(554) Pianificare

Eh! Una bella cosa, bella davvero. Avere un piano, un piano che hai studiato nei dettagli, che hai curato, che hai lavorato fino a renderlo perfetto. Un piano che è frutto del tuo saper sognare e saper rendere concreto quello che per molti è soltanto un’ambizione senza speranze. Bellissimo.

Il punto è che pianificare in questo modo è un suicidio. Un fallimento certo. Una totale catastrofe. Più dettagli ci hai messo e più la realtà ti calcerà lontano con biglietto di sola andata. Non si pianifica, mai. La vita te lo insegna fin da subito, se non ti sei tolto il vezzo già prima della pubertà sei destinato al peggio. Anzi, al peggio del peggio.

L’unica cosa che puoi fare per scamparla è pensare sommariamente a quello che ti piacerebbe fare/realizzare, farlo en passant, senza troppo coinvolgimento, senza caricarlo di emotività, senza renderlo punto focale di ogni tua azione. Se saprai giocarti in questo modo, allora quello che NON è un piano – manco per niente – può avvicinarsi a te, timidamente, per farsi domare.

L’importante è crederci ma non troppo. Volerlo ma non troppo. Sognarlo ma non proprio così. Insomma, bisogna nutrire una vaga idea del tutto senza MAI MAI MAI scendere in dettagli. MAI. Tassativo. MAI.

Basta che ti distrai un attimo, che ti crogioli nell’idea della pianificazione e tutto salta per aria. Il calcio ti arriverà così diretto, puntuale, potente che non farai neppure in tempo ad afferrare lo zainetto che già sarai stato sparato su Marte.

Il segreto c’è ed è semplice, ovvero: NON distrarsi. NON farsi prendere in castagna. NON illudersi neanche nei momenti di stanchezza più profonda che l’Universo ti stia ignorando. Lo fa soltanto mentre non stai pianificando nulla, quando ti affidi a ciò che arriva e ti auguri che il pacco non sia esplosivo. Appena ci tieni, appena ti ci metti d’impegno, l’Universo reagisce.

Lui schifa la pianificazione degli umani, dovremmo averlo capito tutti già da tempo, scombussola i suoi piani. E questo non si fa.

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(553) Calimero

Col detersivo giusto, Calimero tornava bianco e ritornava dalla sua mamma. Ricorda qualcosa vero?

Una vocina irritante, un atteggiamento irritante, un personaggino irritante che ha segnato l’infanzia di chi è nato negli anni ’70. Irritante pure questo, no?

Stavo pensando che spesso ci fanno passare per cose di valore cose che non lo sono affatto. A noi suona storto, ma ci ripetono che ci stiamo sbagliando, che quello che pensiamo, quello che sentiamo, non va bene.

Non va bene. Qualcuno ti dice che non va bene e a te dovrebbe bastare, dovresti smettere di pensare e di sentire come pensi e come ti senti perché qualcuno ti dice che non va bene. Ormai quello che va bene e quello che non va bene ha contorni talmente stemperati che sembrano non esistere più. E anche la questione di chi ti dice che non va bene si è complicata. Ti dicono che non va bene e poi scopri che sono loro che non vanno bene. E cosa fai se hai messo il cervello in naftalina? Cosa fai se ti sei lasciato convincere che non andava bene e hai smesso di pensare, hai smesso di sentire?

Disastro. Chi ti tirerà fuori dal pozzo? Ci hai mai pensato? Dovresti, dovresti. Perché non serve a nulla stare lì a inveire contro tutto quello che non va bene, non serve a te, non serve agli altri. Bisogna trovare un altro modo. Se vuoi, però, fare come Calimero, allora tira fuori la vocina e di’ come lui:

«È un’ingiustizia però!»

Ti senti meglio? No, vero? Ok, cominci a capire. Questo va bene, fidati, questo va molto bene. Inizia il vero lavoro, ora. Tieniti pronto, sarà come entrare in un frullatore, ma pensare va bene. Sentire va bene. E lo sai anche tu.

Daje.

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(552) Umorale

La Teoria Umorale di Ippocrate – tra le altre cose – suddivide gli Esseri Umani in: sanguigni, flemmatici, collerici e malinconici. A seconda di come sono ripartiti i quattro umori nel corpo umano così poi risultiamo a livello “umorale”. Anche se le tabelle e le classificazioni non mi fanno impazzire di gioia – le detesto – mi ci sono infognata stasera a causa del mio umore (e non dico altro), portate pazienza.

In pratica: se sei un sanguigno (ovvero hai prevalenza di sangue) sei rubicondo, gioviale, allegro e goloso; se sei flemmatico (ovvero prevalenza di flemma) sei beato, lento, pigro, sereno, talentuoso; se sei collerico (prevalenza di bile gialla) sei magro, asciutto, irascibile, permaloso, furbo, generoso e superbo; se sei malinconico (prevalenza di bile nera) sei magro, debole, pallido, avaro, triste, ipocondriaco. Allora, dando per scontato che essere beato e magro, allegro e generoso, sereno e talentuoso, siano tutte belle cose, non vorrei che scoprirsi irascibili, permalosi, pigri, avari, tristi e ipocondriaci fosse la condanna che ci porta dritti dritti al macello.

Ippocrate era un brav’uomo, niente da dire su questo, ma certi giudizi così secchi sulle persone non fanno bene a nessuno. Se guardi in questo modo la gente va a finire che ti fiondi sull’eremo più alto del Nepal e sfanculi tutti in un colpo solo. Mi sembra un tantino estremo come punto di vista, n’evvero Ippocrate?

Certo che la bile ti rende una vipera, certo che il sangue ti shakera l’umore, certo che la flemma ti porta all’inedia, ma considerato che ognuno di noi è costretto ad averci a che fare, io proporrei un atteggiamento costruttivo, che dici?

Non lo so, se il sangue ti va alla testa potresti farti una doccia gelata. Se la bile di annebbia la vista, fatti un giro sulle montagne russe. Se la flemma non ti fa alzare dal letto, fracassati le orecchie con il death metal. Insomma, darsi per vinti è troppo poco per affrontare una condizione che pur sempre è passeggera, no?

Dai, Ippo, so che non stiamo messi bene, ma dacci almeno qualche speranza. Dicci che l’equilibrio non è una chimera, che anche se non diventiamo buddhisti possiamo cavarcela, che certi giorni va meglio e certi va peggio ma che alla fine i buoni vincono. E poi, se proprio non ci hai convinto, allora ci attacchiamo al vino e chiss’è visto s’è visto.

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(551) Riduzione

Quando la situazione è disastrosa mi faccio prendere dal panico perché penso che non riuscirò mai a sanarla. Mai. In questo stato d’animo non sono in grado di fare nulla, sono congelata. Dopo un imprecisato numero di giorni – da 1 a 1000 – mi rompo le scatole di essere congelata e mi sposto un po’ più in là, in una posizione meno estrema del “mai”.

La situazione mi risulta sempre disastrosa, ma come è caduto il “mai” va a cadere anche il “per sempre”. Questo è già un passo in avanti. Quindi dal disastroso-non-per-sempre posso cercare di lavorare riducendo anche minimamente la portata del disastro. La parte difficile comincia proprio lì.

Il punto è che se non arrivo a questo “lì” niente cambia. Se l’esasperazione non mi spingesse fino a quel benedetto male-che-vada-non-potrà-essere-peggio-di-adesso, non ci sarebbe alcuna riduzione del danno e alcun miglioramento.

Però poi inizia il lavoro duro, i risultati non proprio esaltanti, le aspettative schiacciate a terra e il morale che non fa proprio il mambo mentre striscia in un angolo. Se supero i 90 giorni senza mollare, le cose mutano forma e magari anche sostanza. Insomma: tutto subito non è contemplato nel mio karma.

Sono al punto “lì” e non è che mi senta proprio quella che avrà la meglio. Guardo la situazione e mi sembra davvero disastrosa, anzi, è proprio disastrosa. Solo che da sola non migliorerà. No. Quindi tanto vale che io mi autoinfligga il sacrificio che merito per aver lasciato andare le cose fin dove sono ora e che mi metta nelle condizioni di sudarmi la ripresa.

Mi basta ridurre il disastro, stavolta, non penso di poterlo sanare, ma ridurre un po’ sì. Almeno di un terzo. Saranno novantagiornilunghissimi, spero soltanto che alla fine di questo periodo riuscirò a ballare un mambo. Mah!

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(550) Aprile

Quest’anno il pesce s’incontra con la colomba, bello strano vero?

La Resurrezione si trasforma in uno scherzo, e qui la blasfemia non è soltanto un pourparler.  Perché nessuno ci ha pensato? Secondo me, qualcuno ci doveva pensare e doveva spostare la Pasqua a un po’ più in là. Vabbé, forse sono troppo sensibile, nonostante non sia troppo legata a ‘ste cose religiose.

Andando a zonzo tra i miei neuroni affaticati ci sono cose in cui inciampo e, quando non mi fanno finire a terra, mi fanno percorrere vie alternative di pensiero che potrebbero anche disorientarmi – a volte lo fanno, altre no. Diamo per scontato che non sono mai questioni di grande portata, eppure non si tratta di una perdita di tempo ma di una ricerca che i suoi strambi frutti li porta. Bisogna soltanto saperli riconoscere.

La cosa piuttosto imbarazzante, invece, è che di questi lumini che mi si accendono io non possa parlarne con nessuno. Lo dico perché ogni volta che ci ho provato i lumini si sono spenti. Rimangono accesi soltanto se li tengo nella mia testa. Considerato che spenti non servono a un bel niente, ho imparato a tenermeli lì chiusi, fanno la luce giusta e mi tengono compagnia, e se voglio parlare di qualcosa con chi mi sta attorno m’invento altro.

Non sono segreti, no, hanno natura diversa. Non è che non possono essere capiti da nessun altro se non io, neppure questo è vero. Semplicemente non sono fatti per uscire e vivere della nostra aria. Come fare a spiegarlo meglio? Forse quando li capirò meglio mi sarà più facile farlo. Nel frattempo, vado a zonzo tra i miei neuroni e registro ogni movimento, ogni lumino che si accende, ogni lumino che si spegne. No, non mi annoio.

Concluderei queste righe di oggi con un’affermazione inutile, ma che a leggerla bene ha il suo onorevole senso, perché comunque è Pasqua e comunque ogni Resurrezione è vita che si rinnova.

Quindi: io mi mangio volentieri il pesce, non la colomba. Quella mi piace pensarla in volo, lontana da tutta la follia umana.

Alleluja!

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(549) Show

Ognuno fa il suo. Non è detto sia del tutto edificante, bisognerebbe non darlo per scontato. Bisognerebbe partire da una logica diversa dal solito, quella che ti impone di farti vedere al massimo della forma. Bisognerebbe volare bassi.

Parti a razzo e pensi di sorprendere tutti, sei sicuro che rimarranno a bocca aperta, in estasi. Ti pensi Madonna (se sei ateo) o La Madonna (se sei cristiano praticante), in breve ti pensi come non necessariamente sei, forse a come ambiresti essere. Credo che questo sia il vero peccato.

Se procedessimo invece con altro criterio, quello del volo rasente e poi piano piano risalissimo le correnti ascensionali (citando qualcuno, qualche tempo fa) per farci vedere al massimo del nostro splendore, magari lo stupore sarebbe reale e forse durerebbe più a lungo.

Mi sta bene la grande mascherata, nel senso che la giustifico, ma il buongusto deve avere la meglio sulla baracconata. Sempre. Perché non c’è bisogno di andare oltre, non c’è bisogno di fare i fenomeni, non c’è bisogno di dichiarare la propria superiorità. Se il bisogno c’è è perché non siamo fenomeni e non siamo superiori, tutt’altro.

Ora: che lo si faccia è un dato di fatto, che la maggior parte delle volte il nostro buonsenso non riesca a limitare l’enfasi del nostro show è un dato di fatto, che ci possa andare bene nove volte su dieci è un dato di fatto, ma…

Ma anche la Giustizia Divina è un dato di fatto, ha lastricato di prove ogni secolo d’esistenza del Genere Umano, e arriverà comunque il giorno in cui il nostro show non verrà tollerato, non verrà perdonato, non verrà fatto passare. Verrà il giorno in cui durante uno dei nostri maestosi show qualcuno ci darà un bel pugno sul naso. Quel giorno dovremmo ricordarci di incassare con onore. Non si piange, non si urla, non si bestemmia, non si ribatte, non ci si giustifica, non si incolpa qualcun altro. Quel giorno ci beccheremo il pugno sul naso, il naso sanguinerà, e noi staremo zitti, a testa bassa a prenderci in pieno tutta la vergogna che meritiamo.

Perché “Show must go on” è una canzone dei Queen, e il nostro show dovrebbe terminare ora. Le discussioni stanno a zero. Bisognerebbe capirlo una volta per tutte.

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(548) Esposizione

Mettermi in esposizione non è che mi entusiasmi, l’ho fatto e lo faccio se non ne posso fare a meno – per una serie di circostanze. Significa che preferisco stare per i fatti miei, al riparo, così posso essere chi sono senza paranoie.

No, espormi per le cose in cui credo non è mai un’opzione perché la faccia e il nome ce li metto in tutto. Senza paura o timidezze. Essere esposta, invece, agli umori e paturnie degli altri mi rende nervosa, talmente nervosa a volte che faccio e dico cose che sono più una provocazione per vedere dove si andrà a parare che altro. Non ci posso fare nulla, se sento puzza di bruciato voglio scoprire che cosa sta bruciando. Esporre il mio punto di vista, le mie riflessioni, le mie idee è qualcosa che ho imparato a fare e che spero riuscirò a fare sempre meglio. Ci sto lavorando.

In effetti, esposizione non è un termine brutto, diventa pessimo quando viene usato da qualcuno su qualcun altro. Imperdonabile.  Difficile fermare chi pensa di poterti esporre come un trofeo, chi pensa che esporti al giudizio degli altri sia un atto che non obbliga alla responsabilità. Non c’è compassione, non c’è sensibilità, non c’è calore umano nella gente che guarda per puntare il dito. Inutile illudersi. Non ce n’è.

Ecco, questa mia breve esposizione può essere presa come arringa in tribunale per qualsiasi accusa mi venisse rivolta in futuro – anche nel futuro prossimo prossimo. Varrà pur qualcosa scrivere ogni giorno qui sul blog… eh!

 

 

 

 

 

 

 

 

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(547) Assonanza

Richiede un piccolo sforzo, a volte un grande sforzo. Spesso te lo vuoi proprio evitare perché sei sicuro che non ti porterà a niente. Altre volte tenti, magari non troppo convinto, e quanto ti accorgi che ne è valsa la pena ti sembra quasi un miracolo. Perché, in realtà, è un miracolo.

Come si potrebbe definire in altro modo quello che accade quando riusciamo a entrare in accordo con un altro Essere Vivente?

Diamo per scontato che siamo tutti avvoltolati su noi stessi, incomprensibili non solo per chi ci incrocia, ma anche per chi ci sta accanto. Incomprensibili persino per le nostre povere affaticate sinapsi! Siamo isole, soltanto isole, e diamo per scontato pure che, anche se ci lamentiamo, ci va bene così perché ci evitiamo la fatica di esporci, di offrirci, di tenderci verso chiunque – è così, inutile negarlo. Ebbene, dato tutto questo, quando qualcosa accade dentro di noi e ci proietta anche solo per qualche istante in un’energia che non ci appartiene, non per devastarla ma soltanto per incontrarla e creare un contatto, si esplicita un piccolo grande evento che potrebbe rimanere unico nel suo genere, quindi: un miracolo.

Ho scoperto nei miei anni di contatti riusciti e fallimenti epocali, che è possibile entrare in assonanza con chiunque. Se non ti riesce è perché non ti interessa abbastanza. Affermare e ammettere che non ti interessa abbastanza per provarci è un ottimo punto di partenza per evitare nascondimenti imbarazzanti.

Se una persona non mi piace, non mi passa neppure nell’anticamera del cervello di entrare in accordo con lei. Amen. Molto probabilmente a lei non interesserò io e il cerchio si chiude. Allora focalizziamo l’attenzione sul perché una persona non mi interessa, ecco, qui le cose si fanno ben più intriganti. Solitamente una persona non mi interessa quando è aggressiva e becera, due caratteristiche del tutto respingenti per quanto mi riguarda. Se una persona di questo tipo mi sta vicino entro in modalità fastidio, si amplifica l’energia dissonante e mi allontano.

La mia giornata è fortemente segnata dalle assonanza e dissonanza di cui mi faccio tramite. Un fardello che, anche se pesante, mi ricorda che posso fare qualcosa per migliorare la mia giornata. Deve soltanto interessarmi abbastanza per farlo.

Amen.

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(546) Brand

M’è capitato di tanto in tanto – e va bene, lo ammetto, spesso – di non sapere cosa fossi. Il cosa ha a che fare con l’abito da indossare per muoversi e agire in società. Non era un cruccio, era una rottura di scatole. Il mio cos’ero in quel momento era provvisorio, poteva cambiare da un giorno all’altro, dipendeva dal vento e dalla mia pazienza. Il cosa non mi ha mai preoccupata, oggi meno di sempre.

Quand’ero adolescente, invece, mi sono infognata sulla questione dell’essere, ovvero: chi sono? Questo non è affatto un dettaglio, è uno stato che per poterlo modificato ti ci vuole un po’. Peggiorarlo si fa relativamente presto, migliorarlo potrebbe non bastare una vita. Siccome volevo fare un miliardo di cose, e se non ti ci metti determinata e focalizzata non combini nulla, decisi che volevo essere me. L’ideale sarebbe stato essere il meglio di me, ovvio, ma non è che ti puoi vivere al 10% senza poi pagarne le conseguenze e le conseguenze le si paga sempre. Già allora lo avevo capito.

Fatti due conti, sono trent’anni che curo il mio personal branding, che ha a che fare con una certa idea e un certo intento, e non penso più da molti anni se sia la cosa più furba o quella più comoda, quella più idiota o quella più impegnativa. Non ci penso perché non mi piace perdere tempo. Non serve a niente capire quanto io sia intelligente o scema, importa solo dove sto andando e quali sono i miei attuali mezzi per sperare di raggiungere la meta.

Il brand è questione di pancia, non di calcolo. Le forme che il brand può prendere sono frutto di tecnica – bilanciamento degli elementi e armonia – e scegliere la forma che parla davvero di te può non essere la cosa più semplice del mondo, ma ce la si può fare. La menzogna, invece, quella può avere forme stratosferiche, ma una volta che la indossi ti divora.

Il pubblico lo sa, lo sente. L’anima del brand attira anime affini, questo bisognerebbe ricordarlo e bisognerebbe dargli il giusto peso perché le conseguenze arrivano sempre. Puntuali e spietate.

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(545) Proposta

Quando la proposta non è all’altezza delle aspettative… delusione atroce. Vien facile dire “colpa tua che ti crei le aspettative”, guarda che quelle si creano da sole quando dall’altra parte si evocano grandi possibilità e velate premesse. E non sto parlando di promesse d’amore (chi ci ha mai creduto a quelle?), sto parlando di promesse professionali, quelle che partono da discorsi di grande stima e poi si rivelano essere soltanto discorsi di grande interesse personale e basta.

Ci stavo pensando oggi, così, senza nessun appiglio sul presente, in un flashback che mi ha un po’ disturbato. Avevo sempre pensato di essere io quella che si fa prendere dall’immaginazione e vola troppo in alto, e invece potrebbe anche essere che la responsabilità vada dimezzata: 50% per uno. Io che ascolto le tue chiacchiere e che mi creo aspettative, tu che mentre chiacchieri fai in modo di crearmi aspettative. Chi è più infame? Dai, facciamo due conti e facciamoceli bene.

Quello che si evoca ha grande peso nella mente nostra e degli altri, manovrare le evocazioni per proprio interesse (e magari a danno dell’altro) è criminale. Mano a mano che arrivano proposte indecenti (che non si possono neppure sentire, ma vengono portate a te come fossero grazie ricevute e solo in parte meritate) e tu scopri l’inganno, si chiude una porta dentro di te, poi una finestra, poi un’altra finestre e via di seguito. Rimanere chiusa dentro al buio è un attimo.

Pertanto, bisognerebbe che le proposte fossero soppesate bene, bisognerebbe fossero calibrate bene, bisognerebbe smetterla di pensare che le persone siano sempre troppo stupide e quindi pronte per essere prese in giro. Bisognerebbe. Non lo dico solo per un fatto di pulizia morale, ma anche per un mero calcolo delle probabilità: prima o poi qualcuno potrebbe rispondere alla tua proposta con un pugno in faccia. Questo ti auguro, chiunque tu sia, perché approfittarsi dei sogni degli altri è criminale. Tu sei un criminale, e anche se un pugno non sarà certamente abbastanza per farti cambiare intento, almeno per un paio di giorni non starai proprio benissimo. Un paio di giorni son poca cosa rispetto al buio che tu hai contribuito a creare dentro una persona che sta solo cercando la sua piccola felicità.

E sto pensando a tutti i ragazzi e le ragazze che si fanno abbindolare e che si danno in mano a psicopatici viscidi e schifosi. Bastonate sui denti, ogni mattina, per ogni vittima macellata. Dovete per forza sentire il dolore, se non quello dell’anima almeno quello della carne.

Sbang.

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(544) Intervista

Sono stata intervistata e per me non è la normalità, di solito le interviste le faccio io. Grazie all’ascolto e alla capacità di gestire la situazione dei miei intervistatori è stata un’esperienza molto piacevole. Non ricordo esattamente cos’ho detto, perché non c’era nulla di preparato, ma lo saprò appena la riascolterò in radio.

Ho smesso di preoccuparmi, per questo. Forse sono una sconsiderata, per questo. Nonostante ciò faccio affidamento soltanto su una cosa: la mia incapacità a fingermi chi non sono. Questo mi mette al riparo da qualsiasi strafalcione io possa dire.

Nel tempo le cose escono, quelle vere e quelle non vere. Non voglio preoccuparmi di quel che sarà, quindi se resto fedele alla mia piccola verità non corro rischi inutili. C’è una grande apprensione nel cuore di chi non sa affermare la propria piccola verità e si affida al proprio talento narrativo gonfiando la portata del racconto. Le cose poi sfuggono di mano e la valanga ti travolge. Preferisco evitarlo.

Io scrivo storie, racconto storie, ma non mi racconto storie. Sono limitata, finisco presto. Quello che sono fa capo a quello che faccio e quello che faccio non è memorabile, non è magnifico, è soltanto onorevole. Ecco perché chi la racconta troppo grossa mi fa dubitare. Ecco perché chi si proclama umile mi fa scattare come una molla dall’altra parte della stanza. Ecco perché non faccio leva sull’opinione che ho di me per presentarmi agli altri, soltanto sulla realtà che ho potuto/saputo costruirmi e che per me può parlare senza menzogna.

Questa è soltanto una riflessione di fine giornata, non vuole di certo essere una esternazione egoica per prendermi un applauso. Anche perché finché non sono io ad applaudire me stessa nessun altro applauso potrebbe convincermi di essere la persona che vorrei essere. Che tipo di persona vorrei essere? Semplice: una che vive senza paura di essere o non essere, avere o non avere. E resta sempre questo il problema, aveva ragione Shakespeare.

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(543) Vicinanza

Non puoi fingere, non a lungo. Non puoi nasconderti, non a lungo. Non puoi mantenere alto il livello di rabbia, non a lungo. Non puoi rimanere gelido dentro, non a lungo. 

I superpoteri della vicinanza sono devastanti. E lo sanno tutti. È per questo che chi non può sostenere l’intensità che si crea la rifugge come fosse la peste.

Ecco perché chi teme di sbriciolarsi, di farsi niente, mantiene distanze siderali tra sé e il mondo. Da lontano puoi fingere, puoi nasconderti, puoi essere fuori di te dalla rabbia, puoi restare gelido e inaccessibile. Di più, ancora di più: puoi scagliarti contro chi pensi sia debole, puoi muovere qualcuno o qualcosa affinché qualcosa o qualcuno venga distrutto, puoi sputare su tutto quello che nel tuo intimo vorresti ma che non sai ottenere, puoi mortificare, puoi ignorare, puoi far scomparire girandoti dall’altra parte.

Anche i superpoteri della distanza sono devastanti. E lo sanno tutti, ma sono pochi quelli che hanno il coraggio di scegliere l’altra via perché sicuri che questa sia la più sicura. Sicuramente è la più solitaria. La distanza fa morire anche chi pensa di gestirsela bene, di avere in mano il potere per farlo senza colpo ferire. La distanza non lascia nessuno vivo: nel corpo o nell’anima.

La vicinanza sì, prima ti devasta e poi ti ricostruisce. Pezzo dopo pezzo. La vicinanza potenzia l’amore e gli affida il potere. Lo sanno tutti, ma non tutti pensano di poter sopportare tutta quella intensità. Perché sentire, intensamente, la vicinanza di qualcuno è rendersi conto all’improvviso di non essere soli.

È un vero shock, non c’è che dire.

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(541) Topico

Arriva il momento in cui sei chiamato all’azione: il momento topico. Raramente il momento dura un momento, molto più spesso si tratta di giorni o settimane o mesi o anni, ma sempre di periodo topico si tratta. Te lo senti dentro, nelle ossa scricchiolanti, nel sangue reumatico, nelle sinapsi stressate, che non puoi far finta di nulla. 

Un tempo pensavo – che patetica ingenua! – che quel topic-moment si potesse verificare un paio di volte nella vita (se eri fortunato, se eri sfigato qualche volta in più), mai avrei immaginato – patetica ingenua dell’ostrega! – che fosse stato per me programmato un dannatissimo loop capace di accompagnarmi forever

No, non starò qui a lamentarmi perché non serve a nulla, ma faccio solo presente che ancora non me ne so capacitare. Voglio dire: ma siamo matti?! Quanti momenti topici un cuore può sopportare? Eh? Quanti? No, non voglio sentire la risposta, era una domanda retorica santiddddio!

Dovrebbe esserci un limite dettato da Madre Natura o da Dio in persona. Qualcosa che somigliasse a un salvavita del cavolo, appena raggiungi il limite… tac, scatta e te la sfanghi. Perché se non ti uccide il fattore topico, ti uccide l’ansia. Quella non ti passa. Non è che si prende una vacanza solo perché ci tiene alla tua salute, no. L’ansia rimane lì. Anzi, l’ansia è lì per sopravvivere a te stessa. Il suo compito preciso e di osservarti mentre ti disintegri e ridere di te. L’ansia, capito?

Ok, chiarito questo concetto, credo, temo, prevedo con assoluta certezza che sto per entrare nell’ennesimo momento topico. Non so dire quanto durerà, so solo che l’ansia è già qui, mi sta guardando sorniona e vincerà. Sì, lei vincerà perché lei vince sempre.

Addio.

 

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(540) Questione

Questione di buongusto. Questione di buonsenso. Questione di buona educazione. La questione si pone, eccome!

Perché se non è previsto nel tuo DNA, il buongusto e il buonsenso è difficile farteli entrare nel sangue. Ci si potrebbe impegnare anni senza per questo riuscirci. La cosa peggiore è che chi è portatore di cattivo gusto e manca di sale in zucca non se ne accorge. Circola nel mondo seminando petardi come se niente fosse e lo fa con la scempiaggine di chi è convinto di stare nel giusto. La questione non riguarda loro, ma gli altri. Ti scoppia un petardo tra i capelli e ti si incendiano, ma il petardo te l’ha tirato un idiotone, tu che fai?

Se hai buonsenso spegni l’incendio e fai presente all’idiotone che ti ha danneggiato (se non ce n’hai, di buonsenso, gli spacchi la faccia), ma non risolvi nulla. La questione rimane congelata: l’idiotone resta un idiotone e tu resti lì coi capelli bruciati. Amen.

Non si porrebbe alcuna questione se gli idiotoni danneggiassero soltanto loro stessi, ci sarebbe un senso di Giustizia Divina in questo. Si dormirebbe tranquilli. Invece no, non è mai così. Le conseguenze rimbalzano su chi non c’entra un tubo. E lì parte l’embolo.

Una questione da risolvere? Risolvere come? Con il buonsenso. Con il buongusto. Con la buona educazione. Massì, facciamoci del male, illudiamoci ancora e ancora. In fin dei conti non c’è questione che tenga, siamo destinati a estinguerci e in malo modo. E sia!

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(539) Osanna

osanna /o’zan:a/ [dal lat. tardo hosanna, gr. ōsanná, adattam. dell’ebr. hōs-hī’ah-nnā “salva!”]. – ■ interiez. (relig.) [voce ebraica di acclamazione e di preghiera, passata nella liturgia cristiana] ≈ alleluia. ■ s. m., invar. [spec. al plur., grido di esultanza e di esaltazione: gli o.della folla] ≈ evviva, urrà, viva. ‖ acclamazione, giubilo. ↔ abbasso. ‖ contestazione, disapprovazione. ⇓ fischio, pernacchia.

Mi piaceva fare le prove con il coro della chiesa del mio paese quando ero ragazzina. Facevo finta di cantare, ma mi piaceva stare lì. Per inciso: io amo cantare, ma in quel coro facevo finta di cantare. Perché? Semplice: le altre voci mi entravano nella testa come una siringata di adrenalina in pieno petto e la mia voce mi scompariva dentro. Temendo di stonare e fare brutta figura mimavo il canto senza emettere suono. L’ho fatto per anni, nessuno se n’è mai curato.

Le cose che mi infastidiscono solitamente me le gestisco così. So che è assurdo, ma raramente mi impunto per far finire il fastidio. Me lo gestisco come posso.

Che io ancora non abbia sbroccato mollando un pugno sul naso a qualcuno ha dell’incredibile, me ne rendo conto. Conscia di questa mia condizione borderline qualche tempo fa decisi di iniziare a far presente al mio prossimo che NO non mi va tutto bene e NO non ho più intenzione di sopportare/tollerare cose che superano la mia soglia di sopportazione/tollerabilità. Così ho iniziato a fare cose e dire cose che non ho mai fatto/detto e le persone hanno iniziato a reagire. Prima lo stupore, poi il contrattacco con dimostrazione palese di un sentimento di offesa profonda e poi l’affermazione della propria posizione. Questo in generale. In alcuni casi, la reazione ha stupito me per il passo indietro e per le scuse che mi sono state offerte senza per altro averle pretese.

In altre parole: ho smesso di fingere di cantare e mi sono unita al coro. Primo step nella giusta direzione.

In questi ultimi mesi, però, ho dovuto fare un ulteriore passo per una presa di posizione più decisa. Ho iniziato a cantare con forza, per farmi sentire. Dopo il putiferio iniziale, durato qualche mese, le cose si stanno sistemando. Nel senso che si stanno sistemando a mio favore. Niente di eclatante, piccoli spostamenti, ma importanti.

No, non dico che sia finita qui, anzi. Mi aspetto il colpo di coda, ovvio, ma per il momento posso cantare a squarciagola il mio Osanna! senza temere di stonare.

No, sembra cosa da nulla, ma è cosa da far tremare le ginocchia. Fidatevi. Provate.

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(538) Wikipedia

Quand’ero adolescente non c’era Wikipedia. O meglio, c’era l’enciclopedia cartacea e quella poteva avere dai 5 anni (se t’andava dritta) ai 40 anni e te ne accorgevi da quant’erano gialle le pagine e dall’odore che emanavano.

Ho sempre amato i libri, ma non quelli degli altri, non quelli presi in prestito dalla biblioteca, pertanto avere un’enciclopedia mia era d’obbligo. Ne avevo una degli animali, una che parlava di tutto – dalle uova di coccodrillo ai bulloni di un carroarmato – e un’altra che aveva delle foto incredibili scattate in ogni luogo del pianeta Terra ed era la mia preferita perché almeno così viaggiavo un po’.

La cosa brutta è che una volta che ti leggevi tutte quelle pagine era finita la storia. Non potevi fiondarti in rete per scoprire di più, al massimo dovevi andarti a leggere saggi specifici di un argomento o dell’altro e così facevo. Ci fosse stata Wikipedia, con i link e tutto il resto, la mia cultura generale avrebbe fatto un salto quantico da paura. Ne sono certa.

Mi domando, invece, come sia possibile che Wikipedia sia usata dagli adolescenti come bacino dove andarsi a copiare e incollare le righe di cui servirsi (in un compito o una ricerca o che-ne-so-io) – senza manco leggerle prima e valutarle – con la rapidità di un velociraptor impazzito a cui non passa neppure per l’anticamera del cervello che quello sia solo il punto di partenza per approfondire il discorso. Bisogna che glielo dici. Davvero. Bisogna dirglielo e allora, forse, ti faranno la domanda: “Perché?”. E io ho provato sul serio a rispondere, a far comprendere l’importanza di quel dannato approfondire, e ho anche fatto presente l’importanza di un Wikipedia che ti dà la possibilità di andare oltre e tu DEVI andare oltre e scoprire di più e verificare e… ma niente.

Sembra che il mondo possa essere contenuto da Wikipedia e che quel mondo ordinato e nominato sia bastante a se stesso. Loro la vedono così. Ma se a un adolescente gliela puoi far capire, con disumani sforzi ma si può, quando ti capita davanti un adulto la cui logica ha la stessa dinamica ti vien proprio voglia di prendere una mazza e spaccargliela in testa. Perché non ci sono giustificazioni e non ci sono alibi, quando non usi il cervello neppure la tecnologia può far niente per te. Idiota.

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(537) Lestofante

La bellezza della nostra lingua! 

Ci sono parole dispregiative che si celano abilmente sotto altre che suonano benissimo: lesto (veloce, agile) + fante (soldato di fanteria, bambino) = lestofante (furfante, brigante, delinquente ecc.). CortoCircuito Neuronale.

Tempo fa ho coniato un insulto, tutt’ora in uso e fa sempre il suo porco effetto, che definisce chi si trova con la mente dislocata in luoghi poco consoni per poter gestirsi un ragionamento sensato. Ne vado particolarmente fiera. 

Lestofante, però, si porta addosso quell’aura antica che fa pensare a un D’Artagnan sguainante, a un Robin Hood punitivo, a una Lady Oscar determinata a farti rimangiare il malfatto… queste cose qui, insomma.

Immersa in questa amena atmosfera mentale, che vede l’insulto come punto sublime di un’ipotetica rivincita su quella parte del genere umano che meriterebbe solo calci in culo perpetui, sto qui a valutare nuovi modi per catalogare la fauna umana con cui ci si trova in forte disaccordo senza possibilità di incontro. Perché ci viene insegnato a porgere l’altra guancia, ad accogliere ogni individuo per quello che è astenendoci dal giudizio, a essere compassionevoli, comprensivi e chissà cos’altro ancora, ma francamente tutta questa fatica penso sia sprecata. Lo si fa quando ci sono probabilità di cambiare lo stato delle cose, se non ce ne sono allora si passa al piano B: si stoppa la comprensione e si afferma la propria presenza. 

No, non sto parlando di violenza, ma di presenza dinnanzi alla violenza e questa è tutta un’altra faccenda.  

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(536) Nonchalance

Mi piacerebbe tanto saper alzare il sopracciglio, smorzare un sorriso di compatimento, e con mezzo giro su me stessa uscire dalla stanza e dalla situazione come se non fosse importante, come se avessi di meglio da fare, come se stanza e situazione non meritassero la mia presenza e quindi adieu.

Mi piacerebbe tanto, ma non ce la faccio.

Appena mi girano le palle – a torto o ragione non fa alcuna differenza – mi si legge in faccia in modo talmente dettagliato che è una fortuna non essere ancora stata rinchiusa in una cella di massima restrizione. Come Hannibal Lecter, tanto per intenderci. 

Eppure, ammiro la classe di chi ci passa sopra. Ammiro l’eleganza di chi sa che certe sporcature non li possono toccare, neppure sfiorare, e si elevano con grazia. Ammiro il savoir-faire di chi alleggerisce il carico e non si sofferma sui dettagli, scivola via e basta. Ma l’ammirazione non conta nulla, ci vuole talento, una innata predisposizione che a me manca. A comprarla un tanto al chilo ci lascerei giù un rene, non è fattibile. E quindi?

Eh. Niente. Alzerò gli occhi al cielo in cerca di ispirazione, inspirerò calma ed espirerò saggezza, fingerò di essere una damina dell’800 che sorride furbamente dietro il ventaglio. Nel frattempo indietreggerò, cercando di non inciampare, e guadagnerò l’uscita lestamente – per quanto la mia stazza lo permette – cercando di tenere chiusa la bocca. Sprangata.

Non credo funzionerà. 

No, non funzionerà.

Pace.

 

 

 

 

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(535) Drenare

Significa prosciugare. Non è un termine bellissimo, se ci si pensa, eppure viene usato come fosse il segreto per raggiungere la fantomatica bellezza che porta dritto alla felicità. Certo, ti prosciughi il corpo e diventi Monica Bellucci, ti prosciughi l’Anima e diventi il Mahatma Gandhi. Non fa una piega.

Ci sono almeno mille cose – andando non troppo per il sottile – che ci drenano contro la nostra volontà e queste cose fanno capo alla mancanza di rispetto che qualcuno ha nei nostri confronti. Spesso quel qualcuno siamo proprio noi stessi, ridicolo vero?

Mai provato a lavorare per un capo che ti chiede sempre un po’ di più finché non ti lascia esausto per terra? In passato mi è capitato, non fa affatto bene alla salute, né fisica né mentale. Ma lo stesso trattamento lo si può avere anche da persone che ci dicono “ti amo” guardandoci negli occhi come fosse per sempre, mai sperimentato? Ok, parlo per esperienza personale, bisogna scappare a gambe levate. Scappa e basta, la tua salute ti ringrazierà.

Eppure: “Nessuno può farti sentire inferiore senza il tuo consenso”, diceva Eleonor Roosvelt. Aveva dannatamente ragione, ma fare mente locale e un bel mea culpa è doloroso. E già sei drenato, figuriamoci se puoi sopportare ulteriore mortificazione…

Quello che resta di te, dopo che sei stato prosciugato, non serve a nessuno e men che meno serve a te stesso. Hai soltanto voglia di dormire, di morire. E pensi che se stai così è perché non sei abbastanza per colmare le aspettative di chi è diventato il tuo aguzzino – ma tu non te ne accorgi neppure – pertanto sei un Essere inutile. Inutile e basta.

Quando sei proprio in mezzo a tutto quello scoramento, inizi a scavarti la fossa. E ci puoi mettere una vita a farla abbastanza profonda per contenerti, ma se non ti risvegli da quello stato nero ci finisci sul serio là dentro. Ecco, bisogna fermarsi un attimo prima. Giusto quell’istante per darti un auto-schiaffone e farti ripigliare. Prendi in mano la situazione e risanala, solo tu puoi farlo. Nutri ciò che è stato prosciugato, fallo e basta. Comincia ora, fallo e basta.

Una promessa è una promessa, fattela ‘sta promessa e portala fino in fondo. La tua salute ti ringrazierà. Ora.

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(534) Moleskine

Oltre una cinquantina, chissà quante mila-pagine ho scritto in questi ultimi vent’anni. Chissà. Sono la mia memoria, per quando memoria non avrò più. Me l’immagino così la fine della mia vecchiaia: a leggere le pagine della mia vita a ritroso, finché mi cadranno gli occhi e mi si spegnerà il cuore.

La penna a volte corre, altre è trascinata con stanchezza. A volte la calligrafia è impeccabile, altre illeggibile. A volte i caratteri sono grandi e urlati, altre sono piccoli e deboli – come se volessero scomparire. A volte la punta della penna è grossa, altre sottile. L’inchiostro, però, è sempre nero. Il viola lo uso con parsimonia, quando sono felice, nei titoli.

Ne ho provate diverse: con la copertina morbida o rigida, a righe o a quadretti o con pagine bianche (le mie preferite), dimensione mini o classic o extra-large. La mia preferita è la Classic, copertina nera rigida, pagine bianche o a righe. Bianche per la libertà, a righe per l’equilibrio che spesso manca nella mia penna e nei miei pensieri.

A volte ho provato altri quaderni, ma non è lo stesso – chissà perché. Ritorno sempre a lei perché è come se mi conoscesse meglio, come se a nuova Moleskine non ci fosse bisogno di fare le presentazioni. Soltanto un “rieccomi qua”, poi sguardo sulla pagina e penna a tracciare linee d’inchiostro simili ai pensieri. Niente di più e niente di meno.

Moleskine dopo Moleskine la mia vita si compie. Strano, ma vero. Più reale delle ore che scappano via e di tutto questo via-vai che non trova pace e – temo – non trovi neppure un senso che sia stabile e che sia sicuro rifugio.

Mah.

 

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