(1092) Ruscello

Sono abituata a pensare ovunque mi trovi, nel senso che riesco ad estraniarmi dal mondo e immergermi nei miei pensieri a piacimento. Tranne che nella sala d’attesa di un medico, di un pronto soccorso o di un reparto d’ospedale. Lì non ci riesco. Credo sia una questione energetica, di quel che di pesante si porta appresso la sofferenza umana formando una cappa di cemento che non ti permette di alzare la testa né fuggire.

M’è capitato di essere ricoverata per una settimana, accertamenti su accertamenti, e mi son detta “bene, avrò tempo per starmene in pace a pensare”. Mi sbagliavo. Sono entrata con l’andare delle ore in una sorta di stato cerebrale anestetizzato che mi annichiliva il volere. Iniziavo a pensare e poi mi perdevo. Bloccata in un limbo appiccicoso di morte prematura. Non riuscivo a ridestarmi, i giorni sono trascorsi e, tra un prelievo e l’altro, non avevo fatto altro che dormire (anche da sveglia). Ma come?

Vabbé, comunque ci sono volte in cui mi piacerebbe sedermi su una panchina all’ombra di un salice davanti a un ruscello e farmi trasportare via. Se hai davanti a te dell’acqua che scorre placidamente non puoi far altro che seguirla, no? E qualcuno potrebbe dirmi “medita!” e ti risolvi il problema. Ennò! Mi innervosisco, comincio a sentire ogni millimetro del corpo che mi chiama e mi prenderei a sberle.

Ripeto: davanti a un ruscello sotto a un salice – anche senza panchina – e il vento tiepido che muove le cose. Questo voglio, mica la luna!

 

 

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(888) Venezia

Ognuno di noi ha una sua Venezia dentro il cuore. Con i canali, tanta acqua, palazzi che fanno sognare un tempo passato un po’ più felice (forse) e… tanti turisti che rompono le palle sparsi in giro.

Il tuo luogo non è mai incontaminato. I turisti sono ovunque. E la cosa peggiore è che tu sei il turista nel luogo speciale di qualcun altro. Noi Esseri Umani siamo nati per darci il reciproco tormento. Innegabile.

Sto divagando, ero partita col pensiero che una Venezia sia per forza di cose irriproducibile (nonostante ci abbiano provato anche con risultati notevoli), perché quella malinconia sognante che puoi grattare giù dai muri, raccogliere da ogni pietra, acchiappare al volo dalle gocce d’acqua che schizzano al passaggio di un traghetto, quella cosa lì non la si può inventare. Non la si può ricreare. Non la si può dimenticare, una volta che l’hai incontrata.

Come certe persone che sono passate attraverso di te, che le hai sentite con tutto il corpo e che per quanto tu faccia non le potrai mai sostituire, le puoi solo ricordare con struggente nostalgia.

E ci sono cose che davvero non ritornano e cose che ti si presentano davanti con abito nuovo, ma sono sempre le stesse, e tu non sai se abbracciarle o mandarle al diavolo.

Sono spesso presa dallo Spleen, un tormento che ti parla di quello che non c’è mai stato e che si continua a desiderare perché lo si immagina perfetto. Lo so, un’enorme perdita di tempo, ma neppure me ne accorgo. Ci casco dentro e bon, ci rimango per un po’, finché non mi stanco e ricomincio. Un’autoindulgenza che fa poco bene, ma anche poco male, e allora chissenefrega. Di qualcosa dovrò pur morire e non morirò di certo di Spleen.

Ho Venezia stasera che mi luccica dentro. No, non mi sta facendo bene, ma neppure troppo male. Quindi chissenefrega.

Buonanotte.

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(873) Segreto

Il segreto perfetto è quello che potresti buttare in un bicchiere di vetro trasparente con dell’acqua fresca senza che nessuno riesca ad accorgersi della sua presenza. Sotto gli occhi di tutti. Tutti se lo bevono. Tutti inconsapevolmente.

Noi italiani siamo degli specialisti in questo: ci beviamo qualsiasi segreto maledetto senza farci caso. Non li vediamo proprio.

Agatha Christie direbbe: “Bisogna andare a cercare le cose, non aspettare che cadano in testa!”. Che potrebbe sembrare che non c’entri nulla, ma secondo me c’entra eccome. Ma non lo spiegherò. Vorrei andare oltre.

Avere un segreto non è mentire. Avere un segreto è scegliere di essere liberi. Liberi dagli occhi, dalle orecchie, dal tocco di chiunque. Quel segreto ti fa sgusciare via, ti fa leggero, ti fa potente. Intoccabile. Se un segreto non ti fa sentire così hai sbagliato tutto. Diventerà la tua rovina, conviene farlo uscire allo scoperto, dargli aria e fare in modo che il peso si disperda nell’etere senza più avvelenare le tue viscere.

Un segreto ti insegna l’ascolto più che la parola. Un segreto ti impone disciplina anziché superficialità. Un segreto ti accompagna al rispetto di quel che c’è e deve essere protetto. Ognuno di noi dovrebbe averne uno e se uno non ce l’hai ti consiglio di creartelo.

Che sia gioioso, che sia vitale, che sia soltanto tuo. Ora!

PS: ma davvero non avete capito perché ho messo la citazione della Christie in mezzo al post? Diamine!!!

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(849) Fuoco

Il fuoco ci insegna la giusta misura: riscalda e brucia. Il giusto fa bene, il troppo stroppia. Per l’acqua è lo stesso, per l’aria pure. Di terra, invece, sembra non ce ne sia mai abbastanza… quella ti sparisce sotto i piedi che è una meraviglia appena ti distrai un attimo. Gli elementi della natura cercano di riportarci a quelle leggi che ci governano – nonostante quello che ci raccontiamo – e che noi puntualmente sfanculiamo [il termine potrebbe risultare volgare, ma nel contesto non saprei infilarci uno migliore, il concetto rimane: ce ne fottiamo allegramente di quello che dovremmo invece mai dimenticare]

Il fuoco è associato alla passione. Avere il fuoco dentro è un’espressione che rende bene, no? Ti dà proprio l’idea che quel fuoco ti nutre, ti motiva, ti emoziona… ti infiamma (giustamente, che altro potrebbe fare?). L’idea è sbagliata. O per lo meno è parziale. 

Il fuoco deve essere alimentato, deve essere monitorato, deve essere convogliato. Non lo fa da solo, ha bisogno di una mente pensante che lo gestisce in modo che faccia quel bene che sa fare e non finisca col distruggere tutto. Questo metterci il discernimento in un concetto che d’istinto lo si sente come selvaggio, puro, esaltante, abbassa la temperatura drasticamente. Sauna finlandese. Eh. Allora facciamo così: mettiamo il cervello in salamoia e bruciamo tutto. Alé.

E lo si fa bene se hai quindici anni, ma se ne hai cinquanta le cose cambiano. La ricerca spasmodica del fuoco bruciante, tanto per sentire qualcosa, è profondamente grottesca. Uno scempio di possibilità, di potenzialità, di visione. Fammi capire: sei sopravvissuto per cinquant’anni e ora pensi di bruciare selvaggiamente di passione come non hai mai fatto neppure da adolescente? Se non l’hai fatto quand’era il tempo giusto, parti male, sei destinato al fallimento. Se l’hai fatto già, per quanto tu faccia non sarà mai la stessa cosa. Ti salirà l’amarezza e sarà lei a seppellirti.

Il fuoco.

Se ce l’hai, usalo bene santiddddddio!  [se non ce l’hai… vedi tu]

 

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(836) Determinazione

Bisogna calibrarla per bene, ma se riesci a maneggiarla con destrezza puoi fare della tua vita un capolavoro. Ad alcuni vien facile, nascono con questo dono, ad altri ci vuole anche un’intera esistenza per prenderne possesso e i risultati tardano ad arrivare. Eh, questione di culo.

Comunque, si può imparare a tenere botta e perseverare se ci tieni davvero. Più è solida la tua motivazione e più ti viene la forza per andare fino in fondo. Una questione di allenamento, suppongo, un po’ come tutto nella vita.

La cosa difficile è usarla il giusto, non superare certi limiti, non usare violenza né contro sé stessi né contro gli altri né contro gli eventi e il tempo. Non puoi assoggettare l’universo ai tuoi voleri, puoi invece aiutare l’universo affinché ti sostenga per raggiungere i tuoi obiettivi.

Decidi cosa vuoi e muoviti di conseguenza.

Sembra facile. Soltanto che ogni giorno te lo devi ricordare e ogni giorno te lo devi ripetere e ogni giorno devi fare in modo di crederci. Devi esserci. Devi evitare distrazioni. Devi mantenere solidamente il tuo intento. No, il raggiungimento dell’obiettivo non è mai gratis. Non è così che funzionano le cose. Nessuno può fare il lavoro per te. E nessuno può chiarirti le idee quando sei confuso, e più sei confuso e più le cose vanno in malora.

La determinazione viene svilita, molto spesso, viene etichettata come caparbietà, ma si sta parlando di due posizioni mentali e d’anima molto diversi. La persona caparbia non sente ragioni, la persona determinata non si arrende davanti agli ostacoli. La persona caparbia se ne frega di quello che gli sta attorno, la persona determinata si muove in accordo con l’ambiente – senza obbligatoriamente scendere a troppi compromessi – per proseguire. La persona caparbia sbatte la testa contro il muro finché il muro non si spacca, la persona determinata se quello che sta facendo non ha più senso, non è più motivante, non va più bene allora si ferma. Si ferma e cambia obiettivo.

Il mondo vegetale ce lo insegna: se vuoi vivere non c’è nulla che ti possa fermare. Hai a tua disposizione la terra, l’acqua, il vento, il fuoco, non puoi fare altro se non crescere. Credo che sia questo il vero miracolo: mantenere forte la nostra determinazione nell’amare la vita, nonostante tutto e sempre.

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(835) Perfetto

Perché uno pensa che può essere felice solo se tutto è perfetto, si danna l’anima per far sì che tutto sia perfetto senza mai riuscirci, senza mai essere felice neppure per un istante. Il tempo passa, però. Perfettamente.

Stasera non sono stanca, di più. La prima settimana di rientro dopo la pausa natalizia è stata come essere sollevata da un tornado e provare a ballare la macarena senza ribaltarmi. Impegnativo.

No, non solo a livello professionale, anche a livello emotivo, perché il mio cuore e il mio cervello sono ormai talmente mescolati che non si distinguono più. Fatto sta che sono così e che funziono così e che non c’è niente che non mi tocchi e – molto spesso – quello che mi tocca finisce con il lasciare il segno. Impegnativo anche questo.

Eppure, tra tutto questo ho notato dei momenti perfetti che mi attraversavano da parte a parte e avrei voluto dire tanto e invece sono stata zitta, in contemplazione estatica. Come un incantamento. Perfetto. Sentivo una voce che mi riempiva con delicatezza ogni sbandamento per aiutarmi a restare in equilibrio. Non posso spiegarlo meglio, è tutto quello che so scrivere.

Eppure, in modo perfetto sentivo e mi ritrovavo fatalmente in accordo con quel sottile filo lucente che si dipanava da me all’ovunque che mi stava intorno. E allora posso affermare che perfetto è ogni istante in cui in presenza di me stessa so testimoniare della vita e di quel sentimento che a nominarlo fa paura eppure c’è. Eppure c’è. A occhi aperti e a occhi chiusi. Giorno e notte. Eppure c’è.

Mi sento quasi male a pensarci, la perfezione così com’è davvero (sottile e lucente) mi schianta il petto e le parole non sanno più che fare di sé stesse, se non posarsi qua e là con cautela, come se la terra bruciasse e tutta l’acqua del mondo non fosse sufficiente per chetare l’anima.

Perfetto.

Vero?

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(823) Puntine

Siamo arrivati a quel punto dell’anno (la fine) dedicato al tirare le somme. Davanti a me ho – proprio fisicamente – un pannello di polistirolo bianco e in mano una bella quantità di puntine. Andrò nelle prossime righe a scrivere tutte le cose che le puntine fisseranno sul pannello (che è il mio 2018). Siamo pronti? Via!

Il buono del mio 2018:

  • la mia famiglia
  • i miei amici
  • il mio lavoro
  • la mia salute (che sto recuperando)
  • il mio amor proprio (che sto recuperando)
  • la mia voglia di scoprire, conoscere, imparare (che non si ferma mai)
  • i miei progetti (ben lungi dall’essersi esauriti)
  • le mie sconfitte e le mie piccole vittorie
  • il mio esserci senza sconti (croce e delizia di chi mi sta attorno)

Tutto questo è il malloppo che nel 2018 ho mantenuto e accresciuto e che sono intenzionata a portarmi anche nel 2019. Perché è facile dire ora che l’anno appena trascorso è stato un delirio – e lo è stato senza il minimo dubbio –  bisognerebbe anche avere il coraggio di nominare il delirio pezzo dopo pezzo per capire se ne è valsa la pena. Direi, nel mio caso, sì. La fatica, le incazzature, i buchi nell’acqua, gli scivoloni, le botte in testa e quelle all’orgoglio, le cantonate, le speranze spezzate, le illusioni polverizzate: ne valeva la pena.

E non è che adesso io pensi che il 2019 sarà tanto diverso dal suo predecessore… ne sarà la giusta conseguenza: una serie di cunette, muri, precipizi a non finire. Perché è sempre stato così per me e sto iniziando a pensare che è così per tutti, quindi perché lamentarsi?

La cosa migliore di quest’anno, che ormai è quello vecchio, è che ha saputo cambiarmi. A differenza di altri suoi colleghi, che in passato ci hanno provato – santocielo se ci hanno provato – ma che hanno anche fallito miseramente, questo 2018 mi ha messa davanti a me stessa e mi ha urlato: “Ti svegli o no?!”. Ecco, non sarà stato molto carino, né tantomeno gentile, ma l’ho trovato appropriato e del tutto efficace. Pur di farlo smettere di gridare come un ossesso ho iniziato a fare in modo diverso, addirittura a pensarmi in modo diverso da come mi pensavo. Ho proprio provato a pensare di me qualcosa d’altro. Non necessariamente migliore, ma ho varcato certi confini che prima neppure vedevo. Non so come spiegarlo, so che ha funzionato. Ho cambiato idea su me stessa. Già a scriverlo mi fa paura, accorgermi che è la pura verità mi fa tremare le gambe. E adesso come farò?

Boh. Sono certa che il 2019 avrà le risposte che merito. E si salvi chi può!

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(761) Relax

Il mio concetto di relax fa acqua da tutti i pori. Quello che per ogni Essere Umano di buonsenso è semplice pratica-del-non-far-niente, per me diventa motivo di macchinazione sui modi che potrei impiegare per fare qualcosa per distendere i nervi.

Ovvero: fare qualcosa per rilassarmi. Presente?

Dovrei io prendere in considerazione il non-fare-niente come pratica di rilassamento forse? Giammai! Devo leggere e sottolineare e commentare a bordo pagina, possibilmente, o devo guardare un film mentre controllo la posta e prendo appunti per possibili progetti futuri, o mentre passeggio mi immergo in riflessioni senza fondo sul da farsi per risolvere questa o quell’altra situazione e via discorrendo. In poche parole, se per me la meditazione è pura utopia, il relax è ridicola presa in giro. Non c’è mai una non-attività di qualsivoglia angolo del mio cervello, non c’è mai lo scorrere del tempo fine a se stesso, non c’è mai il cazzeggiare a fondo perso. Mai. Al massimo sospendo un pensiero ossessivo per sostituirlo con un altro finché mi stanco e riprendo in mano quello lasciato in naftalina il mese precedente.

Il relax dei sani di mente mi è precluso, arrendiamoci all’evidenza.

Se sotto la doccia mi vengono le idee migliori, se guidando mi compaiono davanti soluzioni geniali, se giocando a Toon Blast o a Wood Block ho squarci di lucidità dove poter costruire una strategia, tutto questo NON è relax. E se me ne sto seduta comoda, magari sdraiata, ascoltando musica e pensando al niente (madddove?! maqqquando?!), è ovvio che dopo tre minuti m’addormento… e neppure questo è relax, è dormire – che è tutta un’altra storia santiddio!

Va a finire che mi mancano proprio le basi. Le basi per vivere intendo. Ma che ve lo dico a fa’, ormai lo sapete meglio di me.

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(750) Barca

Durante la mia giornata le cose si ribaltano ogni mezz’ora. Come stare in barca, praticamente. Ci sono momenti in cui vorrei urlare “fatemi scendere subito!”, ma mi rendo conto che scendere se ti trovi in mezzo all’oceano non è proprio un’idea brillante. Ecco, io sto in mezzo all’oceano (tanto per rendere il quadro della situazione), quindi di scendere non se ne parla, l’unica cosa che posso fare è imparare a mantenere più che posso l’equilibrio. Questo posso e questo cerco di fare.

E se è pur vero che “finché la barca va, tu lasciala andare”, è anche vero che se la barca la lasci andare e basta – cioé di lei te ne freghi – non puoi neppure pretendere che ti porti dove vuoi tu. Quindi bisogna se non remare per lo meno approfittare del vento più che si può. Questo posso e questo faccio.

Non è che so sempre dove voglio andare, ma mi sono sempre imposta una meta perché girare a vuoto mi rende nervosa. Non pretendo di domare il Destino, ma voglio comunque dire la mia anche se per la maggior parte del tempo vengo bellamente ignorata. A volte essere ignorati è una benedizione, puoi farti i cavoli tuoi senza che nessuno ci metta il naso perché a nessuno frega niente di quello che stai facendo. Se diventa la norma, però, ti rende alieno nella tua terra e una o due domande bisogna pur farsele.

Si è notato che stasera non so bene dove voglio andare a parare con questo post? Bene, è la prova che andare così a naso può farti girare in tondo e se la testa ti gira una buona ragione c’è. Sono comunque partita da una parola, barca, e tutto sommato di barche so ben poco, conosco soltanto la mia ma forse la mia è, in fondo, un po’ come quella di tutti. Tutte le barche hanno un paio di funzioni da assolvere, restare a galla e trasportare qualcuno – spesso con qualcosa, tutte hanno una prua e una poppa, tutte si nutrono di acqua e vento, tutte sognano oceani blu e cieli azzurri spazzati di fresco. In fin dei conti cosa c’è da sapere di una barca se non questo? Il resto son dettagli.

Esattamente come ogni Essere Umano.

 

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(741) Smarrimento

Nel caos di tutto quello che in una giornata può accadere, e accade sempre tanto anche se non ce ne rendiamo conto perfettamente, ci sono istanti di completo smarrimento in cui mi sembra di essere immersa in una pozzanghera che non ha confini. Magari l’acqua non è torbida, anzi, ma è comunque tanta tanta tanta. Troppa per poterla affrontare. Lo so che è solo nella mia testa, è acqua che c’è soltanto nella mia testa e che non ha alcuna valenza nel reale, lo so, ma mi impensierisce lo stesso.

Mi guardo attorno attonita e resto lì in ammollo, inerme. Non me ne capacito, non so perché cado in questa catatonia assurda, eppure mi succede quotidianamente. Una volta al giorno, senza perdere un colpo, arriva lo smarrimento.

Mi ripiglio in fretta – spesso, non sempre – ma non riesco a evitarlo. Tutta quest’acqua mi toglie le forze. Sì, poi respiro e razionalizzo, ovvio, ma ci cado dentro e non c’è modo di scansarla. Neppure con la programmazione, con il controllo rigido della lista di cose da fare e da completare riesco a tenere a bada l’annichilimento di quell’istante. Neppure se le scadenze non sono così prossime, se il lavoro è da condividere e spartire con i colleghi, neppure se sono io stessa a pormi obiettivi e obblighi… 

Credo sia una patologia seria, incurabile. Lo smarrimento ha sempre la meglio su di me, una volta al giorno. Punto e basta.

E se fosse una pausa mentale – tipo un richiamo neuronale per un caffè che io non decido ma subisco – che mi obbliga a guardare, senza pensieri e senza azioni, per procedere più lucidamente? Uno smarrimento strategico per non andare in overstress, qualcosa del genere. Una misura di protezione, tipo salvavita, che scatta nonostante me e che mi sospende dalla vita per qualche secondo prima di risbattermi giù a lavorare a testa bassa fino a fine giornata. Perché è così che funziona, a vederla bene. C’è lo smarrimento e c’è la ripresa. Non sono mai stata persa per più di qualche minuto, in ogni frangente io mi sia trovata non ho mai perso il contatto con le cose del mondo – se in stato di veglia – troppo a lungo. Questo dovrebbe mettermi tranquilla, giusto? 

Sì.

Giusto.

Ok.

Tutto perfetto.

Buonanotte.

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(737) Soddisfazioni

Oggi ne ho contate almeno tre, un record. Non ne parlo mai perché le incamero e ci passo oltre velocemente, troppe cose da fare e situazioni da risolvere, sfide da affrontare… tutto troppo per fermarsi e gongolare. Non va bene, non va bene perché sembra che ci siano solo le lamentele e le rogne, ma non è così. Sarei scema a fare quello che faccio se fosse solo così. 

Quindi eccomi al dunque: le soddisfazioni. Sono per lo più legate alla sfera umana, quando la comunicazione si compie senza fraintendimenti e con l’intenzione di incontrarsi e di trovare soluzioni creative e intelligenti insieme. Certo che scrivere un testo convincente ed efficace è un gran bel gol, ma non basta. La cosa migliore di tutte è attuare una dinamica di condivisione che va oltre il lavoro che si sta affrontando. 

L’intesa con i colleghi (basta uno sguardo e già sai), il confronto con i dirigenti (la stima che ricevi te la sei guadagnata ma non è mai scontata), l’incontro con i clienti (che ha nell’ascolto l’arma vincente), la collaborazione con professionisti che sanno portare la loro esperienza fino da te e che accolgono la tua in modo naturale… sembra un’utopia, vero? Non lo è.

Se lavori con questi intenti, questo può diventare il campo che ogni mattina ti vede entrare in gioco. Non lo trovi già pronto, lo devi costruire zolla dopo zolla, e devi crederci anche quando le tensioni e gli attriti si fanno pesanti. Perché un lavoro senza scazzi, casini e rotture proprio non esiste. Neppure se è il più bel lavoro del mondo e se non lo cambieresti con nessun altro. Bisogna farsi acqua, bisogna affidarsi allo spirito d’avventura, bisogna rinunciare a un po’ di comodità per azzardare dove non sei mai stato, bisogna rinunciare a metterci un punto perché si procede per virgole, bisogna rassegnarsi a ricominciare anche se non è mai daccapo è sempre un passo più in là rispetto a dove sei partito.

Bisogna. Se non te la senti, se ti chiami fuori, se pensi che non sia importante, se pensi di poterne fare a meno, se pensi che non ne vale la pena, se credi che le cose belle della vita siano altrove, allora siediti e aspetta di arrivare alla pensione sperando che il tuo inferno non abbia la meglio su di te.

Oppure: svegliati e muoviti. Non ci sono alternative, tu cambi e il mondo attorno a te cambia assecondando le tue decisioni. Il mondo non è uno solo, il mondo è personale. Sono due cose piuttosto diverse, ci hai mai pensato?

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(714) Decantare

E poi ci sono quei verbi che ti lasciano un po’ di stucco. Decantare le qualità del tuo ristorante preferito e lasciar decantare il giudizio per non mancare di obiettività. Usato nel primo modo enfatizza lo slancio e nel secondo modo posa a terra lo slancio per la riflessione e la rivalutazione della faccenda. Eh.

Ci sono periodi in cui pratico la decantazione e sembra che il mio cervello sia partito per altri lidi. Funziono per metà. Succede perché tutto quello che ho assorbito vivendo ha intorbidito le acque del mio delicato ruscello mentale e non ci capisco più niente. Ma non è uno stato che riconosco coscientemente, quindi ho sempre paura che il rincoglionimento sia definitivo.

Fino a ora m’è andata bene. Speriamo il gioco regga ancora per un po’.

La parte interessante arriva quando l’acqua ritorna quasi limpida e il vederci attraverso mi fa riprendere il nervo giusto. Ecco: penso di trovarmi in quel preciso momento. Non è la prima volta, ma questa volta vorrei proprio scriverlo perché è una sensazione intensa e gratificante e mi dispiacerebbe dimenticarmela alla prima incazzatura in programma – che potrebbe verificarsi tranquillamente anche tra cinque minuti a mia insaputa.

Non so come spiegarlo, però, perché spesso le parole lasciano troppo spazio vuoto e invece mi piacerebbe saperlo colmare. Sì, è una sensazione che potrebbe essere paragonata a quella di quando hai le mani sporche e te le lavi con un sapone profumato. Ti cambia l’umore, ti cambia i pensieri. Come nuova. Ecco, in questo momento mi sembra che a vederci meglio, capendo meglio, gestendomi meglio, io abbia iniziato un nuovo periodo della mia vita. Non so ancora dove mi porterà, ma lo riconosco come inizio e posso abbracciarlo come tale. Perché? Semplicemente perché mi fa stare bene. Anche se sono stanca morta, anche se andrei a Bali a farmi una vacanza, anche se domani le cose da fare non saranno mille ma duemila. Pazienza.

Questo è un inizio vero, non dev’essere facile perché nessun inizio è facile, dev’essere intenso. E questo inizio lo è.

Un bel respiro e via!

 

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(658) Claustrofobia

A causa sua mi sono persa il tour dentro ai cunicoli della piramide di Cheope a El Giza. Mi rode ancora, ma non ho potuto farlo, non ho potuto neppure immaginarmi piegata e pigiata dentro quel budello maleodorante per tanti tanti tanti minuti senza via d’uscita rapida e senza nessuna certezza sul fatto che avrei potuto rivedere il cielo e respirare aria buona prima o poi. Mi sono persa un’occasione d’oro, ma mi sono salvata la vita.

Non fregherà nulla a nessuno di questo mio ricordo ridicolo e dell’allegato rimpianto, ma la questione è che sto facendo mentalmente una lista di tutte le cose che mi sono persa perché una paura o l’altra c’ha messo lo zampino e, in tutta sincerità, pensavo peggio. Davvero, pensavo peggio. Mi ha fermata più la pigrizia che la paura e – anche se non tutti saranno d’accordo con me – credo che sia meglio essere pigri che paurosi. Cioé, io mi piaccio di più se mi penso indolente piuttosto che priva di coraggio.

Ho fatto anche la lista di cose che non ho mai affrontato perché mi sembravano idiote, inutili, controproducenti, e lì sì che mi sono stupita: è lunghissima. Nessun rimpianto, penso ancora di aver fatto bene a risparmiarmi la fatica dell’attraversare quelle che mi si erano presentate fin dall’inizio epocali fail. Il dubbio che magari una o due volte io mi sia persa davvero qualcosa di bello mi rimane, ma alla fine della fiera me ne frega ben poco.

Resta il fatto che dentro la piramide non ci sono andata e che mi dispiace, ma la questione claustrofobia uno non se la può mettere in tasca a comando. Oppure sì? Ora che ci penso riesco a bypassarla se devo prendere l’ascensore, perché la pigrizia la vince con una certa prepotenza (le scale? Ma che scherzi?!), ma se mi si chiede di infilarmi in un tunnel stretto e angusto, che scende sotto terra o sale al cielo e io non ne vedo la fine…

no, punto le zampe e faccio massa come un gatto davanti a una pozza d’acqua. Miaaaaaaaaaaaaoo!

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(575) Doccia

Sono sempre stata un tipo da doccia, bollente per la precisione. Se mi immergo in una vasca d’acqua bollente e magari profumata, dieci secondi e mi addormento. Con la doccia è diverso. L’acqua che scorre si porta via il peso dei pensieri e fa aprire porte e finestre mentali da cui l’aria può circolare.

Sembra un dettaglio ma non lo è. I tipi da bagno sono diversi dai tipi da doccia. Non meglio né peggio, ma diversi sì.

Fosse per me mi butterei in doccia ogni due ore, sono certa che il mio stato mentale ne trarrebbe un giovamento pazzesco. Ringiovanirei di almeno dieci anni in pochi giorni, ne sono certa. Comunque, la questione si pone ogni volta che mi trovo nella condizione scomoda di dovermi inventare qualcosa per togliermi dai guai. Posso passare ore alla forsennata ricerca dell’appiglio giusto, ma non succede nulla finché non mi butto in doccia. Dopo mezz’ora (almeno) devo uscirne alla velocità della luce prima che l’Illuminazione mi sparisca del tutto. A volte mi porto carta e penna perché arriva tutto insieme ed è un casino ricordare ogni dettaglio, specialmente per me che mi dimentico cosa sto facendo mentre lo sto facendo.

Le idee migliori mi sono arrivate tramite l’acqua bollente della doccia, sì, come se stessero appollaiate dentro i tubi e aspettassero pazientemente che io mi decida ad aprire il rubinetto. Impressionante, davvero. Vorrei, però, riuscire a controllare meglio la dinamica che si scatena perché se mi arrivassero i numeri della prossima estrazione del superenalotto potrei sistemare una doccia in ogni stanza e nessuna spesa sarebbe più utile e salvifica, poco ma sicuro.

Eh.

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(517) Karate

karatè s. m. [dal giapp. karate, propr. “a mano (te) vuota (kara)”, cioè disarmata]. – (sport.) [tecnica di lotta e arte marziale, sviluppatasi in Giappone nel 16° sec., praticata come mezzo di difesa, in cui i colpi sono portati con la mano aperta a coltello o col piede] ≈ ⇑ lotta giapponese.

Il concetto di mano vuota e quindi disarmata mi piace, mi fa pensare a quanto una mano vuota può fare. Praticamente tutto. Questo concetto trasportato in una tecnica di lotta fa ribaltare la situazione per renderla arma. Cosa può fare una mano armata? Può colpire, per bloccare provvisoriamente o per sempre, ovvio. Non è molto, vero? Non è che la mano armata possa fare altro se non usare l’arma di cui dispone. Siamo d’accordo che se ti può salvare la vita è la benvenuta, eh!

Certo, nel karate c’è una risposta all’offesa, quindi una reazione a una aggressione, e questo sistema le cose. Va bene.

Se, però, ritorno al concetto di mano vuota allora mi vengono in mente immagini che possono e sanno riempire il cuore: la mano vuota che stringe un’altra mano vuota, per esempio. La mano vuota che si riempie di acqua per dissetare qualcuno, oppure la mano vuota che accarezza la terra o il viso di una persona cara, oppure la mano vuota che tasta la consistenza di un tessuto o un alimento… la mano vuota si può riempire, ma non per questo risulta armata, e come si riempie si può svuotare. Semplice. 

Se la mano armata decide di svuotarsi, non può che provar sollievo, sarà libera di fare molte molte molte buone cose, per sé e per gli altri. E se lei è libera non ha motivo per covare odio verso nessuno, una vera rivoluzione! Glielo diciamo?

 

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(496) Torbido

Lo sento subito il torbido, ma proprio subito. Poi il buonsenso mi convince che non posso partire in quarta, fidarmi del mio istinto e tagliare fuori le situazioni e le persone. Non si fa, non si può.

Grazie a questo scrupolo mi sono immersa nel torbido altrui tante volte, perché il proprio nessuno lo sente – ovvio, e in queste lunghe o corte immersioni ne ho scoperte tante di cose che nel torbido si sanno nascondere bene. Non sto qui a giudicare il torbido degli altri, detesto che giudichi il mio, ma anche i torbidi entrano in risonanza e ci si accorge che qualcosa non va quando il torbido che s’incontra non suona bene con il tuo.

Lo sento subito quel torbido lì, quello che con me non ha nulla a che vedere. Vorrei proprio girare i tacchi e andarmene, ma il mio buonsenso è un po’ scemo e mi fa restare. Dice che conoscendo torbidi a me lontani imparo meglio quel che c’è da imparare così non me lo dimenticherò più. In questo ha ragione, certi torbidi non me li dimenticherò più, ma non è un bene, anzi. Vorrei dimenticare, vorrei davvero dimenticare. Solo che certa roba ti si attacca addosso e ti corrode il cervello, tu pensi che non ti riguardi ormai, ma ricordi tutto e quel tutto rosicchia e rosicchia incessantemente.

Sguazzare nel fango non è divertente, è soltanto sporco, l’ho imparato e ora il torbido lo lascio da parte, lo lascio a chi non ha una pozza d’acqua sorgiva in cui tuffarsi. E quando lo incontro metto a tacere gli scrupoli e il buonsenso, non c’è scritto da nessuna parte che tutte le lezioni della vita debbano passare da lì. Vorrei averlo capito prima, ma sono grata di averlo finalmente capito. Non soltanto capito, sono grata anche del fatto che non mi domando più se avessi fatto meglio a restare. I dubbi sono affondati nell’ultimo torbido incontrato, ma sto ancora togliendo dei maledetti rimasugli fangosi. Damn!

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(267) Gal

Ce l’ho tatuato sul polso destro. Non sapevo il suo significato, ho scelto due simboli che per me sono importantissimi per quello che contengono e ho scoperto solo dopo anni che quelle due lettere formano una parola e quella parola significa: onda.

M’è andata bene. Poteva esserci di tutto lì sotto, di tutto. Mi vengono i brividi se ci penso.

Fatto sta che quest’onda che mi guarda dal mio polso, in modo piuttosto elegante e misterioso, sembra parlarmi. Mi ricorda che l’acqua è l’elemento da cui proveniamo, di cui siamo fatti, da cui dobbiamo imparare.

L’onda arriva e si ritrae portandosi addosso la sua musica, la senti anche se ti tappi le orecchie. L’onda ti trasporta o ti ostacola. L’onda si solleva e ti sovrasta, se è di buonumore ti culla. L’onda sul mio polso ha un suono straniero: Gal.

Lo ripeto: m’è proprio andata bene.

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(232) Sorgente

Perché siamo molto impegnati ad andare da qualche parte. Molto impegnati. Siamo sempre concentrati su quello che vogliamo raggiungere, il luogo dove vogliamo stare.

Oggi ho guardato la mia sorgente. Credo che sia passato un secolo dall’ultima volta che l’ho fatto. Troppo tempo. La mia sorgente è di acqua buona. Pura, cristallina. Mano a mano che è scesa a valle s’è un po’ sporcata, s’è un po’ persa, s’è un po’ asciugata. Non va bene. Tempo di rimediare, ora.

Ok, Babsie, vai lassù a riprenderti!

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(38) Rifocalizzazione

Capita spesso che, nonostante lo splendore delle mie idee, io faccia un buco nell’acqua. Negli anni la reazione al dato di fatto è mutata. Sensibilmente mutata.

Prima pensavo: le mie idee fanno schifo. Poi ho iniziato a pensare: il mondo fa schifo perché rifiuta le mie idee. Ora penso: rifocalizziamo tutto e riproviamoci.

Potrei dire con orgoglio che mi vedo parecchio migliorata. Ho superato la prima affermazione aumentando di un paio di spanne la mia autostima. Le mie idee sono splendide, anche quelle imperfette, anche quelle che non vengono capite o accettate. Sono splendide perché sono il mio modo di esserci: con coraggio e, a volte, con spavalderia, ma in modo onesto.

La seconda affermazione, di netto stampo vittimistico, aveva la meglio quando qualsiasi cosa io facessi rimbalzava contro ostinati muri di gomma di cui non vedevo la fine. La frustrazione mi seppelliva, quotidianamente. Ho deviato appena sono arrivata al machissenefrega. Ci ho messo un bel po’, ma ce l’ho fatta (c’è speranza per tutti).

La questione del rifocalizzare l’idea (il progetto) è un’evoluzione liberatoria. La presa di coscienza che forse le mie idee non sono splendide, ma neppure uno schifo e che se fanno un buco nell’acqua potrebbe essere solo per un dettaglio sballato.

Riprendo in mano tutto, ci rifletto, valuto, soppeso, ribalto la questione da sotto a sopra e vedo cosa può essere migliorato.

Ci riprovo, non mollo ancora perché in questa idea c’è del buono. Lo sento, lo vedo, lo posso anche toccare. Devo solo trovare il modo di farla arrivare sana e salva al di là del lago.

Farò un buco in terra e la pianterò proprio lì. E lì crescerà.

Adelante Sancho!

b__

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(34) Goccia

Quand’ero bambina sentii, in un discorso da adulti che non capivo, questa frase:

(…) la goccia che scava la roccia (…)

Non feci fatica a immaginarmi la scena, la riportai all’acqua sotterranea che sgocciola e schiocca facendo piccoli echi misteriosi dentro a una caverna quasi buia. Non ricordo dove quell’immagine l’avessi catturata, forse da una delle fiabe del mio libro preferito. Non lo so.

Questa goccia è rimasta con me per quarant’anni. Ha scavato la mia roccia interna creando degli stravaganti percorsi emotivi di cui a volte perdo le tracce. La Bellezza del lavoro di erosione è qui davanti ai miei occhi e non m’importa di considerare com’era prima che la goccia perpetua cadesse (e ancora cade).

In certi punti non riesco neppure più a ricostruire le fattezze della roccia originaria, tutta levigata e rotonda com’è adesso.

Alzando lo sguardo lo scenario mi affascina.

Colgo il gocciolìo nel mio orecchio interno e mi accorgo che lo posso trasformare in base ritmica sulla quale scrivere la melodia che più mi ispira in questo momento, nel punto preciso in cui mi trovo.

Le gocce sono tante e non smettono di cadere dentro di me lisciando con pazienza gli spuntoni e le crepe della mia roccia, trasformandomi davanti ai miei stessi occhi, ma lentamente. Con costanza, ma lentamente.

Mi reputo fortunata, fossi fatta di acciaio o di vetro non avrei ottenuto lo stesso risultato.

b__

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