(884) Pezzo

Non capisco mai tutto insieme. Capisco un pezzo per volta. So per certo che esistono persone che capiscono tutto insieme. Quando capiscono, capiscono l’intero e capiscono la sostanza e magari anche i dettagli. Tutti interi. Eh.

Io capisco i pezzettini. Capisco i dettagli. Poi quando ne accumulo un po’ li metto insieme e compongo l’intero. Maledizione, mi ci vuole un tempo lunghissimo per arrivare all’intero. Lunghissimo. Intanto la vita se ne è già fatta tanta di strada e io arrivo, dopo. Esausta. Ma con l’intero in testa e in mano (almeno quello). 

Non è che questo processo sia necessariamente sbagliato, ho i neuroni che ho mica posso fingere altro, ma capire l’intero in un colpo solo credo sarebbe bellissimo. Bellissimo. Non sempre magari, ma qualche volta sì. Maledizione qualche volta sì!

Negli anni ho accelerato i tempi, perché un po’ più furba sono diventata, almeno so dove iniziare a guardare per venirne a capo, ma mai abbastanza. 

Però. Però a volte intuisco. Da un pezzettino intuisco come andrà a finire. E lì, in quell’intuizione non ho rivali. M’arriva come un fulmine che scarica sul mio neurone più sveglio una bella scossettina e… zak! So come finirà il film. Siamo soltanto alla prima scena, forse alla seconda, e io so già come finirà. Magari senza prove, magari senza giustificazioni plausibilissime, magari a volte con sensazioni sgangherate, è vero lo ammetto. Ma ci azzecco.

A questo punto la domanda: dirlo o non dirlo?

Cassandra, per quanto facesse, non veniva ascoltata, non veniva creduta. Cassandra sapeva, oltre che intuire lei sapeva, e parlava e non veniva minimamente considerata. Anzi, veniva giudicata da tutti una che le sfighe le chiama per nome e se le porta a letto. Benissimo. L’ho scritto con cognizione di causa (permettetemi l’azzardo, lo faccio spesso). Valutando la mia condizione il “dire” non è mai indolore. Prendo quella via del “vaffanculo” con tornanti a 90° a doppio senso che arrivano al picco del “ti butto giù/mi butto giù”  (mai troppo comodo stare lassù in bilico).

Quindi tacere? Eh. Cassandra non ci riusciva. Ce la metteva tutta, ma non ci riusciva. Ecco, chiamatemi pure Cassandra, ma io non penso che tutto sia scritto, per questo non starò zitta. Mai. 

 

 

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(204) Ehmmm…

Perplessità. Ci sono volte in cui ho bisogno di tempo per farmi un’idea e quindi rimando la chiacchiera. Ci sta, è una cosa che ho imparato con gli anni e l’esperienza: se non hai le idee chiare (anche se non necessariamente definitive) stai zitta. Cosa ben diversa quando il pensiero è nitido, tagliente, impietoso e decido di evitare di aprire bocca per non farlo uscire. Solitamente scatta nel mio interlocutore un violento istinto kamikaze che lo spinge a provocarmi finché sbotto e ciao. La catastrofe mi si palesa davanti e l’inevitabile accade. E accade sempre.

Da dove nasce quindi la mia perplessità? Da un semplice dato di fatto: appurato che potrei essere ribattezzata Cassandra visto il numero infinito di volte in cui ho detto una cosa sensata (se non addirittura intelligente) senza essere minimamente presa in considerazione se non dopo che la conseguenza si sia resa evidente (nove volte su dieci era prevedibile, niente di trascendentale), mi chiedo perché io continui a crollare quando riconosco l’arrivo della provocazione anziché girarmi e andarmene?

Lo ignoro bellamente.

Dev’esserci qualcosa che mi scatta dentro e che mi inibisce la comunicazione sinaptica, immobilizzandomi gli arti e al contempo sciogliendo la capacità dialettica per far uscire quei pensieri, esattamente quelli che producono la catastrofe anche se soltanto io ne conosco la portata – che va ben oltre quel che si vede.

Partendo da questa lecita perplessità, la domanda nasce spontanea: perché non appellarsi a quel soprascritto Lo ignoro bellamente e forzare un cambio di dinamica che si basi sul vuoto – di conoscenza – anziché sul pieno?

Ehmmm… perché sono Cassandra e alla Ruota del Saṃsāra gliene frega un cavolo di farmi vivere tranquilla. Ecco.

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