(938) Recidivo

Non vediamo le cose per come sono, vediamo le cose per come siamo.

Anaïs Nin

È la condanna, senza sconti, senza scampo. Ci ricadi, non c’è niente da fare. Magari non con le stesse modalità e non con le stesse conseguenze, ma ci ricadi. Tu pensi che sia diverso, che le nuove premesse che ti erano state presentate fossero garanzia di nuova situazione e invece no. Vivi in loop la stessa situazione che ti porta allo stesso risultato. E la delusione ti sommerge. E l’amarezza.

Decidere di fidarsi, decidere di affidarsi, decidere di restare, decidere di continuare a fare e a crederci. Poi tutto frana e tu ci rimani sotto. Inevitabile, le cose franano prima o poi. Inevitabile.

E quando stai lì sotto ti manca il respiro, il panico ti congela e cerchi forsennatamente dentro di te una via d’uscita. Prima al panico e poi alla situazione. Inevitabile.

E non è che ti sei dimenticata di quello che è stato, che ci sei già passata e che sei già una sopravvissuta, ma pensavi che fosse finita. Che non ci saresti ricascata. Nella fiducia, nell’affidarti, nel restare perché ci credi. Forma mentis da smantellare, si può? E si può vivere bene aspettandosi sempre che tutto frani da un momento all’altro? 

È il pensiero, che recidivo, continua a sistemarsi su quel concetto base malsano: le premesse erano diverse. Però peccare di buonafede non ti toglie alcuna responsabilità, al massimo ti rende patetico. E qui si cade nel tunnel dell’autocommiserazione. Il che non aiuta di certo. Damn.

Ultima considerazione: vagliare la possibilità di prenderla meglio. Così. Semplicemente. Un appunto che lascio sulla mia scrivania e che potrebbe tornarmi utile appena il panico si deposita sul fondo, lo sguardo si stabilizza e la soluzione si palesa. Perché credo che me la caverò anche stavolta.

Si può smantellare la propria forma mentis? Non credo.

 

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(478) Dolcetto

Ce la metto tutta a scovare l’aspetto consolante negli eventi bastardi. Ce la metto talmente tanto tutta da risultare patetica a me stessa. E non è affatto consolante. Nella mia stravagante forma mentis non è prevista la sconfitta totale. Francamente, non riesco a valutare una qualsiasi sconfitta come intera, completa, la considero sempre sconfitta per massimo il 97%. Sospetto il perché, però mi sembra una conclusione semplicistica e sono portata a pensare che non stia tutto lì.

Entra in ballo il concetto di umiltà, virtù della quale probabilmente sono sprovvista ma che ho in grande considerazione. Forse, quel 3% che ripara le mie sconfitte dall’essere complete è proprio il mio dolcetto. Lì ci metto quello che mi può tirar su un po’ il morale: il fatto che comunque ci ho provato, che comunque ho imparato qualcosa in più, che comunque se dovessi affrontare di nuovo la stessa situazione me la caverei meglio. Cose così, cose che mentre le pensi ti fanno sentire meno fallita, cose che ti racconti perché non vuoi infierire, hai compassione di te stessa e facendo un paio di conti non fai torto a nessuno se ti crogioli due minuti in quel benedetto 3% che ti concedi come premio di consolazione.

E non voglio dilungarmi sul fatto che nessuno mai ti offre un dolcetto quando crolli sconfitto, ti viene data una pacca sulla spalla che sa di pietà più che di comprensione, pertanto il dolcetto che riservi per te può essere il serbatoio segreto di energia a cui attingere quando tutto sembra finito.

Certo, se apri il dolcetto non trovi mai il biglietto della fortuna che ti fa fare la svolta, ma anche se disfatta mica sei così idiota da pensare il contrario. So con sicurezza che nessuna sconfitta se assorbita come totale, completa, intera, può portarti a un pensiero positivo, è sempre devastazione. E visto che di devastazione si può anche morire, scelgo una punta di arroganza zuccherina per ogni sconfitta che mi piomba addosso. Di meglio non so fare, purtroppo.

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