(1039) Chiuso

A volte si ha l’impressione che basti chiudere per mettere tutto a posto. Non so se per gli altri funziona, con me funziona poco e male. Poco e male. Le cose non si mettono a posto da sole, solitamente mi richiedono parecchia fatica per sistemarsi, e mai troppo bene. Mai troppo bene. 

Ho chiuso diverse volte, pensando anche che fosse per sempre, ma mi sono sbagliata. Il per sempre è una conquista di pochi. Solitamente non mia.

Ho anche provato a non chiudere, ma non è andata meglio, è andata soltanto diversamente. Per un po’. Poi ho dovuto chiudere. Non sono fatta per le mezze misure, mi innervosiscono.

Tutto quello che è chiuso, però, fa venire voglia di riaprirlo, e non è mai una buona idea. Mai. Eppure ci si casca, si riapre, si piomba nella bruciante delusione e si richiude. Possibilmente sbattendo la porta, perché così scarichi un po’ di rabbia per essere stata un’idiota.

Tutto quello che è aperto rischia di venire chiuso. Se non lo chiudi tu e ci pensa qualcun altro non la puoi prendere bene, devi indossare i panni della vittima e farti venire una buona idea per raccontartela meglio. Non sempre funziona. Non sempre è possibile. Non sempre ti viene in mente perché sei troppo arrabbiata.

Il discorso se lo si fa scendere dal vago e generale e lo si indossa, non fa una grinza. Il punto è che tutti i giorni noi chiudiamo qualcosa e chiudiamo qualcuno fuori, e che non è detto che sia per sempre, ma pur sempre vuol dire qualcosa. E passarci sopra con leggerezza potrebbe non essere una cosa furba.

Chi sta fuori e chi sta dentro? Meglio fare la conta.

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(937) Rapire

Qualcosa che rapisce la tua attenzione è davvero qualcosa di speciale. Speciale in qualsiasi modo lo si voglia intendere, speciale e basta. Rapire l’attenzione ha a che fare con il vento, secondo me. La tua attenzione è trasportata altrove da te, ti dimentichi tutto perché in quell’istante qualcosa ha attratto ogni tuo pensiero convogliandolo su di sé. 

Solitamente lo fa la Bellezza.

È una bella sensazione, esci da te e vieni assorbito da qualcosa che – molto probabilmente – non conosci ancora, non così bene almeno da poterla dare per scontata. Esci e ti perdi. Può durare dieci secondi oppure due ore (se il film è fatto davvero bene), sei in un altro mondo. Fuori da tutto, fuori da te.

Rapire lo sguardo di qualcuno è un privilegio.

Siamo distratti da troppe cose e poco propensi ad appoggiare la nostra attenzione su qualsiasi cosa per troppo tempo. C’è sempre qualcosa di meglio, sembra che ci sia sempre qualcosa di meglio che ci aspetta. Aspetta proprio noi. Perché dentro di noi pensiamo che ne valiamo la pena. 

Non è un verbo felice, rapire, ma se lo si accompagna a “attenzione” riacquista luce. Si crea un cortocircuito di significato che ti predispone alla meraviglia.

Basta che glielo permettiamo. Di tanto in tanto. Ovvio.

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(814) Tramonto

Cessa il fare-fare-fare e si instaura dentro di te il sollievo. Ce l’abbiamo fatta a concludere un’altra giornata, in modo onorevole il più delle volte, se non altro perché siamo ancora vivi. Non è poco di questi giorni.

Si ripongono le armi – o così dovrebbe essere – e si ricerca quella condizione mentale più vicina alla pace possibile (ammettiamo che c’è anche chi la guerra se la porta dentro e ovunque, ma non tutti, santocielo, non tutti). Quando si vive il finire delle cose della giornata c’è uno sfinimento (benefico se la giornata è stata gratificante, meno se è stata un disastro) che ti fa chiudere tutto fuori. Se non altro per darsi tregua, perché di una tregua c’è bisogno. 

Il punto, forse, è: quanto riusciamo a darci tregua?

Se lo chiede una che non l’ha mai presa troppo in considerazione e ne sta pagando le conseguenze. La domanda nasce, evidentemente, da una necessità. Impellente, aggiungerei. Svegliarsi prima no? Evidentemente no. Ho i miei tempi, giurassici è vero ma sono una fan accanita del meglio-tardi-che-mai (s’era capito?).

Questa mia nuova prospettiva – che vede protagonista LA TREGUA – mi sta rivoluzionando per bene i tracciati mentali che si erano ossidati e che mi implorano di recuperarsi in lucidità. Un lavoro immane. Un lavoro che prima inizia e meglio è. Un lavoro che inizia ora. Nel senso che non posso più rimandarlo, non posso più procrastinare un vitale processo che avevo fino a questo momento sottovalutato [NB: se non la prendo così, questo buon proposito finisce nel dimenticatoio tra tre-due-uno… eh.].

Questi miei risvegli, prendendoli di petto, hanno sempre una certa portata: strutturazione, calendarizzazione, esecuzione. Il tutto comporta una pressione impressionante (e la pressione sa benissimo quanto può diventare impressionante, usa la cosa a suo vantaggio ovviamente). Il mettermi sotto pressione nel prendermi una tregua è esilarante. Devo proprio resettare i neuroni, uno a uno, e vedere cosa resta di me. Non nego di essere preoccupata. 

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(629) Fuori

Fuori può essere accompagnato da una moltitudine di piccoli e grandi concetti che vanno a rafforzare il suo stato: sei fuori quando non sei dentro. Eh, sembra facile, ma forse non lo è.

Fuori dalle regole, fuori dal mondo, fuori porta, fuori serie, fuori dal seminato, fuori fuoco, fuori sede, fuori dal coro, fuori orario, fuori tema, fuori di testa, fuori casa, fuori controllo, fuori dal tempo, fuori dal comune, fuori strada, fuori posto, fuori classe, fuori servizio… fuori dalle balle! – è un’esortazione forte e richiede sempre il punto esclamativo.

Il mio stato normale è proprio questo essere fuori, ed è una cosa sottile sottile sottile, che più cerchi di tenere in mano e più ti sfugge. Ho pensato molto al fatto che volevo venirne a capo, volevo capire, volevo trovare delle ragioni, volevo volevo volevo. Forse troppo.

La mia fortuna è che certe volte mi stanco di essere ostinata e lascio andare. No, non è che lascio perdere, mi sale il nervoso se penso a tutte le cose che ho dovuto lasciare andare o addirittura allontanare da me, lasciare perdere non è nelle mie possibilità – il rimurgino sì, quello è uno sport in cui do il meglio di me stessa. Ripenso a quello che ho lasciato andare e mi dico che avrei potuto fare diversamente, magari mi sono persa un’occasione. Stronzate, lo so benissimo, ma per un istante ci credo davvero e mi sento un’inetta. Poi passa, ma non passa mai il mio essere fuori.

Fuori tiro, fuori dagli schemi, fuori rotta, fuori gioco, fuori luogo, fuori dai binari. Fuori. Nel mio essere fuori raramente lo sono in compagnia. Ma proprio rarissimamente. A chi sta fuori come me la compagnia non fa sempre bene, il silenzio invece sì. La compagnia ideale è quella che non ti obbliga  a rientrare, quasi fosse un dovere che cerchi di schivare. Ma non è così semplice. Se stai fuori soffri il vento e il sole e la pioggia e la tempesta e non si smette mai di cercare rifugio. E quando lo trovi dura poco. Stare fuori è una condizione dell’Anima e l’Anima non si cambia, ma l’Anima – se l’ascolti – ti cambia.

Non è che è sia meglio stare fuori che stare dentro, non lo potrei mai affermare perché non so come si sta dentro. So solo che va bene comunque, basta saperlo, basta potersi vivere la propria condizione con un certo equilibrio e onestamente.

E poi c’è chi finge, in quel caso non c’è proprio niente da dire.

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(234) Drago

Se potessimo ricordare in ogni istante il potere del Drago, avremmo risolto gran parte del nostro personale conflitto interiore.

La parte malefica, dove morte e distruzione possono abbattersi improvvisamente nella nostra vita, e la parte benefica, la bontà e la fortuna a farla da padrone.

Il Drago è dentro di noi, distrugge e accudisce a fasi alterne. Ciò che distrugge dev’essere distrutto, anche se non ci piace. Ciò che rimane dev’essere curato per far crescere la fortuna che sta per arrivare.

La fortuna se non trova posto non si ferma, se ne va senza neppure salutare. Così è, non è disposta a compromessi.

Dobbiamo domare il Drago, domare noi stessi. Dobbiamo prenderci in mano e fare bene i conti, e fare bene le cose, e fare bene. Del bene a noi, anche se non ci piace. Dobbiamo.

Solo così possiamo sperare di migliorare tutto il resto, tutto quello che sta fuori e così vicino a noi che non può essere lo stesso provocare devastazione o profondere bontà e fortuna. Perché non ci mettiamo l’anima in pace e non affrontiamo il nostro Drago, ora? Perché?

Ora, non dopo. Ora. Il Drago aspetta, il Drago ha pazienza, il Drago non è la Fortuna, il Drago non se ne va.

 

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(217) Guardiani

Fare la guardia a noi stessi. Mi gira in testa da mesi questa cosa, forse buttarla giù – qui – in parole, mi darà sollievo. Provo.

Guardarsi da fuori per sistemarsi dentro, lo trovo indispensabile. Sistemarsi dentro significa trovare l’assetto giusto dove l’equilibrio regge almeno per un po’. Quando ti accorgi che non regge più, lo sistemi e procedi così ad lib finché morte non ti separa dal corpo e te ne vai dove devi andare.

Guardarsi da dentro per sistemarsi fuori, è la mossa successiva inevitabile. Valuti dove sei, ti accerti di aver raggiunto un equilibrio onorevole e ti gestisci con l’ambiente che ti circonda per come questo ti contrasta o ti supporta. Anche qui ad lib finché morte ecc. ecc.

Ora, però, viene la parte delicata: i Guardiani. Dovrebbero essere quelle maestose entità che ci tengono d’occhio, che ci dicono “no” quando il rischio è di sbriciolarci e ci dicono “sì” quando la possibilità è di elevarci. Non parliamo di sfumature, perché altrimenti il lavoro (già sottopagato e sottostimato) dei Guardiani diventerebbe un inferno (se non lo è già, poveri loro), ma focalizziamoci sulle cose grosse, quelle pietre che ci permettono di stare piantati qui nella vita. Ok, detto questo procediamo: i Guardiani – entità pazienti, severe, sapienti, giuste – stanno sempre lì/qui dentro di noi e noi li ignoriamo bellamente per la maggior parte del tempo. Non perché siano fastidiosi (i miei li trovo piuttosto sobri e finemente educati), ma perché il loro essere giusti ci fa sentire piccoli e inutili. Sempre in difetto. Però sono Giusti, però non ce la faccio a dar loro ascolto perché… perché… perché…

Eh. Perché è stancante, sfinente, sbriciolante.

Quindi, in un periodo in cui ero più sbriciolata del solito ho pensato che dovevo affrontarli: “Non è che per caso mi dareste tregua per un po’?”. La risposta è stata… giusta: “No”. Ci sono rimasta male, lo ammetto. Ho accusato il colpo, mi sono sentita incompresa e vessata – etuttoquellochecisipuòimmaginare- e poi mi sono accorta che quel No era solo l’inizio della risposta, c’era molto di più da ascoltare. Ne ho colto l’eco soltanto, perché fare la permalosa mi aveva impedito di accogliere la limpidezza del messaggio che seguiva, ma il succo credo di averlo capito: “(No), noi siamo un monito compassionevole, un riferimento a cui agganciarti quando la terra ti frana sotto i piedi, una sicurezza per restare sulla giusta via, siamo qui per afferrarti quando nient’altro lo può fare”.

Ecco, a volte non basta chiedere, devi ascoltare per trovare la chiave.

 

 

 

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(189) Osservare

Essere capace di mantenere l’attenzione dentro e fuori di me: questo è scrivere, questo è vivere. Non sempre ci riesco, mi divido tra quello che c’è dentro e quello che c’è fuori e perdo pezzi di uno e dell’altro. Questi periodi di stordimento sembrano durare un’eternità, perché quando si è divisi tra dentro e fuori non si sta per nulla bene. Il tempo si dilata mentre tu sei immobile e sospeso.

Ecco dove diventa vitale l’osservazione. Osservare anche le tue reazioni mentre sbarelli è un lavoro necessario, perché tanto quello sbarellamento finisce prima o poi e dovrai riprendere il controllo con quello che ti è rimasto.

Valutando i miei ultimi mesi posso tranquillamente ammettere che sono rimasta chiusa dentro e chiusa fuori a fasi alterne e la separazione mi ha estenuato. Riprendere il controllo diventa possibile ora soltanto perché ci sono già passata e mi ricordo come si fa, come devo fare. Lo farò. Anzi, lo sto per fare.

Tra adesso e il successivo poi, però, osservo tutto. Il mondo che attorno si muove come può e come sa, a volte mi diverte, altre mi infastidisce o mi disgusta, altre mi riempie di meraviglia e bellezza. Questa cosa rende il recupero piuttosto arduo, troppe cose tutte insieme non so gestirle.

Va bene, inizio da qui e vediamo fin dove riesco ad arrivare. Con calma, eh!

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(158) Barcollare

Mi muovo ondeggiando senza equilibrio, dentro. Fuori non si nota, lo percepisco da come il mondo si rapporta a me. Un sollievo, direi, finché non inciampo o non sbatto il ginocchio contro qualcosa, allora il mondo se ne accorge e io un po’ mi vergogno.

Non ho problemi quando la mia barchetta galleggia sopra onde e ondine e ondacce, no. Lì l’equilibrio mi si riequilibra. Folle, ma vero. Il problema sorge quando la barchetta è arenata. La terra è ferma, io dentro continuo a barcollare e perdo l’orientamento.

Non so se succede a tutti così o solo a me. Non ne ho parlato mai con nessuno, ora ne scrivo e non so quanti lo leggeranno e non so neppure se sia una buona idea scriverne per farlo leggere a tutti quelli che passeranno da qui. Infatti, potrei cancellarlo. Ma non lo farò.

Ecco spiegato perché barcollo dentro. Ora che lo sappiamo tutti ritorniamo a far finta di niente.

Grazie.

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(89) Colori

Qualche sostenitore del Vivere a Colori in giro? No, era tanto per chiedere.

I colori nella mia vita ci sono, me li curo, li noto in ogni cosa, ringrazio il cielo per questo e per le altre cose che ho, ma non disdegno neppure il bianco/nero. “La famiglia Addams” a colori farebbe schifo. Ecco: io per Morticia ho un debole. Cosa significa? Perché lo sto scrivendo qui?

Semplice: perché pensare che io possa trasformarmi in un arcobaleno di gioia e sorrisi è perlomeno fuori luogo. Nessuno che mi conosca soltanto un po’ potrebbe azzardare un’ipotesi simile. Sono fatta così. Sono malinconica, riflessiva, introversa (sì, lo sono, so fingermi estroversa quando devo, sappiatelo), amo il nero (e anche il bianco), ma soprattutto il viola. Questo è il quadro pressocché completo. Il resto sono dettagli.

I colori per me, però, sono fondamentali. Li scopro e riscopro dentro alla mia testa, dietro agli occhi, che viaggiano nella gola e vanno giù fino allo stomaco e poi risalgono. Altro che arcobaleno!

Non è che vado a sbandierare in giro il fatto che sono piena di colori, me li tengo per me, me li vivo, me li gestisco e amen. Do per scontato che mica sono la sola ad averli dentro e che la maggior parte di chi li ha dentro non ha voglia di farli uscire così alla cavolo, solo per far felice il mondo.

Il mondo spegne i tuoi colori, il più delle volte, lo sapevi?

Io lo so, l’ho sperimentato più volte e mi sono adeguata a vivere in uno stato di silente coloritura interiore. Guarda che è bellissimo, non si soffre mica. Tu dentro puoi avere tutti i colori che vuoi, rimarranno sempre brillanti e vivaci se non li dai in pasto al mondo. Giuro.

Ecco, in poche righe ho esplicitato il mio credo, quello che mi ha accompagnato fino a qui per 30 anni. Ecco, ora lo dico ma senza crederci troppo. Lo dico perché quando una decide di mettere in atto una trasformazione deve per forza mettere in gioco l’artiglieria pesante, non può nascondersi dietro un divano. Quindi lo dico: forse, e dico forse, è arrivato il momento di far uscire un po’ di colori…

Solo perché altrimenti implodo.

È mera questione di sopravvivenza.

Stop.

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