infinito che incontri. Non per capirlo, solo per fissarlo (spesso non per sempre) in una dimensione che puoi ammirare con gli occhi e con il cuore. Non è che ci vuole pazienza, ci vuole amore.

Credo che se riuscissimo a guardarci come se fossimo emanazioni (e lo siamo) di un Universo di luce per posarci l’un l’altro su un piano e guardarci, non per capirci ma per osservare le forme e le connessioni di cui siamo portatori, andrebbe meglio. Tutto andrebbe meglio.

Non si tratta di combinare i colori che scegliamo, ma di riportare esattamente le geometrie colorate che i nostri occhi stanno fotografando. Ovviamente bisognerebbe proiettarsi in uno spazio al di sopra della mente, dove il pensiero perde il suo intrigante appeal per vagare innocente tra una stella e l’altra senza pretese.

Sostanzialmente impossibile, ne convengo, ma affascinante come possibilità, vero? Si scoprirebbero subito quelli privi di luce, quelli che si sono fatti ingoiare dal buio. Ce ne sono tanti sparsi ovunque, che sorridono e che amabilmente ti raccontano di quanto sono felici, ma sono spenti dentro. E non lo dico per giudicare, ma perché a saperlo si potrebbe fare qualcosa, si potrebbe creare una sorta di canale benefico per riempire qualche vuoto e far rispuntare in loro l’amore che manca. Continuare a fingere, tutta una vita, è ben faticoso e si potrebbe far fatica per chiedere aiuto anziché spargere veleno per spegnere la luce degli altri, no?

Vabbé, era solo una riflessione, non certo una soluzione a tutti i problemi del mondo. Però, pensarmi un Màndala con una certa forma e una certa luce che si frammenta in colori che non riesco neppure a immaginare mi piace. Mi proietta in uno spazio accogliente, dove sgranchirmi gli arti doloranti e vagare senza pensieri. Non lo so, ma potrebbe essere interessante vivere un po’ di più dove la luce e i colori fanno vibrare la vita.

Così, tanto per dire.

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(795) Offrire

In linea di massima un Essere Umano qualsiasi ha una consistente quantità di cose da offrire. Attenzione, cura, ascolto, pazienza, comprensione, affetto, amore – tanto per dirne alcune, oltre a tutta la lista delle faccende materiali, ovviamente. 

Offrire significa avere l’intenzione di dare qualcosa a qualcuno senza voler nulla in cambio: tu offri e basta. Non ci metti il carico di un ritorno, un’aspettativa. Non c’è calcolo, c’è solo l’offerta. E l’offerta non è vincolante, può anche essere rifiutata. Il “Preferisco di no” (cit. Bartleby). ci sta, è parte del gioco.

Se offri qualcosa che per te ha molto valore, valore che il ricevente scelto non riconosce, puoi ricevere un rifiuto. Accettare un’offerta significa saper “godersi” il dono senza ritorni fastidiosi – del tipo adesso-come-posso-ricambiare perché se è davvero un’offerta non è contemplato un “ricambiare”. Non immediato almeno, non obbligato di certo.

Quando offri qualcosa è buona regola farlo con i dovuti modi. Non la sbatti addosso al tuo interlocutore, gliela porgi. Porgere è un verbo bellissimo, include una certa grazia, una naturale gentilezza. Ecco, un’offerta si porge. E se la presenti bene acquista ancora più valore.

Tutto questo discorso per dire che stasera al Der Mast abbiamo offerto al pubblico presente (oltre un centinaio di persone di buona volontà) uno spettacolo che per quasi due anni abbiamo curato con tutto l’amore che avevamo  in corpo e tutto questo è arrivato a chiunque in sala. Proprio a tutti. Hanno accettato di entrare nel mondo della Vecchiaccia (opera di Stefano Benni) e di lasciarsi trasportare dai suoi ricordi, dalle sue gioie e dai suoi dolori. Hanno ridacchiato, hanno ascoltato, hanno sospeso un po’ il respiro quando la tensione si faceva pesante. 

Niente di più bello di un’offerta che viene accolta e apprezzata. Niente di più bello che poter offrire una cosa con tutto il cuore e vedere che chi la riceve ha voglia di darti il suo grazie perché quella cosa lì non se la dimenticherà più.

Perfetto.

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(759) Via

Finché non parto non è detto che io voglia partire. Se ancora non sono partita è perché qualcosa non mi torna, qualcosa non mi convince, ancora non ho il quadro completo della situazione, ancora non sono pronta. Partire impreparata non è contemplato dal mio DNA, semplicemente.

Come faccio a sapere che non si tratta di pigrizia o di codardia? Me lo sento. So bene che sono pigra e so bene che posso peccare di codardia pertanto mi tengo ben monitorata (vorrei non fossero limiti quindi sto cercando di lavorarci per depotenziarli nella loro forma più acuta). Riconosco il perché del mio rimandare quando una cosa che mi entusiasma perde lo smalto senza alcun motivo. Inizio a dubitare di quello in cui mi andrò a buttare, inizio a farmi alcune domande topiche, inizio a sondare con la mente tutte le complicanze della situazione. Un’analisi piuttosto certosina che potrebbe prendere più tempo del previsto, ma se la supero e mi ritorna il fuoco, allora parto.

Pronti, attenti… via!

Se parto, non mi fermo finché non arrivo alla meta. Ci posso mettere un mese, un anno o una vita, se parto allora arrivo anche. Poco ma sicuro. Non manco di tenacia, spirito di sacrificio e follia. Non manco di pazienza e perseveranza. Non manco di inventiva per risolvere problemi e saltare ostacoli. E poi, la cosa più importante di tutte: se prendo un impegno non mi rimangio la parola. Il che non sempre è un  bene, non sempre è intelligente, quasi mai è comodo, ma l’impegno preso significa tutto. Nel bene e nel male.

Iniziare per me non è mai un caso, è una scelta ponderata. Ci metto in conto le mie supposte capacità, oltre che il mio reale interesse, perché devo essere davvero convinta per poter completare il percorso. Se parto già dubbiosa so che non avrò la forza di mantenere quanto promesso. Mancare alle promesse mi causa uno sconforto senza fine, preferisco evitarlo.

Tutte queste chiacchiere per dire una cosa e una soltanto: partire è una faccenda seria. Si parte quando dentro di noi sentiamo quel click, quello dell’interruttore, che ci accende come una miccia. Il pronti-attenti-via solitamente è un sussurro, ma ha la forza di una rivoluzione. Sappiamo che da quel momento in avanti potrà succederci di tutto e che dipenderà tutto da noi. Se parti con altri presupposti, preparati a fermarti al primo pit-stop. Definitivamente, però.

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(746) Posare

Ci sono pezzi che trovano il loro posto soltanto dopo anni. Molti anni. Non fanno altro che girarti intorno, non capisci cosa diavolo vogliano da te, sei anche pronto a lasciarteli alle spalle, andare avanti come se non fosse più importante. Niente da fare, ti ronzano sotto il naso senza posa, senza pace – loro e tua.

Sono certa che certi pezzi non andranno mai a posto, orfani di ragioni o di possibilità, ma prima o poi si stancano e vanno comunque a posarsi in un angolo o nell’altro preferendo il silenzio. E sono quelli che riescono a fare più male.

Alcuni pezzi ti chiedono di fare il primo passo, devono essere sicuri che non li ritirerai fuori ogni tre per due una volta che si sono sistemati. Bisogna stare attenti con loro, la sanno più lunga di noi.

Mettere in ordine i pezzi è sempre una buona idea, anche se costa fatica e se piuttosto andresti in Alaska in bikini. Mettere i pezzi al sicuro dove nessuno li potrà toccare ti aiuta a stare tranquillo, sai che se ti perderai puoi sempre ritrovarli lì e loro ti sapranno rassicurare.

Certi pezzi vanno a posto da soli, sono quelli meno importanti – forse – quelli che ti hanno lasciato un segno più leggero degli altri. Loro non si fanno pregare, in autonomia si posano un po’ qui e po’ là e si fanno dimenticare volentieri, sanno che quello che ti dovevano dare ti hanno dato e che i conti si son chiusi alla pari.

Quelli più tosti sono i pezzi che portano con sé delle domande perché di risposte ce ne possono essere più di una e non sai mai se quella che hai trovato sia davvero la definitiva. Rischi di illuderti per poi vederti ribaltare dalla risposta successiva e – magari – ancora provvisoria. Perché, ammettiamolo, certe domande non hanno risposte, contengono soltanto altre domande. Senza fine.

Ho imparato ad aspettare, potenziando la pazienza, forse perché ho imparato ad affidarmi o forse solo per stanchezza. Non lo so. Nel dubbio mi poso, guardando l’orizzonte sperando in un cielo di nuvole che corrono col vento che non ha posa.

 

 

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(728) Beninteso

Sono una persona ben educata, beninteso. Sono una persona paziente, beninteso. Sono una persona empatica, comprensiva e gentile, beninteso. Non considero la sensibilità una dote, è una caratteristica umana che si declina in mille sfaccettature e quindi lo siamo tutti, tutti estremamente sensibili altroché. Neppure l’essere solare mi pare una dote, è più che altro uno stato d’animo e io di solare ho veramente poco poco. Però quelle cose lì sopra so che sono proprio parte di me e che sono caratteristiche in parte naturali e in parte acquisite durante la mia infanzia perché ho avuto degli esempi splendidi da seguire.

Ecco, mi scoccia ammetterlo, ma queste qualità vengono prese, dai più, per debolezze. Vengono considerate un limite e ripagate, per lo più, con un viscerale e silente disprezzo.

Beninteso: essere come sono mi costa fatica, ma per mia fortuna ho una lista interminabile di difetti che equalizzano perfettamente l’insieme. La mia presunzione mi sostiene nel perseverare ad essere così come sono, la mia testardaggine mi incita a non arrendermi a quello che gli altri pensano di me, la mia autonomia mi aiuta a restare intera nonostante tutto. Sembrerà pazzesco, ma questi difetti che mi sono utilissimi vengono apprezzati ancora meno dei miei pregi. E qui potrei dilungarmi per ore con deliziosi aneddoti pittoreschi su come io sia motivo di grandi scazzi da parte del mio prossimo, ma non lo farò.

Vorrei solo soffermarmi su un punto cruciale della questione: potrei mettere da parte educazione, gentilezza, capacità empatica, pazienza, certo che potrei. Potrei ma non voglio. Decido di non farlo, ma è una decisione che potrebbe subire qualche cedimento, beninteso. E anche se decidessi di metterli da parte non scomparirebbero dal mio DNA, quindi in automatico non diventerei una persona cinica, maleducata, intollerante, rabbiosa. Non sarei né migliore né peggiore, sarei esattamente come adesso. Cambierebbe però la percezione che gli altri hanno di me. Sarei guardata con occhi diversi. Sarei ascoltata di più, sarei rispettata di più. Il mio modo di relazionarmi con gli altri sarebbe diverso e di conseguenza anche l’altrui modo di relazionarsi con me sarebbe diverso. Credo migliore, ne sono convinta.

Perché non lo faccio? Perché grazie al cielo ho i miei difetti che mi proteggono, che non mi permettono di adeguarmi al mediocre e sono (lo ricordo): la testardaggine, la presunzione, l’autonomia di pensiero. Quindi, oggi posso affermare tranquillamente che se lavorassi per mitigare i miei difetti, i miei pregi andrebbero a farsi fottere.

Beninteso, posso migliorare la gestione di entrambi, ma non posso inventarmi un’altra me. Però, ripeto: posso migliorare la gestione di entrambi. E, beninteso, lo farò. Sono qui per questo, è giusto dirlo. Sono qui per questo.

 

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(694) Alieno

Essere un alieno può significare che provieni da un altro mondo, che appartieni a un altro mondo, ma anche che sei refrattario rispetto a qualcosa o a qualcuno: come al solito la lingua italiana si riempie di colore appena la sfiori. Quante volte al giorno ci succede? Centinaia. A tutti per di più. Siamo tutti goffi alieni che si muovono a tentoni e che fanno finta di avere tutto sotto controllo. Balle.

A me piacerebbe tanto incontrare un alieno capace di affermare non-lo-so quando davvero non sa qualcosa. Mi piacerebbe parlare con un alieno che non si vergogna di ammettere che non-può-fare qualcosa o addirittura che non-sa-fare-qualcosa. Sarebbe liberatorio. Non sarei sola in questo pianeta dove tutti sanno tutto e tutti sanno fare e possono fare tutto.

Io no. Ci sono milioni di cose che non so – anzi, miliardi – e altrettanti milioni di cose che non so fare o che non posso fare, eppure vivo. Forse non me lo merito, ma respiro lo stesso, anche se sono lontana dall’essere come vorrei, anche se la gran parte delle mie aspirazioni son finite in cantina e non c’è nulla di che vantarsi. Sono un Essere Umano finito, ho confini precisi e alcuni limiti che non mi sarà possibile superare neppure in cento vite. Pazienza. Non odio nessuno per questo, non c’è nessuno con cui prendersela, neppure chi può tutto, sa tutto, fa tutto e pure bene. Eh! Beati loro. Io no.

La cosa migliore di tutte? Nessuno si aspetta da me grandi cose. A tutti basta la mia normalità, quando ne hanno abbastanza se ne vanno liberamente, per andare a dimostrare altrove che sanno, che possono, che fanno. Magari ne danno annuncio sui social, perché se non lo racconti a qualcuno la questione perde il luccicore. Dal mio angolo alieno osservo: a volte ammiro e altre mi dissocio con fermezza.

Qui da me l’ordinario ha un sapore buono, che sazia, e quando qualcosa di straordinario accade lo si festeggia. Potrebbe non accadere più.

Noi alieni siamo fatti così. Portate pazienza.

 

 

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(666) Gabbia

Lavorare con le idee significa imparare a costruire astute gabbie che le possano contenere e nel contempo che permettano loro di crescere e svilupparsi senza sfuggire dai confini imposti.

Lavorare sulle idee significa che ti ci devi mettere dentro quella gabbia e condividere lo spazio con loro, se soffri di claustrofobia peggio per te. L’idea, in generale, respira sempre meglio di qualsiasi Essere Umano – è giusto che tu lo sappia.

Lavorare per donare agli altri le tue idee significa che a un certo punto devi uscire da quella stramaledetta gabbia abbandonando la tua creatura lì. Saprà essere forte senza di te? Saprà farsi valere? Saprà mantenersi compatta e al contempo crescere?

La gabbia è bastarda. Contiene, costringe, soffoca. E ripara. Ogni gabbia lo fa, ogni dannata gabbia lo fa. Maledette.

D’altro canto le idee sono ribelli guizzi, irrefrenabili risa, scatenate frecce, energia che non puoi tenere tra le mani e non puoi incatenare. Ingabbiare però sì. Come sia possibile lo si impara presto, lo sappiamo fare tutti: disciplina, coerenza, costanza, pazienza, capacità spiccata di problem solving. Le idee, in realtà, non odiano le gabbie perché sanno di averne bisogno altrimenti non si concretizzano. Non si arrendono alle sbarre, questo no, ma si fanno modellare e si rendono docili, malleabili, se trattate con rispetto. Sanno di come vanno le cose meglio di noi, meglio di me.

Le mie gabbie mi sentono nemica, ma ormai hanno capito che il mio sfinimento le vedrà vincitrici. Non ci voglio neppure pensare. ‘Notte.

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(609) Preferire

Preferisco tacere quando sono veramente incazzata. Preferisco tacere anche quando sono fortemente in disaccordo, farmi passare i primi 10 minuti di furore e poi tradurre più serenamente il mio disaccordo in modo che risulti il più civile possibile. 

Preferisco il silenzio alla musica mediocre, perché anche se è mediocre quando mi entra in testa non c’è verso di farla uscire – per ore intere. Preferisco qualsiasi musica a tutti i silenzi branditi come armi di distruzione. Preferisco la musica che posso cantare e preferisco il mio silenzio a quello degli altri.

Preferisco guidare che fare da viaggiatore a traino. Preferisco volare piuttosto che camminare, per questo mi sarebbe piaciuto prendere il brevetto di volo o lanciarmi col paracadute – non c’entra niente, lo so, o forse sì.

Preferisco preferire qualcosa o qualcuno anziché farmi piacere tutto o non farmi piacere niente. Scegliere mi viene facile, non scegliere è un’agonia che cedo volentieri. Male che vada ho scelto male, pazienza, vedrò di rimediare in qualche modo.

Preferisco non soffermarmi sulle cose che mi danno fastidio, ma faccio fatica a dimenticarmele. Ho una sorta di spugna in testa che non rilascia un cavolo e continua ad assorbire assorbire assorbire. Ha una tenuta sorprendente e sono terrorizzata dalla possibilità che a un certo punto rilascerà le parti che non vorrei dimenticare per lasciarmi sola con le cose che dovrei dimenticare. Sì, avrei bisogno di uno psicoterapeuta in gamba, lo so.

Preferisco star qui a scrivere le mie idiozie e far finta che un giorno qualcuno le leggerà, che guardare la televisione – qualsiasi canale, qualsiasi programma, qualsiasi faccia vi compaia in qualsivoglia orario diurno o notturno. Preferisco leggermi un buon libro e rinunciare a un’uscita con la persona sbagliata – il tempo è un privilegio che non va ingannato.

Preferisco parlarmi chiaro per evitare di eludere concetti che poi mi chiederanno il conto, conto sempre salato. Preferisco, spesso, pagare un conto molto salato pur di arrivare alla verità oggettiva, perché della mia versione strettamente soggettiva – utile com’è – solitamente non so che farmene.

La lista potrebbe continuare, ma sto crollando sulla tastiera per sfinimento neuronale. Buonanotte.

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(607) Nonchalance

Dovrei prendere certe cose con distacco. Dovrei. Ma non ci riesco. Eppure sono una persona pacifica, tranquilla, paziente, controllata… o almeno mi sono sempre considerata così.

Eppure se guardo ai fatti, a quanto poco tollerante e controllata riesco a essere quando mi toccano questioni per me cruciali, va a finire che non lo sono. Mi sbalordisce ‘sta cosa. Quando ho cominciato a non essere più pacifica-tranquilla-paziente-controllata? Lo ignoro.

Come può un punto e virgola messo da qualcuno al posto dei due punti scatenare il putiferio dentro di me? Ignoro anche questo.

Il tipo che oggi in tangenziale si è attaccato al baule della mia auto bestemmiandomi contro e facendomi i fari perché voleva passare – eravamo obbligati alla coda e facevamo i 70 all’ora – è pur sempre un mio simile, no? L’ho fatto passare e poi l’ho visto inchiodare cinque metri da me perché un camioncino gli aveva tagliato la strada costringendolo a rallentare ulteriormente, ed è lì che ho pensato che il karma istantaneo è di fatto una meraviglia. Ho riso di gusto, non sono riuscita a impedirmelo.

Reagire con distacco, elargire freddezza anziché sguardi fulminanti è un atteggiamento adulto, elegante, no? Sì, ma non ci riesco. Ascoltare un comizio politico che rasenta il folle, da parte di un decerebrato che pensa di essere il fenomeno della situazione, per la maggior parte delle persone è tollerabile quel tanto da cambiare canale e non pensarci più. Ecco, per me no, io mi costruisco un discorso di opposizione suddiviso in paragrafi e capitoli – tutto nella mia testa – e finché non ho scritto il finale non sono contenta.

Sospetto di non essere così normale come mi sono valutata negli ultimi quaranta-e-rotti-anni. Forse dovrei preoccuparmi.

Valuterò e mi farò sapere.

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(463) Utilità

L’utilità di una cosa, di una situazione e addirittura di una persona, la si può verificare solo in corso d’opera. Mentre la stai vivendo ti accorgi di quanto è valida, efficace, di quanto ti avvantaggia. Prima lo puoi supporre, ma non ne puoi essere certo, anche se la stessa cosa o situazione o persona ti è stata utile in altro frangente. L’utilità ha valore sensibile ai tempi, alle condizioni atmosferiche, alle contingenze. Una cosa utile sempre e per sempre non esiste, a meno che non siamo noi a intestardirci a ritenerla utile perché ci è comoda. Ricordo, per pignoleria non per altro, che comodo – anche se sinonimo di utile – non corrisponde pari pari a essere efficace o valido. La comodità può essere dovuta a un uso/pratica costante che ci diventa automatica e pertanto comoda perché non dobbiamo pensarci, la facciamo e basta.

Detto questo, riflettevo sul concetto di utilità procedendo per contrari: inservibilità, inutilità, nocività ecc. e valutando il tutto direi che dovrebbe essere buona pratica disfarsi di tutto ciò che si è reso inutile perché può trasformarsi in nocivo. Un po’ estrema come posizione, lo ammetto, ma se la si mantiene come linea guida – senza per questo renderla gabbia – potrebbe anche essere che certe comodità ormai obsolete le riusciamo a sostituire con un pensiero capace di portarci vantaggi insperati.

Sto ragionando per sommi capi, se poi si scende nello specifico le cose si complicano, ma valutare questa opzione ogni tanto potrebbe rivelarsi liberatorio, se soltanto riuscissimo a dribblare l’intralcio del giudizio autocritico che ci fa urlare: Egoiste!

Come al solito le mie riflessioni sono un punto di partenza, raramente d’arrivo, specialmente quando difetto di un quintale di ore di sonno e mi riduco a digitare gli ultimi brandelli di pensiero prima di crollare a letto.

Ogni tanto penso che chi si ferma qui a leggermi deve avere proprio una gran pazienza.

Grazie.

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(462) Jump

Un salto senza preparazione è destinato a ben poco. Ogni cosa senza preparazione adeguata ha futuro incerto. Un salto, però, un salto non lo fai per caso e se non ti ci metti, se non ti prepari come si deve non hai giustificazioni di sorta. Non stiamo parlando di una scivolata, che te la cavi un po’ come puoi e se ti rompi l’osso del collo puoi sempre addossare la colpa all’incidente. Un salto è un’altra cosa, inutile nasconderci dietro un non-me-lo-immaginavo-potesse-accadere.

Nella preparazione entra in gioco l’insicurezza, quella brutta, quella che ti paralizza gli arti perché vuole che tu le dia ragione: non puoi farcela. E poi c’è l’ansia, perché non è di certo il primo salto che fai e le probabilità che sia fallimentare sono piuttosto concrete. L’ansia è bastarda, ti batte in testa, ti fa rincorrere il cuore che non ha più controllo, ti strappa il buonsenso a morsi e ride di te.

Sarebbe meglio saltare e basta, sarebbe meglio evitarle tutte queste stramaledette gabbie. Ci devi passare, devi attraversare tutto questo da solo nella tua oscurità per essere pronto, però. Che chance avresti, altrimenti?

C’è una cosa che ti dà la forza, una cosa che fai fatica ad accettare perché non sembra lì per aiutarti: la mancanza di altre strade da percorrere. Devi saltare per raggiungere l’altra sponda, non puoi che saltare oltre lo strapiombo se vuoi muoverti da lì. Non vedi oltre il tuo naso? Pazienza, fidati. Non hai gambe abbastanza forti? Pazienza, fidati. Non hai polmoni sufficienti per riempirli d’aria come si deve? Pazienza, fai quello che puoi e fidati. Non hai scelta.

La non-scelta spesso è l’unica forza che ti rimane, che ti vada bene oppure no non fa alcuna differenza, la realtà non cambia solo perché a te non piace. La non-scelta è la condizione di chi ha poco in dotazione nel suo pacchetto-vita, di chi davanti a un bivio ha una strada aperta e l’altra chiusa dopo pochi passi, non la vedi la fine? Saresti un idiota a prenderla, ti fermeresti subito.

Quindi cosa vuoi fare? Andare? Andare avanti? Ecco, ti sei già risposto. Prendi l’altra via. Come? Devi saltare? Eh, lo so. Non sei pronto? Eh, lo so. Pensi che non ce la farai? Sì, probabile, ma salta. Poi ne parliamo.

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(455) Eremo

Non ci resisterei troppo, al massimo sei mesi secondo me. Sarebbe un modo per disintossicarmi da 45 anni di mondo, non un abbracciare la solitudine totale per finire lì i miei giorni. 

Do per scontato che avrei un sacco di scazzi durante i sei mesi, per quanto io possa bastare a me stessa in fatto di immaginazione fantastica (e anche meno fantastisca) con un sacco di storie da scrivere e da costruire – non è che me ne starei con le mani in mano e roba del genere- non sarebbe una condizione naturale, anche se sono in origine un’introversa viscerale. La voglia/bisogno di sentire la voce delle persone che amo, la tentazione di sbirciare su facebook e via così, no non sarebbe un’avventura facile però, sicuramente, realizzerei una sorta di desiderio egoistico all’ennesima: farmi i fatti miei a dispetto del mondo intero.

Detto questo, so bene che non lo farò mai. L’Eremo è una di quelle condizioni che non realizzerò, perché sicuramente il realizzarla la renderebbe odiosa. Ciononostante, quella condizione di solitudine cerco di attuarla ogni volta che mi si presenta l’occasione e se l’occasione non mi si presenta (in certi periodi è un delirio) allora me la cerco e la strappo via a morsi dal quotidiano che mi macina.

Ho un piccolo Eremo dentro di me, molto basic, niente di chic, piuttosto freddino, niente comodità, silenzioso quel tanto che basta e accessibile solo a me. Ce l’ho, lo frequento spesso, direi ogni giorno a piccole dosi. Non sono quella delle meditazioni, non ne sono capace e mi piacerebbe tanto, ma quella delle fughe di silenzio random. Quelle mi vengono benissimo, sono una specialista.

Non sto a dire che può bastare per elevare lo Spirito, ma il mio Spirito ha compassione di me e sopporta questi stupidi escamotage che metto in atto per evitare l’esaurimento. Mi sostiene con la speranza che prima o poi mi ci metterò d’impegno e lo curerò come e quanto merita. Ora non ne ho le forze, e per quanto mi dispiaccia essere come sono, penso sempre che da qualche parte si debba pur iniziare e essere una specialista delle fughe di silenzio nel mio piccolo Eremo interiore non sia poi così male come inizio.

Spero.

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(416) Prima

Prima c’è la concentrazione e la rimozione del dubbio. Non può che andare bene, andrà bene. Perché il dubbio quando devi agire ti dimezza la forza. Non puoi agire debolmente, devi farlo con energia, il doppio di quella che sarebbe sufficiente per farti arrivare alla meta. E potrebbe volerci un bel po’. Più la situazione è complicata e più i dubbi proliferano. In questo caso, nel mio caso, quello di questi giorni pre-spettacolo non è stato così difficile perché non era il debutto perciò dubbi pochi.

Poi c’è l’attenzione, che deve essere totale per evitarti errori fatali. Non basta andare con la corrente, devi metterci il tuo e di solito costa fatica. Tanta fatica. Più sei sicuro che questa fase di preparazione sia stata da te seguita e curata e più affronterai il momento fatidico con sicurezza.

Il prima non è mai un frizzare di gioia e entusiasmo, piuttosto un meticoloso affaccendarsi affinché tutto quello che si può controllare sia in controllo. Testa bassa e lavoro duro.

Il prima è fatica e stanchezza. Ti domandi prima di addormentarti – che è più che altro un cadere in coma  fino al mattino – se quello che stai facendo ne valga la pena. Te lo domandi, ma non ti rispondi. I dubbi li hai già liquidati durante la fase 1 e indietro non si torna ( “… neanche per prendere la rincorsa” diceva Pazienza ne Le straordinarie avventure di Penthotal).

Il prima è imparare a gestire la tensione e la tua capacità di relazionarti con chi ti sta accanto è fondamentale per non ritrovarti dopo nei guai (meritatamente).

Il prima è emozione, quel chissà come andrà non è mai archiviato davvero. Ti dai sempre – cautamente – una percentuale onorevole di errore, tipo il 20%, ma menti spudoratamente se pensi che poi potresti perdonartelo.

Il prima è contare i secondi e fare un bel respiro e affidarsi a quel che sarà.

C’è sempre un prima in ogni cosa, ho imparato a godermelo e ancora non me ne sono pentita.

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(234) Drago

Se potessimo ricordare in ogni istante il potere del Drago, avremmo risolto gran parte del nostro personale conflitto interiore.

La parte malefica, dove morte e distruzione possono abbattersi improvvisamente nella nostra vita, e la parte benefica, la bontà e la fortuna a farla da padrone.

Il Drago è dentro di noi, distrugge e accudisce a fasi alterne. Ciò che distrugge dev’essere distrutto, anche se non ci piace. Ciò che rimane dev’essere curato per far crescere la fortuna che sta per arrivare.

La fortuna se non trova posto non si ferma, se ne va senza neppure salutare. Così è, non è disposta a compromessi.

Dobbiamo domare il Drago, domare noi stessi. Dobbiamo prenderci in mano e fare bene i conti, e fare bene le cose, e fare bene. Del bene a noi, anche se non ci piace. Dobbiamo.

Solo così possiamo sperare di migliorare tutto il resto, tutto quello che sta fuori e così vicino a noi che non può essere lo stesso provocare devastazione o profondere bontà e fortuna. Perché non ci mettiamo l’anima in pace e non affrontiamo il nostro Drago, ora? Perché?

Ora, non dopo. Ora. Il Drago aspetta, il Drago ha pazienza, il Drago non è la Fortuna, il Drago non se ne va.

 

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(172) Equità

Equità 1. Imparzialità 2. criterio valutativo, svincolato da riferimenti di legge a cui il giudice può in certi casi ricorrere per affermare un principio di giustizia sostanziale: decidere secondo equità.

Decidere secondo equità mi piace. Mi piace l’idea che sta dietro questo concetto, qualcosa che ti fa sentire guardato con gli occhi giusti. Se è vero (e lo è) che non siamo tutti uguali (per fortuna e purtroppo) è anche vero che ci sono situazioni in cui fingere di esserlo provoca danni.

Sapere che possiamo andare oltre quello che è giusto o sbagliato e considerare l’Essere Umano semplicemente per quello che è – fallace – ci dovrebbe mettere al sicuro.

Eppure, preferiamo aggrapparci a criteri che valutiamo essere i capisaldi di una giustizia utopica, perché mero paravento per nascondere furberie del potere ormai scontate.

Questo in generale. Ora scendo nel particolare.

Se decido che – nonostante tutto – tu meriti una possibilità, io la possibilità te la do. Se valuto secondo equità che la possibilità te la meriti perché dentro di te c’è qualcosa di buono, qualcosa di bello, che deve uscire e non sa come fare, ma deve uscire… la possibilità te la do e mi prendo tutte le conseguenze del caso.

Se quello che ho visto si rivela essere soltanto un miraggio, pazienza. Non ne morirò.

Equità, è un pensiero che mi apre alla possibilità e me lo voglio tenere stretto.

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(122) Pazienza

Essere addestrati alla pazienza, questa la grande ricchezza della mia vita. Non sto scherzando, tutti i miei desideri concretizzati hanno avuto tempi giurassici. 

La colonna sonora della mia esistenza potrebbe essere: “Patience” dei Guns’n’Roses. Just a little patience – cantava Axl al culmine della sua carriera e del suo fascino selvaggio – eh, Axl, a guardarti adesso viene davvero da esclamare Pazienza! (ma come ti sei ridotto, santocielo?!).

Metto da parte per stasera tutte le imprecazioni che l’andare a velocità triplamente rallentata rispetto a molti altri mi suscita ogni volta che ci penso e guardo la cosa dalla prospettiva opposta.

So aspettare. Nell’attesa so cosa fare (lavoro, studio, vivo, cresco) e non perdo tempo. Se avessi avuto pazienza e semplicemente aspettato, sarei morta d’inedia, invece eccomi qui. Sono ancora molto paziente e piuttosto presente nella mia modesta esistenza di lottatrice di sumo (visto l’agilità e la stazza non potrei paragonarmi ad altro atleta).

Detto questo: c’è un limite anche alla pazienza.

Credo che ora dovrò imparare a non essere paziente. Almeno non sempre. Esserlo con discernimento (e non perché devo fare la brava) è il mio prossimo goal.

Si salvi chi può.

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