(1056) Ossessione

Sono fissata con le parole, fissata con il significato che contengono, fissata con il loro potere di creare e di distruggere. Fissata. Fissata. Fissata.

Quando usi l’immanse parola Libertà e la sbatti in faccia agli altri ergendoti a legittimo detentore del titolo di Uomo Libero del Secolo, io ti asfalterei. Non sto scherzando. Tu prendi in mano un contenuto così immenso e lo butti nel fango e ci pisci sopra. E mi dici che tu sei quello che ha potere sul concetto, sulla terra che questo concetto nutre e su chi lo ha abbracciato davvero dando la propria vita  per difendere la Libertà degli altri. E io ti sento parlare e ti sento bestemmiare e ti sento mandare in merda tutto quello che un Essere Umano ha di pulito e di sacro e ti vorrei passare sopra con la ruspa che il tuo partito sbandiera da vent’anni. Vorrei che lo facesse quel Dio che stai insultando, e ti odio perché mi tiri fuori questo lato bestiale che vorrei non avere.

E non voglio parlare di chi ti crede. Non voglio parlare di chi ti segue. Non voglio parlare di chi pensa che la Libertà sia quella che tu tiri in campo per farti buon gioco. Non voglio. So che tante di queste persone sono mosse da un odio più grande del mio e questo odio lo spargono ovunque perché tenerlo dentro sarebbe troppo. E mi dispiace per loro, davvero. Ma tu meriti il peggio. Meriti di sanguinare per una terra che non puoi avere, meriti una vita di privazioni profonde (come le persone che lasci morire in mare), meriti che tutto l’odio che tu infiammi ti si ritorca contro. E succederà così, con calma, diamo tempo al tempo.

No, non sto parlando di politica e non sto parlando di religione, sto parlando di quella materia umana che dovrebbe sapersi innalzare e creare meravigliose opportunità di incontro e crescita e che, invece, viene utilizzata per farci soffocare nella melma. E sembra anche riuscirci.

Oggi ho assistito a una potente lezione di retorica, ho ascoltato bene, tutto quello che potevo, da tutte le voci che in Parlamento si sono espresse. E ho pensato ad Aristotele e anche a Demostene. E mi sono sentita così piena di responsabilità che quasi mi è mancato il respiro.

Poi mi sono ricordata che non siamo qui per sguazzare nella melma e che la pioggia sa lavare via tutto e Noè ne sa qualcosa. E ho danzato perché la pioggia si sbrigasse a fare il suo lavoro per riportare la materia umana a un pulito almeno decoroso.

Sì, quando è troppo è troppo.

 

Non sono mai quelli che vi parlano a rendervi buoni o cattivi: siete invece voi che fate di loro ciò che volete. Infatti non siete voi a sforzarvi di fare ciò che essi vogliono: sono piuttosto loro che si sforzano di dire ciò che essi pensano che voi desideriate. Conviene quindi che voi vogliate cose buone e così tutto andrà bene: infatti, in tal modo, o nessuno terrà più discorsi cattivi, oppure, se qualcuno lo farà, non ne trarrà alcun vantaggio, perché non troverà chi si lasci persuadere.

(Demostene, Sulle Finanze)

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(992) Cattiveria

Ci sono diversi modi di esplicitare la propria cattiveria. Quelli più evidenti ti rendono vulnerabile perché puoi trovare sulla tua strada qualcuno che non incassa e tace, ma che ti ripaga con la stessa moneta. E son cazzi tuoi. Le persone che agiscono in questo modo, sconsideratamente e stupidamente, sono le migliori perché le inquadri subito e le puoi detronizzare con poco sforzo e anche per sempre (volendo), evitandole.

Poi ci sono le persone che usano un’astuzia sapiente e spargono la propria cattiveria sugli altri, con mira invidiabile ed efficacia letale, e tu manco te ne accorgi se non quando è oggettivamente troppo tardi. Ok, da queste è davvero difficile difendersi. Se non sei viscido e perfido alla pari, finisci con l’avere la peggio in modo sistematico.

Non ragioniam di lorma guarda e passa (Inf. III, 51)  – Dante Alighieri

Sì, Dante ha ragione, ma ogni tanto ragionare sulle cose ti aiuta a digerire meglio. Non è che a tirare sempre dritto le cose comunque si risolvono e ci sono cose che se non le risolvi in qualche modo ti fanno ingoiare i danni all’infinito. Quindi per oggi ragioniamoci su.

La cattiveria si può trasformare in azione o meno, a seconda dell’opportunità e del coraggio del soggetto in questione di cedere a quel pensiero malefico da cui ha origine. La cattiveria consapevole è quella condizione dove non solo ti ritrovi obiettivamente ad ammettere con te stesso che sei cattivo, ma lo fai con un certo orgoglio perché esserlo ti rende potente. E lo sei, potente. Lo sei non perché più forte degli altri, soltanto perché te ne fotti e agisci senza scrupoli. Questo fa di te un assassino, perché quando uccidi la buonafede delle persone sei a tutti gli effetti un assassino. 

Tu prendi un altro Essere Umano e lo colpisci cercando di fargli più male possibile. Lo fai perché, secondo il tuo metro di giudizio, questa persona non vale niente, questa persona merita di soffrire e la vuoi spezzare in tutti i modi che puoi immaginarti. E ne puoi immaginare mille di modi, in contemporanea, perché l’immaginazione non ti manca. Che questa persona ti abbia fatto o meno un torto, alla fine, non importa, basta semplicemente che per un motivo o l’altro ti stia sulle palle.

Un Essere Umano vero, non tu, quando odia cerca di maneggiare il sentimento per renderlo meno devastante. Non necessariamente si arma per far fuori chi sta odiando. Ci viene a patti, mentalmente parlando, per non trasformarsi in una bestia. Ma, ora che ci rifletto meglio, l’odio non si attacca ai veri Esseri Umani, loro arrivano fino a un certo punto e poi mollano il proprio ego prima di soffocarci dentro. Tu, invece, no. Tu, bestia, non lo fai.

E quando si riceve questo odio si ferma il respiro. Perché è peggio di un pugno, è un colpo che arriva al cervello e annichilisce ogni reazione. Non ti pieghi, non ti spezzi, non ti muovi… tieni botta e poi… ti afflosci. 

Ok. Dante alla fine ha ragione, come sempre. Ti vien soltanto da guardare e passare. Guardi perché speri di riconoscerla in tempo la prossima volta, la bestia, e passi perché ti vuoi allontanare immediatamente da lì. Quello non è un luogo dove gli Esseri Umani dovrebbero stare, quello è il luogo delle  bestie. E le bestie in giro sono tante, e bisogna farci caso, e bisogna imparare a riconoscerle, e bisogna guardare e passare.

Guardare e passare.

E allontanarsi il più in fretta possibile.

Senza rimpianti. 

 

 

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(977) Eureka!

Nessuno parla di quello che sta dietro all’ispirazione. Di quella cosa appiccicosa che ti intacca il cervello e che finché non sei riuscita a tirarne fuori qualcosa non c’è verso di liberartene. Nessuno ne parla. Forse perché capita soltanto a me.

Nella solitudine di questa constatazione cercherò di parlarne io. Non perché sia così interessante, ma piuttosto per la sua natura inedita. Una volta tanto parlo di qualcosa che conosco soltanto io. Entuasiasmante.

Allora, il tutto si può sintetizzare così: l’ispirazione arriva e ti lascia una gran bella sensazione. Quella cosa non ha ancora una forma, ma sai che in qualche modo una forma da lì dentro riuscirai a tirare fuori. Questo perché hai un’alta considerazione delle tue capacità (che sfiora l’autoesaltazione) e finché non dimostri a te stessa il contrario (il che non succede raramente) perseveri nella ricerca. Tieni botta perché hai fiducia in quell’energia che prima o poi ti solleverà e ti farà trovare ciò che stai cercando. Anche quando non sai cosa diavolo stai cercando. Insomma, per gli altri sei una folgorata mentale, per te è tutto nella norma quindi si procede.

L’ispirazione è veloce ad arrivare e veloce ad andarsene. Se non l’acchiappi al volo non ne resta nulla, ma diamo per scontato che ce la fai e che ora la tieni in pugno. Diamo anche per scontato che come apri il pugno, addio ispirazione. Fatto sta che giri per giorni giorni e giorni con il pugno chiuso, sperando che arrivi una buona idea che ti risolva la situazione. Giorni giorni e giorni e non arriva niente.

Niente.

Niente.

E allora il tuo umore cambia. Da sicuro e strafottente diventa buio. Poi nel buio dilaga la depressione. Che si trasforma in incazzatura, che si traduce in un odio viscerale per tutto quello che sei e che fai.

Il niente si è preso tutto. E quando ti sei stancata, deponi le armi. E lì succede.

Eureka!

Hai trovato quel che ti serve. No, non quello che pensavi ti servisse, un’altra cosa che non c’entra niente. Ma non quel niente che si sta dissolvendo, un niente che puoi modellare per far diventare qualcosa.

Ecco.

Forse ho davvero il cervello folgorato, ma le mie sinapsi seguono ‘sta dinamica per funzionare e non ci posso fare niente.

Niente.

Niente.

Proprio niente.

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(879) Loro

Quando da bambini si inizia a capire la differenza tra me e te, tu e gli altri, io e gli altri, cambia tutto. Loro iniziano a essere in tanti, perché tutto il resto del mondo è “loro”. Come si fa a maneggiare questa enorme quantità? Non si può. In fin dei conti, quando è troppo è troppo. 

Si impara, quindi, a ridimensionare quel “loro” per non farsi portare via dall’enormità. Poi si fa una distinzione: i loro simpatici, che diventano con me un “noi”, e i loro antipatici. Quelli antipatici si guardano con distacco, si tengono a distanza e quando hai le palle girate li usi come pungiball (trad. punching ball).

Così ci sono un sacco di “noi” che non vogliono avere niente a che fare con un sacco di “loro”. Si fa fatica a capire chi è dentro e chi è fuori, anche perché le regole del gioco non sono mai state scritte, si va così un po’ alla selvaggia. Puoi starmi sulle palle oggi (e fai parte dei “loro”), domani mi diventi simpatico (e ti invito a far parte del mio “noi”). Ma non farti illusioni, potrei rispedirti con un calcio in culo tra i “loro” in men che non si dica.

Al di qua della rete (o del muro) le cose possono andare bene o male, ma son cose che si risolvono tra di noi. Sono affari nostri, non loro. Altrettanto fanno loro. Ci si protegge così dai nemici, no?

A volte capita che qualcuno, alzando lo sguardo, si accorga che loro non sono poi tanto diversi da noi. Che la rete avrebbe bisogno di un po’ di respiro e un varco potrebbe essere una buona idea. Un atto di ribellione, un atto di libertà. Rischioso? Certo, rischioso. Ma chi se ne frega. Di qualcosa si deve pur morire. Morire di libertà suona bene. Meglio che morire di schiavitù. Sono già morti in troppi con i segni della schiavitù addosso, sarebbe ora di metterci un “basta” sopra. Perché loro non sono così lontani, non sono così alieni. Perché noi per loro potremmo essere una risorsa, almeno quanto loro potrebbero esserlo per noi. Certo, bisogna saper guardare oltre la rete, oltre il muro, oltre l’odio, oltre la paura.

E chi non ha paura alzi la mano.

Sì, nessuno. Proprio come immaginavo.

Nessuno.

 

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(843) Standard

La intendiamo come normalità. Una cosa, una situazione, una persona ordinaria. Già sai come inizia e già sai come finisce, quindi? Sciallo. Nel positivo come nel negativo, beninteso, perché è comunque una cosa che ci ha visti già passare, ci ha già preso le misure, e che intende replichersi così come è sua natura fare. Amen.
 
S’è capito che gli standard mi terrorizzano? No, perché sono davvero terrorizzanti, vero?
 
Viscidamente ti mettono in una situazione dove abbassi la guardia. Ti poni di fronte a uno standard con una certa remissività, abbassi la testa in un certo senso. Lui ti saluta con un famigliare “ehi, amico!” e tu rispondi con un rassegnato “ah, ciao”. Non ti permetti alcuna enfasi, lo riconosci – certo – ma preferisci essere cauto, non ti fidi. Ma cauto mica significa che già non sei entrato nel tunnel del so-già-cosa-mi-aspetta-fanculo-speriamo-stavolta-di-non-lasciarci-le-penne, anzi, te lo stai già arredando il tunnel. E tu lo sai, perché gli standard solitamente hanno un lungo iter. Richiedono tempo.
 
Vabbé, non voglio dire che stare sempre allertati ci fa vivere bene, ma il punto è che gli standard NON sono innocui. Sembrano! Solo lo sembrano, ma non lo sono!
 
Si tende a dimenticarlo perché hanno una forma rassicurante, quel già-visto-che-sta-bene-su-tutto (tipo il tubino nero di Audrey Hepburn, che però se lo indossa lei è elegante e se lo indosso io diventa inguardabile – il tubino, mica io! Eh… certo certo).
 
Ora, non lo sto dicendo per seminare il panico, ma voglio creare nei loro confronti una sorta di clima di sospetto, voglio incentivare nei loro confronti uno sguardo critico, un atteggiamento combattivo o comunque di sfida. Sì, sfidiamo gli standard! Facciamogli vedere di che pasta siamo fatti, noi che dagli standard ci siamo sempre presi le porte in faccia. Regoliamoci di conseguenza una volta per tutte: “Di chi porte in faccia ferisce, di porte in faccia perisce”, recita l’adagio. Quindi avanti tutta, senza scrupoli!
 
Io non odio nessuno, ma gli standard proprio non li sopporto. Proprio.
 
S’era capito?
 
 
 
 
 
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(797) Tacere

La gestione del tacere non è cosa di poco conto. Un maldestro calcolo dei tempi e dei modi può rovinarti la vita. All’opposto, saper maneggiare ad hoc la capacità di dosare il tacere può salvarti la vita. Quindi?

Ho una voglia maledetta di fottermene e di dire quello che penso, in questo ultimo periodo. Fanculo alle conseguenze, il tacere a prescindere – per paura delle conseguenze – può anche farti andare in pappa il cervello (per non parlare dell’amor proprio). Quindi?

Dovrei farlo, dovrei semplicemente dire alle persone interessate quello che penso di loro e del loro atteggiamento, dovrei sbattermi del politically correct e dell’educazione a ogni costo e dovrei semplicemente far presente le mie ragioni. Niente insulti, soltanto le mie ragioni – che garantisco sono piuttosto ragionevoli – e poi andarmene. Capiti quel che capiti, mi tolgo dalle balle e via. Quindi?

Quindi che ne so! Sono un’artista dello stare al proprio posto, evitare discussioni e via di questo passo. Anni e anni e anni di training. Ora vado a scoprire che questo diavolo di autocontrollo non mi ha reso che frustrazioni e furibonde incazzature con me stessa… a che pro? 

La questione delle conseguenze è bastarda perché, in realtà, non è che preventivare le conseguenze sia una scienza esatta, tutt’altro! Ti fa immaginare come potrebbe andare a finire e basta. Ti fa riflettere, ti fa valutare meglio la portata delle tue azioni, tutto qui. Le conseguenze che mi fanno chiudere la bocca sono quelle che provocano sofferenza, perché odio essere causa di mortificazione o delusione o che ne so io. Però ci sono situazioni che ti impongono di parlare, di asserire, di far presente con forza che il tuo pensiero è diverso e che la vedi in altro modo e che non ti sta bene così. 

Non mi sta bene così, non funziona con me. 

Ecco, questo potrebbe essere l’unico appiglio per incentivare in me un cambiamento di assetto senza scompigliare troppo la mia indole pacifica. A che pro? Perché tacere può sbriciolarti l’Anima oltre che il fegato. Taci quando hai torto, taci quando non hai opinioni al riguardo, taci quando ti uscirebbero soltanto cattiverie gratuite, taci quando non sei sicura di affermare il vero, taci quando quello che vuoi dire potrebbe scatenare l’inferno senza creare utilità a nessuno (magari parli in un secondo momento), taci se sei furiosa e hai pensieri confusi che uscirebbero male e verrebbero fraintesi. Ecco, questi sono buoni motivi. Ma non tacere quando qualcuno ti calpesta, quando vedi la verità umiliata, quando le bugie prendono il sopravvento, quando quello che vivi ti fa urlare “basta!”, quando qualcuno te lo impone perché pensa che tu non abbia nulla di interessante da dire. Tacere solo perché la tua coscienza te lo impone, non per altro.

Questo funziona per me. Così mi sta bene.

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(774) Fragilità

Non ci facciamo i conti, ci pensiamo Déi, poveri noi. La fragilità è il nostro limite e il nostro limite ci parla giorno dopo giorno senza che noi prestiamo ascolto. Il nostro corpo è fragile, la nostra mente è fragile, le nostre convinzioni sono fragili, la nostra fede, la nostra volontà. Tutto quello che di buono abbiamo, in un istante con un colpo di forbici può essere tagliato via. La nostra rabbia, il nostro odio, la nostra arroganza, la prepotenza del nostro volere, invece… nessuna fragilità. Tutto quello che di pessimo riusciamo a fare di noi stessi è tutt’altro che delicato, diventa un macigno che rotolando si porta via tutto il resto. Senza pentimenti, senza cedimenti. Impressionante.

Il male, ce lo raccontano al cinema, non si ferma mai. Neppure la morte riesce a fermarlo. La nostra fragilità di fronte al male si propaga in modo devastante, ci sentiamo andare in briciole anche senza morirne. Perché non moriamo? Neppure quando il cuore ci va in pezzi, quando il corpo frana, quando la mente se ne va altrove, lontano da noi, perché?

Non sarebbe meglio? Alzi le mani, ti arrendi: ok, vado, hai vinto.

Non succede, non è così facile morire. Nonostante il tuo essere debole, spezzato, annullato dalla sofferenza, resisti. Non molli. Non per tua volontà, certo, non sai il perché, sai solo che non molli. Chi sta decidendo per te? Quale Dio crudele sta appropriandosi del tuo libero arbitrio per fare di te un fantoccio dolorante con cui giocare?

Nessun Dio, credo. Piuttosto penso sia la vita. E la vita non si sceglie, ti capita. La vita c’è, oltre al tuo volere e ai tuoi desideri. Se ne frega della tua fragilità, se ne frega della tua dignità, se ne frega e basta. Perché?

Forse sa che siamo meno fragili di quel che vogliamo farle credere, che spesso ce la raccontiamo per amor del dramma, per lamentarci e per tirarci indietro dando poi la colpa a lei. Lei ci conosce, facciamo così da millenni, eppure siamo ancora qua. Forse non stiamo benissimo, ma stare malissimo è un’altra cosa. Continuiamo a prenderla in giro o ci decidiamo a crescere una volta per tutte?

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(755) Intermittenza

Andiamo a intermittenza. Andiamo a intermittenza e ci stupiamo che gli altri non stiano ai nostri luce/buio come vorremmo. E che devi fa’ della tua vita se non star dietro al mio umore? Cosa? Lo shampoo?

E finché è l’umore va ancora bene, pensiamo a cosa succede quando ad andare a intermittenza sono i nostri sentimenti. Ti amo/non ti amo, ti odio/non ti odio, ti voglio/non ti voglio, ti penso/non ti penso… delirio costante.

Se ce lo tenessimo per noi non sarebbe poi un gran difetto, ma onorandone il culto lo imponiamo a chi ci sta accanto. Lo facciamo andare su e giù come uno yo-yo, lo facciamo girare e pirlare come se fosse un burattino, lo facciamo parlare o lo zittiamo come se il suo esserci dipendesse da noi. Aguzzini spudorati, ecco cosa siamo.

Eppure pretendiamo sicurezza, solidità, coerenza, fedeltà, da chi abbiamo vicino. Se mi ami ora mi amerai per sempre. Anche se ti prendessi a calci in culo, ormai hai promesso e son cazzi tuoi. Belle cose, davvero. Facciamo della scostanza la nostra religione e calpestiamo il diritto a cambiare idea, cambiare il proprio sentire, cambiare opinione, cambiare pelle – se serve e certe volte serve proprio – di chi ci sta attorno. Tutti traditori, ma noi no.

Accendi e spegni la luce facendomi girare nella stanza e sbatto contro tutto e mi sto facendo male, ma tu accendi e spegni la luce finché mi scoppiano gli occhi e non riesco a vedere più niente. Chiamala crudeltà mentale, tesoro, non amore.

Se qualcuno avesse il coraggi di dirlo, se qualcuno avesse il coraggio di staccarsi dall’interruttore nel sentirsi rivolgere queste parole, forse – dico forse – le cose potrebbero migliorare. Voglio essere ottimista, stasera, voglio accendere la luce.

 

 

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(720) Orsetto

Non ho mai avuto un amico orsetto che mi stesse vicino nel momento del bisogno. Avevo i miei fumetti, i miei libri. Non sono morbidi, non sono caldi, sono proprio un’altra cosa. Un orsetto non avrebbe potuto rassicurarmi sul fatto che oltre a quello che conoscevo e che stavo vivendo ci fosse dell’altro, qualcos’altro di magnificamente misterioso e intrigante (come le storie che leggevo) e che quel qualcosa era lì e mi stava aspettando. Dovevo solo crescere un po’.

Ecco, questa cosa mi ha fatto viaggiare su corsie neuronali preferenziali, lo ammetto, ma nel concreto mi ha fatto sbattere il muso quotidianamente contro una realtà che non aveva nulla a che fare con quel misteroso-e-intrigante che sognavo – anzi tutto il contrario – eppure senza mai dubitare del fatto che la parte migliore doveva ancora arrivare e che mi stava aspettando.

Aspetta che ti aspetta ho affrontato diverse avventure – nel vero senso della parola – e seppur io mi sia pure divertita oltre che fatta il mazzo tanto, mai neppure per un istante quella tensione frizzante e deliziosa che trovavo in quelle storie si è verificata. Mai. Neppure da lontano. Neppure quando ero emotivamente coinvolta, niente di niente.

Ho pensato che probabilmente peccavo di sensibilità e che fosse mia responsabilità andarmele a cercare queste sensazioni mirabolanti, infatti continuavo a pensare che fossero lì da qualche parte e che mi stessero aspettando. Sta di fatto che odio aspettare senza fare niente per cui mi sono data piuttosto da fare per andare loro incontro, con molto impegno mi permetto di aggiungere. Anni e anni di situazioni assurde e spesso grottesche, di scivoloni e ridicoli errori, di incontri tristi-scellerati-stupidi-inutili, ma niente.

Quindi, facendo due conti veloci, le cose possibili sono due: o il  misteroso-e-intrigante non sono lì ad aspettarmi (e neppure sanno della mia esistenza) oppure mi stanno deliberatamente ignorando – per lecite ragioni, perlamordelcielo, ma senza un briciolo di compassione o umanità.

Qualche tempo fa decisi che mi sarei fermata, basta andare incontro alle mie allucinazioni, facciamo che il misteroso-e-intrigante non li voglio più. Un po’ mentendo e un po’ con convinzione, metà e metà diciamo. Non mi sono ancora spostata da questa perentoria autoimposta decisione, e non me ne pento. Però, stasera, stavo pensando che se fossi stata come tutti i bambini intelligenti di questa terra, mi sarei fatta regalare un orsetto perché a questo punto sarebbe lui a rassicurarmi sul fatto che anche così va bene. Non troppo, ovvio, ma potrebbe pure andare peggio.

Prossima volta nasco più intelligente.

 

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(493) Verdure

Non potrei diventare vegetariana, tanto meno vegana, ma le verdure in linea di massima mi piacciono. Odio certi sapori, però, e per quanto io mi renda conto che li posso mangiare senza morirne, li evito volentieri. Tra questi sapori c’è quello del centriolo e della verza, oltre al cavolino di Bruxelles.

Non mi faccio scorpacciate di cipolle, ma mi piacciono. Non mi mangio l’aglio crudo, ma gli spaghetti aglio, olio e peperoncino li adoro. Il basilico mi piace, ma se me ne mangio una foglia mi piego in due dai dolori – il pesto è fuori dalla mia portata, quindi. Adoro i pomodori e l’insalata, il mais e anche i fagioli borlotti, il peperoncino e il wasabi – la cucina messicana è quella giapponese sono le mie preferite.

Mi rendo conto che tutto questo discorso lascia il tempo che trova, ma. Ma invece* mi permette di agganciarmi a un concetto, ovvero: le cose sembrano semplici, ma più si aprono incisi e più si ingarbugliano. Ci sono le migliaia di eccezioni che vanno a contraddire tutto ciò che può essere contraddetto. Il mio rapporto con il basilico, per esempio: il sapore mi piace, la foglia ingerita mi uccide. Tra la bocca e lo stomaco succede qualcosa, la comunicazione si rovina e le conseguenze mi schiantano a terra. Se mangio la verza, però, mi viene da vomitare prima ancora di averla messa in bocca. Se la mangiassi non mi succederebbe nulla di male, il brutto viene prima. Che diavolo significa, dunque?

Niente di che, probabilmente. Soltanto che l’affermazione generica “mi piacciono le verdure” è priva di sostanza quando andiamo ad approfondire l’argomento. In questo senso, anche “odio questo/quello” oppure “amo questo/quello” seguono la stessa regola. Il campo lo si deve limitare se intendiamo farci capire.

Ah, tanto per essere precisi: non amo tutta la carne e neppure amo tutto il pesce o tutta la frutta. Non amo tutte le persone, non odio tutte le persone. Non amo tutto di me, non odio tutto di me. Scelgo accuratamente ogni elemento che tengo e anche ogni elemento che scarto.

La lista dei Nì è lunga, quella è una questione di umore. L’ho detto che non è semplice, eh!

 

 

* non è un errore, l’ho fatto perché l’enfasi bisogna calibrarla bene e in questo modo mi sembra di aver fatto un bel lavoro.

 

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(332) Crimine

Ogni Essere Umano dovrebbe considerarsi alla stregua di un luogo del delitto e transennarsi in modo da non permettere che nessuno oltrepassi i limiti. Perché? Perché tutti noi siamo vittime di un crimine, più o meno grave non fa alcuna differenza. Lo siamo tutti, senza distinzione di razza, di credo, di ceto sociale. Tutti.

Non ce ne rendiamo conto, ma siamo sempre così incazzati perché nel nostro subconscio lo sappiamo. Lo sappiamo, soffriamo, eppure non abbiamo il coraggio di denunciarlo: “Sono vittima di un efferato crimine e nessuno se n’è mai accorto!“.

Siamo incazzati per questo, tutti senza distinzioni di sorta. Quelli che lo sanno sono quelli che hanno subito i crimini più evidenti, dove i segni si vedono sulla pelle e ben oltre la pelle. Quando il crimine è sotto gli occhi di tutti, la società lo riconosce e la rabbia un po’ si attenua. Quel non-puoi-fare-finta-di-nulla non ti viene ributtato addosso con scherno e la tua rabbia trova un istante di pace. Se il crimine non viene percepito, riconosciuto, condannato dalla società… è come se non fosse mai successo. E qui la rabbia cova e s’ingigantisce fino a farti implodere o esplodere.

So con certezza che se non iniziamo a considerarci tutte vittime non potremmo mai provare vicinanza nei confronti degli altri. Chi si prende in carico il proprio dolore, smette di odiare, smette di covare rabbia, smette di augurare dolore al suo prossimo. Perché sa di cosa sta parlando, sa il peso di quella sofferenza.

Sto male e pertanto odio tutti? No, sto male e quindi auguro a tutti di non provare il mio stesso dolore. Tutto qui. Pertanto consideriamoci luoghi del crimine e proteggiamoci digerendo come si deve le nostre ferite. Siamo ancora qui, dopo tutto, giusto? Appunto.

 

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(188) Volto

Sinonimi di volto sono anche: animo, carattere, indole, natura. La dice lunga, vero?

Sono affascinata dai volti umani, leggerli è diventata un’abitudine intrigante. Funziona soprattutto con le persone che non conosco, in questo modo non vengo influenzata da ciò che penso di loro o da ciò che so di loro.

C’è una sorta di magia che lega il nostro mondo interiore al nostro volto. Se stiamo male i segni possono alterare non solo la nostra espressione, ma anche le sue stesse fattezze. La felicità fa del nostro volto una tela su cui posare sberluccicanti cristalli che lo illuminano come una passata di glitter.

Se è vero (e lo è) che il volto si modella assecondando il sentire, l’odio ti sfigura i lineamenti  mentre l’amore abbraccia i cambiamenti del tempo e solleva il peso degli eventi.

Il volto, la voce, gli occhi, le mani. Siamo biblioteche affascinanti, e pressocché infinite, in movimento perpetuo. Quanta ricchezza ci portiamo addosso senza neppure accorgercene!

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