(979) Assistere

Ad alcuni vien facile, io mi ci devo costringere. Stare lì ad assistere allo spettacolo, intendo. Mi viene da commentare (sarcasticamente per il 99% del tempo) e addirittura intervenire per far andare le cose come piacerebbe a me. Sì, sono insopportabile. 

Mi riesce di stare buona al cinema e a teatro. Stop. Ma perché lì mi affido all’arte di qualcuno, mi viene naturale. Rispetto il mestiere altrui.

Vivere, invece, ti impone di assistere a certe scene che neppure nel copione più idiota di tutti i tempi vedresti mai. Ci sono certi casi umani che sanno dare il peggio di sé stessi anche se imbalsamati. Stai lì e non ti pare vero. Ti fai le domande del caso e aspetti le risposte. E quelle arrivano e ti fanno imbestialire perché sono più che assurde, sono inverosimili. E in ogni diavolo di storia che sia stata messa in scena da Buster Keaton e colleghi in poi, le cose inverosimili non sono vaccate, sono pensate meglio, dirette meglio. Se vuoi portare l’assurdo in scena devi essere bravo tanto, ma proprio bravo tanto. Per accompagnare chi assiste all’apice della sorpresa, della meraviglia, della soddisfazione, devi essere un Maestro dell’Arte dell’assurdo. Studia, perdio!

Quindi mi sono imposta di assistere allo spettacolo tenendo la bocca chiusa. Nessuno può immaginare quanto mi costi. Ogni frame di questo film mi fa nascere talmente tanto sarcasmo da uscirmi dalle orecchie e… sto zitta. Zitta e più immobile possibile. Come dire a Rocky di smetterla di tirare pugni. Fuori dal mondo proprio.

Non so dire per quanto durerà, forse col tempo riuscirò a raggiungere un equilibrio tale che qualsiasi ulteriore esagerata idiozia mi rimbalzerà a tutto tondo e mi potrò dire invulnerabile. 

Oppure manderò al diavolo qualcuno. 

Eh.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(352) Fotografia

Catturi un istante e lui rimane lì per farsi ricordare. E si fa ricordare non con un’interpretazione del tuo sguardo o con una variazione sul tema, no: esattamente così come tu lo hai guardato, amato, e saputo congelare nella tua mente.

Ho mille istanti che avrei voluto fotografare della mia infanzia, ma non l’ho fatto e mi si sono congelati dentro e non mi permettono di lasciarli andare perché se lo facessero io li dimenticherei.

E la mia mente è stanca di questo carico, che è prezioso ma per niente leggero. Certe volte spero di dimenticare, altre ho paura di dimenticare e allora scrivo. Ma le parole – per quanto siano contenitore ed espansione e immersione e volo e chissà cos’altro ancora – non sono un’immagine pura, sono un piccolo mostriciattolo in movimento che può manomettere il ricordo e renderlo opaco o sfocato o distorto. Un incubo si può trasformare in sogno e un sogno in un’ossessione da incubo e tu comunque non sapresti più da che parte sta la verità.

In una fotografia la verità è lì davanti a te, immobile e pura. Tutto lì. Tutto quello che stavi vedendo e che hai voluto catturare sta lì di nuovo davanti a te, per tutte le volte che lo desideri ti ci puoi infilare dentro e trovarci un rifugio che ha il tuo sapore. Non servono parole, basta che la guardi ancora e ancora e ancora e ti si calma lo stomaco, si placa la chiacchiera della mente e il cuore un po’ rallenta e un po’ rincorre i suoi stessi battiti cercando di doppiarli, forse con una certa dose di dolore, ma di quelli diluiti, come acquerelli.

Non lo so il perché, ma così sembra meno crudele. Sembra solo un po’ meno crudele e, spesso, questo ci basta. Ci può bastare. Almeno per un po’.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF