(967) Fuga

Mettere in atto una fuga comporta una certa tensione. Non basta volerla, bisogna saperla progettare nei dettagli se vuoi che funzioni. Ogni fuga che si concretizza ti tira addosso una serie di conseguenze, non tutte piacevoli. Una vera fuga, però, non prevede ritorno. Si va il linea più o meno dritta verso un futuro che ti vedrà altrove. Adiós amigos.

Non basta volerla, la fuga, devi anche essere pronto, per riuscire a metterla in atto. Potresti progettarla per anni, senza mai trovare il coraggio per farlo: fuggire è questione anche di fegato. Fuggi perché la situazione in cui stai ti è insopportabile. Non pensi a quanto ti costerà, ma pensi a tutto quello che ti risparmierai se te ne vai da lì. Questione di sopravvivenza, no? 

Se te la prepari davvero bene, non lasci dietro di te la devastazione. In questo senso non è codardia, fai solo quello che se ne va. E qui si riconosce l’artista dal mentecatto. Palesemente.

Io sono una specialista della fuga mentale, che comporta meno rischi ed è meno eroica, ma se la sai gestire bene dà grandi soddisfazioni. Virtualmente parlando è ciò che rende l’uomo libero, l’andare con la mente altrove intendo. In ogni contesto la si può applicare all’insaputa degli altri e senza colpo ferire. È un sofisticato escamotage che ti permette di non delegare responsabilità e scaricare addosso agli altri fardelli tuoi, ma che aiuta a non andare fuori di testa e commettere sciocchezze inenarrabili. Vi ho convinto?

Ecco, perché forse forse forse lo faccio troppo spesso ultimamente. Se ho convinto voi, però, posso convincere anche me stessa. Alla fin fine che sarà mai? Un po’ di distrazione, un po’ di dispersione, un po’ di disorientamento. Solo un po’. 

Eh.

Adiós amigos.

 

 

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(764) Canestro

In questo momento vorrei parlare di molte cose perché oggi ho molte cose da dire, ma sono tutte confuse, sono tutte accavallate una sopra l’altra e non riesco a metterle in ordine. Non riesco a scriverle. Non è tempo, evidentemente. La scrittura mi ha insegnato la pazienza e mi ha anche insegnato ad arrendermi di fronte all’evidenza: i tempi non sono quelli che voglio io, sono quelli che vuole lei (la scrittura appunto).

Mi ronza in testa però l’espressione “fare canestro”, che è qui per dirmi qualcosa, anche se non so di preciso cosa. Forse si riferisce a quando ho una sensazione e questa si rivela esatta. Quando inquadro una situazione e questa si palesa in tutta la sua natura. Quando dico e si avvera. Penso e si concreta. Taccio e si conferma.

Sono certa che succede a tutti, non è che sono dotata di poteri paranormali, ma forse non tutti se ne rendono conto perché gli non prestano attenzione. Per quanto mi riguarda quel fare canestro mi permette di non dare per scontato certi dettagli, quelli che mi stanno parlando e che io sto leggendo e interpretando.

Mi sembra assurdo, ma è corretto. Dubito della mia lucidità, ma è corretto. Metto in discussione ogni grammo di me stessa, ma è corretto. Corretto non significa Hurrà che bello!, potrebbe anche evidenziarsi come una brutta cosa (anche molto brutta), ma rimane corretto il messaggio che ho intravisto e la realtà non si cambia. Fortunatamente sono abbastanza vecchia per sapermi arrendere all’evidenza.

Faccio canestro spesso, ma non c’è nulla di che vantarsi, c’è solo da prestare attenzione perché si è sempre sul punto di prendere un granchio. Discernimento e cautela permettono al messaggio di farsi chiaro al tempo giusto, né prima né dopo. Solo che una volta che lo hai letto, girarsi dall’altra parte è codardia e con questa ci devi per forza fare i conti anche se pensi che nessuno se ne sia accorto.

Fare canestro… Eh. Davvero una bella cosa.

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(759) Via

Finché non parto non è detto che io voglia partire. Se ancora non sono partita è perché qualcosa non mi torna, qualcosa non mi convince, ancora non ho il quadro completo della situazione, ancora non sono pronta. Partire impreparata non è contemplato dal mio DNA, semplicemente.

Come faccio a sapere che non si tratta di pigrizia o di codardia? Me lo sento. So bene che sono pigra e so bene che posso peccare di codardia pertanto mi tengo ben monitorata (vorrei non fossero limiti quindi sto cercando di lavorarci per depotenziarli nella loro forma più acuta). Riconosco il perché del mio rimandare quando una cosa che mi entusiasma perde lo smalto senza alcun motivo. Inizio a dubitare di quello in cui mi andrò a buttare, inizio a farmi alcune domande topiche, inizio a sondare con la mente tutte le complicanze della situazione. Un’analisi piuttosto certosina che potrebbe prendere più tempo del previsto, ma se la supero e mi ritorna il fuoco, allora parto.

Pronti, attenti… via!

Se parto, non mi fermo finché non arrivo alla meta. Ci posso mettere un mese, un anno o una vita, se parto allora arrivo anche. Poco ma sicuro. Non manco di tenacia, spirito di sacrificio e follia. Non manco di pazienza e perseveranza. Non manco di inventiva per risolvere problemi e saltare ostacoli. E poi, la cosa più importante di tutte: se prendo un impegno non mi rimangio la parola. Il che non sempre è un  bene, non sempre è intelligente, quasi mai è comodo, ma l’impegno preso significa tutto. Nel bene e nel male.

Iniziare per me non è mai un caso, è una scelta ponderata. Ci metto in conto le mie supposte capacità, oltre che il mio reale interesse, perché devo essere davvero convinta per poter completare il percorso. Se parto già dubbiosa so che non avrò la forza di mantenere quanto promesso. Mancare alle promesse mi causa uno sconforto senza fine, preferisco evitarlo.

Tutte queste chiacchiere per dire una cosa e una soltanto: partire è una faccenda seria. Si parte quando dentro di noi sentiamo quel click, quello dell’interruttore, che ci accende come una miccia. Il pronti-attenti-via solitamente è un sussurro, ma ha la forza di una rivoluzione. Sappiamo che da quel momento in avanti potrà succederci di tutto e che dipenderà tutto da noi. Se parti con altri presupposti, preparati a fermarti al primo pit-stop. Definitivamente, però.

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(372) Omettere

Un verbo di un certo peso. Può rivelarsi un’arma a doppio taglio, eppure nel tempo ho imparato a rivalutarlo. Ci sono casi in cui glissare ti aiuta a evitare una guerra atomica – glielo direi volentieri ai due idioti che stanno tenendo in scacco il pianeta in questo periodo – e una guerra atomica significa morte per tutti – anche dei succitati idioti.

Quando ho pensato che la pura onestà di pensiero potesse essere espressa anche al di fuori delle mura domestiche ho provocato devastazioni. E non esagero. In quei frangenti, molto probabilmente, avevo sovrastimato la fibra di chi mi stava di fronte – è vero, doppio errore – ma sono pur sempre una persona che tende al fatalismo e se mi ci abbandono la cautela friulana va a farsi fottere.

Omettere di dire esattamente come la pensi, certe volte è lecito. In generale, però, è da codardi e lo penso anche adesso e nonostante tutto. Tornassi indietro direi le stesse cose per ottenere gli stessi risultati catastrofici, soltanto per il fatto che le persone che si sono sentite devastate e che mi hanno giurato odio eterno sono uscite dalla mia vita e la mia vita ne ha beneficiato parecchio.

Omettere di agire, di prestare soccorso o di intervenire per aiutare qualcuno, di parlare per difendere un principio sacrosanto o un diritto altrettanto sacrosanto o una persona indifesa o un ambiente naturale in pericolo, è da pezzenti. Non sto parlando di situazioni del genere, sto parlando di questioni di minor importanza, dove il non dire può fare enorme differenza. Non dire a uno stronzo che è uno stronzo se questo stronzo ti può tirare un pugno in faccia e farti secco, non è codardia, è buonsenso. Non significa che per evitare il pugno tu debba sorridergli e schierarti dalla sua parte, ovviamente, ma se eviti di dirgli stronzo e lo affronti con astuzia, giochi meglio. La tattica giusta ti fa vincere la guerra e la guerra (come diceva Sun Tzu) si vince prima di scendere in campo per la battaglia.

Non vado in guerra, mai, ma ho imparato che in battaglia l’ingenuità si paga cara e che poi non c’è rimedio che tenga.

Ecco.

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(245) Ordinare

Mettere in ordine. Arrivo fino all’esasperazione, poi metto in ordine. Dal preciso istante in cui inizio arriva piano piano e inesorabile il sollevamento. Respiro meglio.

Mi arrabbio con me stessa per aver atteso tanto, ma forse è così che funziono e non ci posso fare niente. Conclusione troppo comoda? Forse. Assicuro che non è affatto comodo il tormento che ci sta in mezzo, però. Leggera forma di masochismo? Eh, vabbé, mi arrendo.

Mettere in ordine, per me, significa fondamentalmente buttare il superfluo e la scelta di ciò che è superfluo mi è fastidiosa, a tratti dolorosa. Il caos, a modo suo, può essere confortante. L’ordine no. Non è per nulla confortante, l’ordine è crudele, ti fa vedere esattamente tutto ciò che c’è e ciò che non c’è più.

Non fa piacere a nessuno questo tipo di crudeltà… soltanto ai masochisti. Quindi? No, forse sono pigra e codarda, ma non masochista. Ecco.

Mi sento meglio? Ni. Ora che ho visto e scelto, mi prendo il mio carico odierno di crudeltà sulle spalle e cerco di smaltirlo con un buon sonno. Di più non so fare.

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