(600) Idiosincrasia

Detesto quando le persone urlano. Detesto me stessa quando perdo il controllo e mi metto a urlare. Mi succede raramente e – dal mio punto di vista – sempre per una buona ragione. Eppure, quando mi succede non me lo perdono.

Ci sono persone che urlano appena si svegliano al mattino, con chiunque capiti loro attorno, e che smettono di urlare quando si addormentano la sera. Urlano anche quando sono felici, perché un altro tono di voce non ce l’hanno o perché sono sorde e non si rendono conto di quanto stanno gridando anche solo per chiedere mi-passi-il-sale.

I miei vicini di casa fanno così e io sto, mio malgrado, ascoltando ogni dannato scambio verbale che accade in quella casa. Non sono affari miei, ma lo diventano se mi sveglio al mattino con il mal di testa (e non per un post-sbornia) e mi addormento con i tappi nelle orecchie perché di là c’è una riunione di capre urlatrici. State zitte! Zitte! Zitte! Zitteeeee!

La vostra voce a un certo punto ne avrà abbastanza e se ne andrà. Se ne andrà per non ritornare più e avrà la mia benedizione. La vostra voce se ne fotterà di voi, almeno quanto voi ve ne siete fottuti di lei. E io la benedirò.

Non si può buttare addosso agli altri la nostra rabbia, la nostra frustrazione, il nostro veleno, il nostro male di vivere, non si può! E se non si può farlo con gli estranei, figuriamoci con le persone che ci sono vicine, NON si può!

Sei giustificato a urlare solo se tra te e gli altri ci sono chilometri di distanza, solo se si tratta di vita o di morte. Le persone devono essere trattate con gentilezza e la gentilezza non alza mai la voce. Le persone per ascoltarti devono avvicinarsi a te, devono prestare attenzione alle tue parole e ai suoni che le accompagnano e per far sì che accada tu devi permetterglielo mantenendo il volume della tua voce in modalità normal, a volte persino soft. Non puoi sbattere in faccia frasi a 1.000 decibel aspettandoti che vengano ascoltate. La gente, sì, può fare quello che tu le ordini di fare quando glielo urli in faccia – chi non ha il coraggio di darti una testata, almeno – ma l’ascolto è un’altra cosa.

L’ascolto è il risultato di una dinamica delicata che ha origine nella fiducia, cresce nell’interesse, e si espande con l’attenzione.

Vabbé, fiato sprecato. Buonanotte.

 

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(579) Benestare

E un giorno smetti. Così di colpo. Non ti riconosci più, ma non ci pensi un attimo. Sai che è arrivato il tempo di smettere e sai che ci hai messo fin troppo a capirlo e a prendere la decisione più sana di tutta la tua vita.

Smettere di chiedere il benestare di chi ti sta attorno per fare quello che senti di dover fare per stare bene, è il primo passo verso la salvezza. Io ho iniziato a diciannove anni e non mi sono più fermata. Per questo sono ancora viva.

Non significa che non sento ragioni e faccio sempre di testa mia – ora che ci penso è così, ma posso spiegare meglio…

Non significa che non ascolto quello che chi mi vuole bene pensa al riguardo e magari i consigli che mi vengono offerti, li ascolto, davvero, li ascolto tutti. Ma faccio di testa mia. Invariabilmente. Senza cedere di una virgola. Faccio quello che la mia testa mi dice. Perché la mia testa ci ha pensato e ripensato, ha valutato, ha soppesato, ha tolto, ha aggiunto, diviso e moltiplicato. Ha fatto un salto in avanti, due di lato (ds e sn) e uno indietro; ha guardato bene, tutto quello che poteva vedere l’ha visto, tutto quello che poteva sentire l’ha sentito, tutto quello che poteva immaginare l’ha immaginato. Quello che non ha visto, sentito, immaginato è comunque lontano da me e neppure se me lo racconti mi convinci. Perché se non lo vivo non lo conosco. Tutto qui.

Ovvio che ci sono cose che non intendo vivere e di cui mi basta una vaga idea – mi serve per tenermi a distanza – ma quelle che penso facciano per me, allora sì. E lo so che potresti non essere d’accordo, che mi vorresti evitare un danno, che ti preoccupi per me. Eppure…

Eppure se io avessi aspettato il benestare di qualcuno per ogni passo che ho saputo fare, se avessi creduto a ogni spauracchio mi si fosse palesato davanti evocato da chi la sapeva più lunga, se avessi pensato che non sapevo e non potevo decidere per me e per la mia vita, io sarei morta dentro. Non avrei vissuto cose meravigliose e anche cose dolorose, non avrei capito quanto ero lì per imparare e quanto invece già conoscevo, non avrei messo alla prova tutte le mie insicurezze e i miei gap – ridicoli e non – e non avrei compreso meglio la voce che mi guida nonostante tutto e nonostante tutti, nonostante me.

Non c’è benestare che tenga. Il permesso me lo do io, per fare e per non fare. Così è. Che piaccia o no, questo non è affar mio.

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(543) Vicinanza

Non puoi fingere, non a lungo. Non puoi nasconderti, non a lungo. Non puoi mantenere alto il livello di rabbia, non a lungo. Non puoi rimanere gelido dentro, non a lungo. 

I superpoteri della vicinanza sono devastanti. E lo sanno tutti. È per questo che chi non può sostenere l’intensità che si crea la rifugge come fosse la peste.

Ecco perché chi teme di sbriciolarsi, di farsi niente, mantiene distanze siderali tra sé e il mondo. Da lontano puoi fingere, puoi nasconderti, puoi essere fuori di te dalla rabbia, puoi restare gelido e inaccessibile. Di più, ancora di più: puoi scagliarti contro chi pensi sia debole, puoi muovere qualcuno o qualcosa affinché qualcosa o qualcuno venga distrutto, puoi sputare su tutto quello che nel tuo intimo vorresti ma che non sai ottenere, puoi mortificare, puoi ignorare, puoi far scomparire girandoti dall’altra parte.

Anche i superpoteri della distanza sono devastanti. E lo sanno tutti, ma sono pochi quelli che hanno il coraggio di scegliere l’altra via perché sicuri che questa sia la più sicura. Sicuramente è la più solitaria. La distanza fa morire anche chi pensa di gestirsela bene, di avere in mano il potere per farlo senza colpo ferire. La distanza non lascia nessuno vivo: nel corpo o nell’anima.

La vicinanza sì, prima ti devasta e poi ti ricostruisce. Pezzo dopo pezzo. La vicinanza potenzia l’amore e gli affida il potere. Lo sanno tutti, ma non tutti pensano di poter sopportare tutta quella intensità. Perché sentire, intensamente, la vicinanza di qualcuno è rendersi conto all’improvviso di non essere soli.

È un vero shock, non c’è che dire.

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(252) Capolavoro

Per molti anni ho preso sul serio la fine del mondo. Nel senso che ogni volta che mi capitava qualcosa di spiacevole e doloroso io pensavo fosse destinato a durare per sempre e che la fine del mio mondo sarebbe sopraggiunta di lì a subito per stroncarmi definitivamente.

Mi sbagliavo.

Sopravvivere ai dolori è una stramberia perché ti passa piano piano la paura e diventi un po’ spavaldo e un po’ sborone. Quasi arrogante. Certamente supponente. Guardi chi si dichiara felice e privo di patemi con un certo distacco, come fosse un essere inferiore. Oppure il contrario: tutto il dolore che hai attraversato ti rimane addosso come una maledizione e muori un po’ ogni giorno, perché non vedi più niente se non quel buio che ti inghiotte.

Dove sono finita io? Ho vagato da un evento all’altro cercando di capire di cosa mi importava e di cosa potevo fare a meno, per molto molto molto tempo. Non mi sono persa, mi sono spesa, temo troppo. E quando sei esausto ti stacchi da tutto e vuoi solo dormire. Il distacco è la chiave.

Vedi un’altra piccola fine del tuo mondo, ma la distanza ti permette di non crogiolarti nel dolore o nella nostalgia. A distanza scorgi la rete intricata della tua ragnatela e ti sembra un capolavoro. Allora aspetti che la stanchezza passi perché sai che sarai di nuovo pronta a camminare. Non correre, no. Camminare.

 

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