(1050) Crescere

Credo che ogni crescere sia accompagnato sempre da una sana ambizione. E credo che se è davvero sana questa ambizione, non si smette mai di avere voglia di crescere. Sempre meglio, sempre un passo oltre a dove pensavi fosse il tuo limite. Se ti manca questa spinta allora potresti fermarti prima ancora che il tuo cuore si dichiari pronto per il riposo eterno. Ed è un peccato.

Mi fa specie rendermi conto come certi miei coetanei si siano adagiati sul proprio status senza avere più voglia di niente, se non di aprire un bar su una spiaggia tropicale e vivere mezzi nudi e intontiti dai cannoni. Cavoli. Bella vita. Complimenti.

Io dopo nemmeno una settimana mi metterei a progettare qualcosa da realizzare da lì a un un mese, m’inventerei una sfida impossibile giusto per non morire di troppi tramonti incantevoli e oceano sfavillante.

Che dire della crisi di mezz’età? Anziché avanzare onorevolmente si desidera tornare indietro, a quando si era giovani e idioti e non si apprezzava nulla perché la vita ci avanzava e pensavamo di essere eterni. Le corse in moto senza badare alla segnaletica, le notti nei locali a fotterci il fegato con l’alcool (e non solo) e le scopate con chi il giorno dopo non vuoi neppure salutare incontradolo per strada… che divertimento, vero? E ritornare lì, in quel punto della crescita dove non hai ancora capito un cazzo, quando la vita ti ha già insegnato e tu hai già capito tanto e dovresti averlo capito una volta per tutte, non è uno spreco?

Anni per rendersi conto di come vivere vada oltre allo staccare il cervello e non pensare più a niente, anni per accettare che la libertà ha anche una faccia oscura, e butti tutto nel cesso perché hai paura di morire. Tanto muori lo stesso. E morire da idiota non è per nulla edificante.

“Morire con gli occhi aperti”, raccomandava Marguerite Yourcenar e lei era mille anni avanti a tutti, la sua crescita è stata così potente e così enorme che nessuno potrà mai cancellarla. Ecco, questa è l’ambizione sana di cui parlavo. Questa.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(995) Tè

Per chi manca di fantasia il tè è quello pomeridiano accompagnato dai pasticcini. Per chi manca di fantasia il tè è quello verde o al gelsomino o quello nero (quasi imbevibile). Per chi manca di fantasia il tè lo prendi con lo zucchero, magari un goccio di latte (ma perché?!). 

Per chi abbonda di fantasia il tè è un concetto e te lo prendi quando hai voglia tu e come ne hai voglia tu, anche avessi voglia di farti un frullato di prosciutto e melone, se per te quello è il tè, allora quello è. E nessuno fiati.

È una questione di visione. Il tè è la pausa. La pausa per ogni idiozia ti venisse in mente perché ti serve per staccarti dalla realtà. Entri in una sorta di sospensione meditativa (che non è l’abbiocco) e ti concedi una fuga. Il tè è una filosofia che sottende ogni desiderio, perché i desideri prendono forma lì, nella sospensione del tè. 

Questa cosa che il tè lo devi consumare con un ospite è fuorviante. Non è una riunione di pettegolezzi e fiumi di lamentele che ci si butta addosso l’un l’altro, il tè è leggerezza. E se sei stanca dopo che hai fatto ‘sto meeting, che chiami tè con le amiche, è perché il tè non si prende così. Così si fa un aperitivo, con tanto alcool in programma, non un tè! È l’alcool che ti permette di sopravvivere alle miserie messe sul piatto (le tue e quelle non tue). Bisogna rendersi conto che non ci si può sommergere di miserie tutto il giorno e il tè ti permette di sottrarti per un po’ a quel flusso disumanizzante. Chiaro?

Quindi, ripetiamo tutti insieme: il tè è quello che pare a me, e nessuno fiati.

 

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(669) Cibo

Credo sia l’argomento più delicato che si possa toccare – escluso il tema delle religioni – con chiunque. Ognuno ha la sua teoria e ognuno ha la sua pratica, ognuno si sente punto sul vivo quando un commento anche innocuo sfiora l’argomento e ognuno ha prove certe e insindacabili che si può morire di un certo alimento o dell’altro, tutti esperti, tutti scienziati. Tutti.

Io no. Ho provato una volta sola in vita mia a seguire una dieta, poteva funzionare, certo, ma non ha portato risultati duraturi e soddisfacenti, ma mi ha fatto odiare i ceci (ndr. è una lunga storia). Il punto è che più uno mi impone di evitare certi alimenti e più vengo presa dall’ossessione per quesgli stessi – che magari prima non avevo mai considerato. Psicologicamente parlando sono da manuale, nei fatti mangio quello che mi pare.

E non mangio fino a scoppiare, no. E non mangio come un uccellino, no. Mangio le quantità di cibo che mi sento di mangiare in quel momento, mangio se ne ho voglia e se non ne ho voglia salto il pranzo o la cena. Sempre la colazione, fare colazione per me è la morte. Puoi ripetermi allo sfinimento che la prima colazione è il momento topico della giornata, non me ne frega niente. Al mattino non ho voglia di mangiare nulla, e non mangio nulla finché il mio stomaco non mi fa capire che ha bisogno di essere riempito.

Non sono vegana, né vegetariana, né fruttariana, né crudista, né mangio carne ad oltranza oppure pesce… sono una banalissima onnivora. Onnivora, ma con gusti ben precisi. Soltanto certa carne, soltanto certi tipi di pesce, la frutta quasi tutta, i formaggi molti ma non tutti, la verdura sì ma non tutta e non sempre, evito gli insetti e animali troppo esotici o quelli che proprio non me la sento di mangiare perché preferirei averli come compagnia. Dipende dalla stagione, dipende dall’umore, dipende da come sto fisicamente, dipende da quello che c’è e da quello che non c’è, dipende. D-I-P-E-N-D-E.

Non tutti i giorni ho voglia di mangiare le stesse cose, non tutti i giorni mangio le stesse cose o le stesse quantità o le stesse varietà di alimenti. Il mio quotidiano non è regolato come se fossi arruolata nei marines o come se fossi una modella, sono una persona normale e come tale mi gestisco: a seconda di come mi gira.

Non faccio abuso di cibo, né di alcool, né di cioccolato, né di caffè. Quando esagero mi rimetto in riga senza bisogno di farmi pesare da qualcuno che mi vuole magra, che mi vuole far perdere un tot di chili alla settimana – cascasse il mondo – e se così non avviene mi si rimprovera del fallimento del programma alimentare deciso con bilancini e strategie nutrizioniste. Io non ho intenzione di piegarmi a nessun regime, neppure quello alimentare, serve dirlo?

Il Dalai Lama ha affermato che qualsiasi cibo gli venga offerto lui ringrazia e mangia. Non tutti hanno la fortuna di poter mangiare tutti i giorni, sarebbe un disprezzo per chi non può. Sono d’accordo. Nient’altro da aggiungere.

Il cibo è sostegno ed è piacere. Giù le mani dal mio cibo. E non sto scherzando.

 

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(653) Jazz

Un ricamo, un volo con ritorno e nuovo volo, un dare per raccogliere altrove, un passo e poi un altro in direzione arzigogolata, ma efficace. Tenere il ritmo a suon di Jazz è un’impresa. Ma si può fare.

Devi solo essere disposto a rischiare un po’. Ti affidi al Cielo e a quel che verrà.

In questi giorni sto vivendo un’avventura Jazz che non mi sarei manco mai immaginata, a raccontarla ora mi vien difficile perché ne sono immersa fino oltre il collo e le parole vanno dove vogliono senza chiedermi il permesso. Non ho voglia di fermare i pensieri, non ancora. Allora perché sono qui a scrivere? Perché il mio impegno l’ho preso sul serio, mi ero promessa che nonostante tutto lo avrei fatto, anche quando completamente incapace di tenere le briglie in mano – nonostante non abbia bevuto un solo goccio d’alcool. Eccomi qui, allora.

Avere la festa nel sangue, le orecchie alla Dumbo che sventolano seguendo note e voci. Così mi sento.

E mi rendo conto che si tratta di uno stato d’animo benedetto che dovrei metterlo al sicuro per tirarlo fuori quando l’energia scarseggia, quando il grigio sale al trono usurpando il potere, quando le risorse mancano così come manca l’aria. Dovrei pensarci ora, ma come si fa?

Rincorrere il cuore che saltella? Domare i neuroni che sfrigolano? Ma perché? Lascia che il caos faccia il suo lavoro, ci sarà altro tempo per rimettere in ordine.

And all that jazz!

Come on babe, why don’t we paint the town, and all that Jazz
I’m gonna rouge my knees and roll my stockin’s down
And all that Jazz
Start the car, I know a whoopee spot
Where the gin is cold but the piano’s hot
It’s just a noisy hall, where there’s a nightly brawl
And all – a-that – Ja-yazz
Slick your hair and wear your buckle shoes, and all that jazz
I hear that Father Dip is gonna blow the blues, and all that jazz
Hold on hon, we’re gonna bunny-hug
I bought some aspirin down at United Drug
In case we shake apart and want a brand new start
To do – a-that – Ja-yazz
No I’m no-one’s wife, but oh I love my life
And all… that… Ja-yazz… that Jazz!

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(578) Isolamento

Una condizione che, se volontaria, ti serve per ricaricare le batterie. Non è che odi l’Umanità, è che in questo momento non riesci a sostenere l’intensità delle cose e ti concedi un po’ di tempo per recuperare le forze. Tutto qui.

Essere sempre presenti, sempre disponibili, sempre al top, non è sano. Essere indisponenti, perché stanchi o scazzati, quando siamo in compagnia, non è bello. Non è che il mondo deve comprendere il tuo stato d’animo, basta che tu te ne resti con te stesso, in un luogo dove non dover essere diverso da quello che sei.

Tutto molto semplice e tutto molto comprensibile, vero?

Eppure, ci sentiamo in dovere di esserci sempre, lì in mezzo, come se il mondo senza di noi arrancasse. Non è così. Il mondo anche senza di noi avanza implacabile e, spesso, manco se ne accorge che manchiamo. Questo ci fa male? Ebbé, è una delle grandi lezioni da imparare: tutti utili, nessuno indispensabile.

Pensa che sollievo saperlo e che sollievo accettarlo. Non devi sentirti in colpa se non sei in sintonia con il buonumore generale. Se quel casino è troppo per riuscire a sopportarlo non serve che ti attacchi all’alcool, fatti una bella dormita. Pensa. Pensa liberamente, a occhi aperti o chiusi, pensa a quello che vivi, a quello che vuoi, a quello che vuoi fare, a quello che vuoi essere. Pensa. Non fa male pensare, anzi.

Una volta ricaricate le batterie ti ributti nella mischia, guardi le persone negli occhi per capirle un po’ meglio e non per mandarle al diavolo. Capita così quando siamo padroni del tempo che viviamo e non succubi di regole che non ci appartengono e – soprattutto – che non sono fatte per noi.

Possiamo scegliere. Sempre, anche se non sempre siamo disposti ad accogliere le conseguenze delle nostre scelte. Ma se lo fai pensandoci, sei pronto a tutto. Senza lamentarti e senza dare la colpa a nessuno. Libertà? Sì, grazie.

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(450) Cocktail

Mescolare le cose, gli elementi, le percezioni, le realtà, le occasioni. Mescolare è pericoloso, può uscire fuori una schifezza, ma se non ci provi non puoi sapere quale sarà il risultato. Potrebbe rivelarsi come una gran bella sorpresa e tu te la saresti persa per cosa? Soltanto per paura.

Quando ti butti nell’eseguire l’operazione di miscelamento devi tenere conto del dosaggio degli elementi, devi tenere sotto controllo il colore, il sapore, il tenore di quello che stai creando. Più lo fai, più spesso ti ci metti, prima ti fai l’occhio. Più prendi confidenza con il gesto del mixare e più te ne freghi della possibilità che esca una schifezza perché le probabilità si assottigliano. Pratica, un pizzico di talento, un chilo di voglia di mettersi alla prova, tutto qui.

Ovvio che la scelta degli elementi da combinare è parte fondamentale su cui poggiare il resto, non c’è neppure da dirlo. Ovvio che la scelta dipende da chi siamo e da cosa vogliamo e non vogliamo. Ovvio che si possa imparare a scegliere meglio, sempre meglio, come succede per il mescolare gli elementi scelti.

Detto questo, prima di crollare sulla tastiera per il cocktail di stasera – che era strepitoso – e per la giornata piuttosto intensa (soprattutto emotivamente parlando) vorrei arrivare al punto. Il punto mi si sta spostando di riga in riga sempre un pezzo più avanti e non credo di avere troppe possibilità di acchiapparlo, almeno non ora, non stanotte.

A mia discolpa posso dire che sembrava una buona idea parlare di mescolare le cose quando mi sono seduta qui al computer e forse la parte importante l’ho già scritta senza – forse – per questo essere arrivata a nessun punto. Trovo la cosa non solo insolita per quanto mi riguarda, ma anche del tutto positiva.

L’ho già detto che il cocktail era buono? E pure piuttosto alcoolico.

[sbam]

Share
   Invia l'articolo in formato PDF   

(375) Lisergico

Rifuggo per natura tutto quello che chimicamente può spingere oltre le mie sinapsi. Ho sempre avuto la sensazione che basterebbe una spinta un po’ più forte e per me non ci sarebbe ritorno. Credo anche che rientrare in una realtà/gabbia dopo che ti sei fatto un bel volo sia il modo migliore per non voler più ritornare in quella gabbia. In poche parole: accetto la mia condizione e cerco di fare tutto quello che posso per non morire soffocata. Per esempio, scrivo.

Non giudico chi vola al di là di se stesso usando metodi pericolosi, penso soltanto che non ne valga la pena. La vita reale non fa schifo, a meno che tu non voglia solo vederla e viverla nei suoi momenti peggiori.

Ho fatto scelte diverse da molti miei coetanei, né migliori né peggiori, e nel bene e nel male mi posso prendere tranquillamente tutte le responsabilità del caso. Ero in me, non ho giustificazioni. Ero in me, non ho meriti pazzeschi. Ero in me e ho sperato che bastasse. Molte volte non è bastato, essere me non è il modo migliore per raggiungere risultati esorbitanti. Essere Einstein sicuramente sì.

Tutto questo pensiero grottesco m’è uscito da non so dove, forse da un commento che spesso ho colto di qua e di là riguardo a quanto faccia bene questo e quanto faccia male invece quello (marijuana vs alcool) e io non so mai se posso dire quello che penso oppure no, perché ogni volta che estrinseco il mio modesto pensiero qualcuno si incazza e mi dice che sono una bacchettona. E a me la marija mi fa vomitare e la grappa mi fa sputare i polmoni, non ci posso fare niente.

Mi domando, però, perché se sono in una stanza – sobria tra ubriachi – devo essere io quella che si scusa. Sicuramente sono io quella che se ne va. Ma senza rancore, solo un po’ perplessa su come le cose si ribaltino in fretta e io riesca a finire sempre con il culo per terra.

C’est la vie.

 

Share
   Invia l'articolo in formato PDF