(965) Soffio

E in un soffio vedi volare via quel che pensavi di poter trattenere per un po’, non per sempre – perlamordelcielo – soltanto per un po’. Niente da fare. Andato.

E non lo puoi sapere quant’è la frustrazione finché non la vivi. Non c’è modo per trattenere ciò che deve andare. Deve? Vuole, più che altro. È uno scontro di voleri, più o meno espliciti e più o meno consapevoli. 

E anche se trattieni il respiro, anche se fai le mosse giuste, anche se dai il meglio di te, non serve a niente. A niente. E fai presto a dire potevo fare o dovevo fare o potevo dire o dovevo dire o potevo e dovevo non dire e non fare. Perché resti sola con la desolazione che ti si ritorce contro: certo che sei tu la responsabile. Chi altro?

Basta un soffio per prendere tutto quello che sei ora e ridurlo un niente, basta un soffio e anche se lo sai non ci pensi. Ci caschi ogni dannata volta, pensi sempre: stavolta è la volta giusta. Non lo è, forse non è mai la volta giusta per certe persone. Per altre sì, ma questa è un’altra storia.

Quindi ora che un soffio ha spinto lontano da te ciò che volevi tanto e un altro ti ha spinto addosso ogni tua paura centuplicata, che intendi fare?

Forse solo non dire, non fare, non pensare. Per un po’.

E dormire. 

Il più possibile.

‘notte.

 

 

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(885) Subire

subire v. tr. [dal lat. subire, der. di ire “andare”, col pref. sub– “sotto”, propr. “andare sotto” e quindi “sopportare”] (io subisco, tu subisci, ecc.). – 1. a. [ricevere una cosa non voluta né gradita, anche assol.: s. un torto] ≈ patire, soffrire. ↓ (fam.) incassare, sopportare, tollerare. b. [accettare senza reagire] ≈ (fam.) digerire, (fam.) mandare giù, (fam.) sorbire, tollerare. 2. [dover far fronte a qualcosa di spiacevole: s. un interrogatorio] ≈ affrontare, sostenere. ↔ evitare, fuggire, rifuggire, schivare.

Già solo leggere il significato del verbo subire mi fa ribollire il sangue. La nostra esistenza è una lista pressocché infinita di cose che dobbiamo mandare giù, con cui dobbiamo avere a che fare nostro malgrado, che non possiamo schivare e non possiamo risolvere. Frustrazione a mille e voglia di spaccare tutto.

Eccoci qui. Tutti d’accordo. Spacchiamo tutto.

Andiamo oltre però. Quando subisci significa che sei convinto, dentro di te, di non essere nel posto giusto. Torto o ragione? Torto. Ti senti dalla parte del torto. Ti pensi in difetto, ti vedi debole, ti credi non degno. Subire è arrendersi. Ti arrendi all’evidenza che tu non puoi o tu non sei o tu non hai o tu non vali/meriti niente. Sbang.

La normale sopportazione, la normale tolleranza, la normale sofferenza, nessuno ce le toglie. Son quelle e basta. Quando si va oltre, però, non va bene più. Ci sono mille modi per non arrivare a quel “oltre” che ti impallina senza scampo, bisogna solo farci attenzione in tempo. Far andare oltre le cose significa subire. Rassegnarsi al non-fare, non-dire, non-pensare, non-agire, non-credere, non-sperare. Morire.

Si muore un po’ dentro. Pezzo per pezzo si spengono le lucine e rimaniamo al buio. Al buio ci si sente ancora più piccoli, vulnerabili, fragili, miserabili. No?

Diventa importante captare i segnali e fermare la valanga prima che il normale si stroppi, direi vitale. Nessuno può farlo al nostro posto. Sappiamo noi quanto è normale quello che stiamo sopportando e quanto è troppo. E quando è troppo, se rimaniamo lì senza dire-fare-pensare-lettera-testamento, manchiamo di coraggio. Non abbiamo scuse. Siamo noi a decidere. Ogni sacrosanto minuto della nostra maledetta/benedetta esistenza. Che ci piaccia oppure no.

Ma forse l’ho già detto. Ho idea che sto andando in loop. Perdono.

 

 

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(748) Radio

Stavi lì ad aspettare che qualcosa arrivasse per farti vibrare un po’. Sapevi quale emittente era più vicina ai tuoi gusti, riconoscevi quelle voci che a farti compagnia ci mettevano un istante e quando salutavano un po’ ti dispiaceva però il giorno dopo alla stessa ora le ritrovavi lì, per te. Questa era la radio che amavo. 

Non immaginavo che un giorno avrei finito con il tenere compagnia a qualcuno (magari molto lontano) allo stesso modo, in una situazione quasi uguale (il podcasting). Eppure l’ho fatto. Non da professionista, ma è andata bene uguale.

Non immaginavo che una volta appeso il microfono al chiodo avrei sentito questa nostalgia. Mi domando se sia ego o cos’altro. Mi manca preparare la puntata, mi manca creare qualche cosa che abbia senso per me e che sento il bisogno di condividere solo per il fatto che prima era soltanto nella mia testa e poi tocca le orecchie di qualcuno chissà dove e chissà quando. Non lo so spiegare meglio, forse non serve.

Non nascondo che avevo deciso di terminare la mia esperienza perché mi mancavano le forze, non riuscivo più a trovare il tempo per dedicarci quell’energia che mi richiedeva. Pensavo di avere detto tutto, molto probabilmente in quel momento non avevo più niente da dire. Mi dimentico spesso che le cose cambiano, e possono cambiare lentamente o meno, dentro di me possono cambiare molto velocemente – tanto che i cambiamenti esterni mi sembrano lunghi da morire.

Ho voglia di ricominciare a dire, di farlo meglio e di farlo ora. Non so dove troverò l’energia ma in qualche modo arriverà. Ogni partenza spaventa un po’, sembra quasi troppo quello che ci aspetta. Raramente è così.

Quindi l’unico modo per partire è… partire. Adelante Sancho!

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(341) Vortice

Cose da fare fare fare fare fare fare… cose da vedere vedere vedere vedere… cose da dire dire dire dire dire dire dire dire… o da scrivere scrivere scrivere. Una spirale senza fine che ti fa cadere giù, sempre più giù.

Me ne sono resa conto spesso e ci sono ricascata ogni volta. Non riesco neppure a immaginarmi come si può stare quando non fai niente. Voglio dire proprio niente, neppure un pensiero. Niente di niente. Non lo so.

Ho già ribadito il concetto che la meditazione non è contemplata nel mio database, come non lo è il golf, e ritorno proprio lì. Il vortice è quella cosa che tu lo sai che c’è, sai che ci sei dentro, sai che dovresti uscirne, sai che se non ne esci tu nessun’altro può farlo al posto tuo… tu sai. Eppure cadi giù.

Ora, non è che pretendo di non finirci dentro (spesso ci entro tirata per i capelli da qualcuno), ma vorrei farmi almeno furba di quel tanto che mi eviti di rimanerci troppo a lungo. QB. Ecco, se fosse per me io passerei una giornata a settimana a dormire e basta. Dormire e basta. Un altro paio a fare le cose che voglio fare e basta. Il resto della settimana a lavorare. Non mi sembra di chiedere poi molto, eppure non ce n’è, non è mai successo di farmi un mese del genere.

Mi devo impegnare di più. Tsé.

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(297) Lesinare

Non sono una che risparmia, più che altro non sono una persona che si risparmia e questo in nessuna delle cose che fa. Non va bene, me ne sono resa conto negli ultimi tempi che proprio non va bene.

Bisognerebbe farsi accorti e risparmiare un po’: in energia, in buonafede, in passione, in entusiasmo, in generosità. Non tanto, ma un po’ sì.

Il punto è che non lo so fare, nessuno me lo ha insegnato, e le lezioni ricevute non sono riuscite a farmi cambiare atteggiamento, sono soltanto riuscite a mortificare il mio scialacquarmi per un breve periodo. Sono una che impara con una lentezza esasperante.

La questione, però, ha anche il suo bel rovescio della medaglia: non vivo di rimpianti. Investendo tutto quello di cui sono capace, non posso rimproverarmi di non aver fatto abbastanza, detto abbastanza, dato abbastanza. Anche se non è stato sufficiente, era tutto quello che potevo fare, dire, dare. Aggrapparmi a questo, probabilmente, significa ostacolare il cambiamento – tipico di un toro cazzuto come sono io – e forse entra in ballo la paura di snaturarmi.

Rimango dell’idea, comunque, che lesinare su certe cose della vita me la renderebbe meno faticosa. Eppure insisto e persisto. Mah.

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(269) Assurdità

Importante recuperare il significato di assurdità, apre nuovi orizzonti:

assurdità s. f. [dal lat. tardo absurdĭtas -atis]. – 1. [l’essere assurdo] ≈ illogicità, incoerenza, incongruenza, incredibilità, irrazionalità, paradossalità, sconclusionatezza, stramberia. ↑ follia, pazzia. 2. [cosa, affermazione assurda] ≈ assurdo, (fam.) bestialità, controsenso, follia, idiozia, nonsenso, paradosso, sciocchezza, stramberia, stupidaggine.

La cosa più interessante è che ormai non ci facciamo più caso. Siamo talmente bombardati da cose assurde che ci sembrano quasi intelligenti. Potrei fare una lista impressionante di assurdità che ci vengono ripetute, e che noi ripetiamo come lobotomizzati, soltanto perché lo si dice, lo dicono, e dev’essere così. Ma è assurdo! Ah… davvero? Non lo so, se lo dicono, se si dice, se è così non può essere assurdo, ci dev’essere almeno qualcosa di intelligente anche se non è così evidente… no?

NO!

Una cosa assurda rimane assurda anche se tutto il mondo pensa che non lo sia. Il buonsenso che abbiamo preso a martellate per secoli non ha neppure più la forza di alzare la testa per ricordarci che esiste, lo abbiamo detronizzato e lui s’è arreso. E così l’assurdo ha preso il controllo, le bestialità si sono allargate, e noi non ci facciamo più caso o se lo facciamo dura al massimo due secondi e poi passiamo oltre.

Quello che ancora non abbiamo realizzato, sarebbe ora di farlo ma non è che certe cose accadono con una randellata in testa – sfortunatamente, è che assurdità + assurdità = assurdità (n)  e questo è sempre sinonimo di disastro. So che si fa fatica ad ammettere di stare pensando delle assurdità, ma riprendiamo il controllo sant’Iddio! Adesso! Subito!

Quando qualcuno sta dicendo una bestialità (o la sta facendo) è nostro dovere bloccarci e farglielo presente: quello che stai dicendo è assurdo. Punto e basta. Non serve discutere, spiegare per far comprendere, non serve, ma dirlo potrebbe essere utile. Senza neppure incazzarti, soltanto lo dici: sei assurdo. Stop.

Io lo faccio. Non ho molti amici, ma almeno non sono circondata da folli imbecilli privi di buonsenso. Amen.

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(84) Stop

Oggi ho ignorato uno stop. Oggi ho superato quella linea dove sei obbligato a fermarti. Non riesco a perdonarmelo. Sentivo solo che dovevo dire e che se non lo avessi fatto in quel momento non lo avrei più detto. Ho sentito che non dirlo sarebbe stata una mancanza imperdonabile perché era importante ed è importante non mancare di coraggio quando quello che ti viene imposto per legame d’affetto deve essere detto.

Non importa che io abbia cercato il modo giusto per dirlo. Non importa che io abbia fatto attenzione a non essere fraintesa. Non importa. Non è importante quello che io ho fatto, ma quello che ho detto. Che non poteva essere detto in altro modo perché non avrebbe sortito alcun effetto.

Ok. L’effetto sortito è stato doloroso.

C’era uno stop, di sensibilità suppongo, ho sentito che non dovevo fermarmi finché quello che bisognava dire non veniva detto. L’ho detto.

Ora mi domando: chi cazzo sono io per sentirmi autorizzata a dire?

Nessuno. Posso scusarmi per il dolore causato, non per aver detto quello che ho detto. E questo aggrava la mia posizione.

Cosa rimane? La speranza di avere torto marcio, almeno per questa volta. Me lo meriterei di brutto, questa volta.

Eh.

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