(669) Cibo

Credo sia l’argomento più delicato che si possa toccare – escluso il tema delle religioni – con chiunque. Ognuno ha la sua teoria e ognuno ha la sua pratica, ognuno si sente punto sul vivo quando un commento anche innocuo sfiora l’argomento e ognuno ha prove certe e insindacabili che si può morire di un certo alimento o dell’altro, tutti esperti, tutti scienziati. Tutti.

Io no. Ho provato una volta sola in vita mia a seguire una dieta, poteva funzionare, certo, ma non ha portato risultati duraturi e soddisfacenti, ma mi ha fatto odiare i ceci (ndr. è una lunga storia). Il punto è che più uno mi impone di evitare certi alimenti e più vengo presa dall’ossessione per quesgli stessi – che magari prima non avevo mai considerato. Psicologicamente parlando sono da manuale, nei fatti mangio quello che mi pare.

E non mangio fino a scoppiare, no. E non mangio come un uccellino, no. Mangio le quantità di cibo che mi sento di mangiare in quel momento, mangio se ne ho voglia e se non ne ho voglia salto il pranzo o la cena. Sempre la colazione, fare colazione per me è la morte. Puoi ripetermi allo sfinimento che la prima colazione è il momento topico della giornata, non me ne frega niente. Al mattino non ho voglia di mangiare nulla, e non mangio nulla finché il mio stomaco non mi fa capire che ha bisogno di essere riempito.

Non sono vegana, né vegetariana, né fruttariana, né crudista, né mangio carne ad oltranza oppure pesce… sono una banalissima onnivora. Onnivora, ma con gusti ben precisi. Soltanto certa carne, soltanto certi tipi di pesce, la frutta quasi tutta, i formaggi molti ma non tutti, la verdura sì ma non tutta e non sempre, evito gli insetti e animali troppo esotici o quelli che proprio non me la sento di mangiare perché preferirei averli come compagnia. Dipende dalla stagione, dipende dall’umore, dipende da come sto fisicamente, dipende da quello che c’è e da quello che non c’è, dipende. D-I-P-E-N-D-E.

Non tutti i giorni ho voglia di mangiare le stesse cose, non tutti i giorni mangio le stesse cose o le stesse quantità o le stesse varietà di alimenti. Il mio quotidiano non è regolato come se fossi arruolata nei marines o come se fossi una modella, sono una persona normale e come tale mi gestisco: a seconda di come mi gira.

Non faccio abuso di cibo, né di alcool, né di cioccolato, né di caffè. Quando esagero mi rimetto in riga senza bisogno di farmi pesare da qualcuno che mi vuole magra, che mi vuole far perdere un tot di chili alla settimana – cascasse il mondo – e se così non avviene mi si rimprovera del fallimento del programma alimentare deciso con bilancini e strategie nutrizioniste. Io non ho intenzione di piegarmi a nessun regime, neppure quello alimentare, serve dirlo?

Il Dalai Lama ha affermato che qualsiasi cibo gli venga offerto lui ringrazia e mangia. Non tutti hanno la fortuna di poter mangiare tutti i giorni, sarebbe un disprezzo per chi non può. Sono d’accordo. Nient’altro da aggiungere.

Il cibo è sostegno ed è piacere. Giù le mani dal mio cibo. E non sto scherzando.

 

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(668) Ruolo

Sapere in che ruolo stai giocando è importante. Se vuoi giocare bene, specialmente se vuoi magari pure vincere. Un ruolo ti legittima a fare quello che stai facendo, oppure ti fa presente che non sei legittimato a fare quello che stai facendo. Un ruolo ti fa stare al tuo posto, ma ti fa anche sentire al posto giusto. Sai che hai dei doveri e dei diritti che sono diretta conseguenza di quel ruolo. Se le responsabilità annesse non ti piacciono, sai che devi abbandonare quel ruolo per adottarne un altro. In poche parole, ti permette di ordinare la tua vita e di gestirtela come vuoi e puoi. 

Me lo chiedo spesso quale sia il mio ruolo nelle situazioni che affronto quotidianamente e quando riesco a focalizzare per bene quello che dovrebbe essere il mio posto e dove in realtà mi trovo – spesso non per mia volontà – il mio disagio trova una spiegazione. Limpida, tangibile, inequivocabile. Se riesco a sistemare quel dettaglio – che dettaglio non è – ho speranza di recuperare il mio fantomatico equilibrio mentale.

Spesso ci troviamo fuori posto. Fuori ruolo. Spessissimo. Soltanto che non lo vediamo perché non focalizziamo lì la nostra attenzione. Quando il peso è troppo, la responsabilità è soffocante, pensiamo di non essere abbastanza forti/bravi per poterla sostenere, ci facciamo mangiare dai sensi di colpa e dalle nostre insicurezze senza mettere in discussione la nostra posizione. La verità è che per la maggior parte del nostro tempo viviamo senza domandarci quale sia il nostro posto. Assumiamo ruoli che non ci competono o che non ci interessano o che non vogliamo o che detestiamo e non sappiamo neppure il perché.

Non ci chiediamo perché siamo dove siamo e stiamo facendo quello che stiamo facendo. Non stiamo giocando, in realtà, stiamo fingendo di conoscere un gioco che ci è estraneo e non osiamo neppure verificare il regolamento per capire da che parte girarci. Ma perché? Perché diamo in mano agli altri i nostri diritti e ci facciamo soffocare da doveri che non dovrebbero neppure toccarci?

In ogni branco c’è una gerarchia di ruoli, chi non si adegua sceglie la via della solitudine. Si combatte per il ruolo a cui si aspira, se non si dimostra di meritarlo ci si apposta diversamente, con umiltà. Noi Esseri Umani preferiamo non pensarci, lasciare che siano gli altri a decidere per noi, e covare rabbia e vendetta, e quando facciamo il botto diamo la colpa al resto del mondo.

Prima chiediti in che ruolo vuoi giocare, poi dai tutto quello che hai per meritartelo e vedrai che le cose cambieranno, la tua vita sarà migliore. Con me ha funzionato.

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(667) Spiaggia

Soltanto se deserta, non ci voglio vedere nemmeno un paguro, solo così la potrei frequentare. Una relazione esclusiva, senza interferenze e senza distrazioni.

Questo per dire che ci sono cose e situazioni (addirittura persone) che riesci ad apprezzare davvero soltanto se c’è una connessione diretta – senza filtri – e senza inclusioni o condivisioni. La mia lista è lunghissima (sospetto di avere un problema, ma non è questo il punto) e anche se me la scorressi più e più volte al giorno, non credo cambierebbe di molto: rimango un’estremista della focalizzazione, non ci posso fare nulla.

Un bel libro che ti viene rovinato dalle chiacchiere del vicino d’ombrellone che mantiene un volume da rave party anche quando sussurra, figuriamoci al cellulare mentre racconta della sua ultima scopata. Presente? Ok, mi metto a leggere un libro solo in un luogo dove le probabilità di essere disturbata si riducono a un buon 10%. Questo è soltanto un esempio, ma credo basti per rendere l’idea.

Ci sono persone che vanno incontrate e conosciute senza avere attorno casino, bisognerebbe farci attenzione, altrimenti rischiamo di non capirci niente.

Una spiaggia deserta ti urla tutta la sua potenza, potenza che merita di essere ascoltata per intero – guai a perdersi anche soltanto un suono. L’attenzione esclusiva ci viene negata continuamente, come fosse un pericolo e non una intrigante possibilità di scoperta e di comprensione profonda. 

Non dico che tutto dovrebbe essere vissuto così intensamente, ma farsi una lista di cose/persone/situazioni che secondo il nostro sentire meritano un’immersione totale, pura e gioiosa del nostro Essere, credo sia un buon consiglio da offrire a chiunque abbia voglia di costruirsi Giorni Così di una certa sostanza. Ecco.

 

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(666) Gabbia

Lavorare con le idee significa imparare a costruire astute gabbie che le possano contenere e nel contempo che permettano loro di crescere e svilupparsi senza sfuggire dai confini imposti.

Lavorare sulle idee significa che ti ci devi mettere dentro quella gabbia e condividere lo spazio con loro, se soffri di claustrofobia peggio per te. L’idea, in generale, respira sempre meglio di qualsiasi Essere Umano – è giusto che tu lo sappia.

Lavorare per donare agli altri le tue idee significa che a un certo punto devi uscire da quella stramaledetta gabbia abbandonando la tua creatura lì. Saprà essere forte senza di te? Saprà farsi valere? Saprà mantenersi compatta e al contempo crescere?

La gabbia è bastarda. Contiene, costringe, soffoca. E ripara. Ogni gabbia lo fa, ogni dannata gabbia lo fa. Maledette.

D’altro canto le idee sono ribelli guizzi, irrefrenabili risa, scatenate frecce, energia che non puoi tenere tra le mani e non puoi incatenare. Ingabbiare però sì. Come sia possibile lo si impara presto, lo sappiamo fare tutti: disciplina, coerenza, costanza, pazienza, capacità spiccata di problem solving. Le idee, in realtà, non odiano le gabbie perché sanno di averne bisogno altrimenti non si concretizzano. Non si arrendono alle sbarre, questo no, ma si fanno modellare e si rendono docili, malleabili, se trattate con rispetto. Sanno di come vanno le cose meglio di noi, meglio di me.

Le mie gabbie mi sentono nemica, ma ormai hanno capito che il mio sfinimento le vedrà vincitrici. Non ci voglio neppure pensare. ‘Notte.

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(665) Lucidità

Faccio fatica a mantenere il controllo. Ormai è un dato di fatto. Faccio fatica. Non significa che l’ho perso il controllo, significa che faccio fatica. Fatica. Fatica. Fatica. 

La fatica uccide la lucidità. Quindi in realtà ho perso la lucidità. Eccoci al punto.

Essere lucidi è essere veloci, agili, vigili. Una gran condizione per affrontare qualsiasi cosa il mondo ti butti addosso. Lascia stare l’intelligenza e la sensibilità, perché spesso sono proprio loro a minare la lucidità di pensiero. Un giorno un amico mi ha detto: “Sei talmente intelligente da risultare stupida”. Sbang. Estremizzare l’intelligenza non ti rende migliore, evidentemente. La sto ancora digerendo ‘sta cosa, comunque. Vabbé, piano piano, ho i miei tempi.

La sensibilità, che è propria di chiunque al mondo respiri (mondo vegetale compreso), riduce drasticamente la capacità di discernere, di comprendere, di tenere le briglie di una realtà che cambia e si stravolge a seconda dell’angolazione da cui la guardi. E siamo tutti in balìa degli eventi – volevo aggiungere un’ulteriore banalità, così da rendere evidente la mia stupidità (no, non l’ho ancora digerita).

Ritornando alla faccenda del controllo, ormai me ne sono fatta una ragione: tutto quello che riesco a maneggiare con padronanza si può contare sulle dita di una mano, una mano di tre dita – tipo Ben-nemico-del-mal (ndr. che tutti noi quarantenni conosciamo bene) – e mi rifiuto di trasformare questo limite in un cruccio. Va bene, me ne posso fare una ragione, non controllo un cavolo fritto da una vita e non cambierà mai, neppure con l’avanzare della vecchiaia. Amen. 

Ciò non toglie che la lucidità me la voglio riprendere, non so ancora come, ma voglio proprio riprendermela tutta. Al più presto. Grazie.

 

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(664) Acquerello

Stendo il colore a veli, ecco cosa faccio. Una cosa delicata e come tale deve essere trattata. Non è così però che viene accolta. Non c’è cura in chi osserva questo mio fare, sembra che sia cosa da nulla, ma velare la realtà con i colori è il mio modo per rendere tutto più bello. Anche quando il bello si fatica a trovarlo. Questo faccio. Cosa da nulla, mi ripetono, ma io continuo a farlo perché un altro modo di vivere non l’ho ancora trovato – molto probabilmente. Il modo di vivere degli altri non mi convince, preferisco il mio. Mi auguro che funzioni per tutti così, deve funzionare così per tutti perché tutti possano abbracciare quella sottile libertà che è scelta e che è colore.

Certo che in sere come queste vengo annullata dall’idea di inutilità che è sempre lì in agguato, ma sono decisa a continuare. Stendo un velo di colore e provo a rendere concreta quella sfumatura che sfugge al controllo. Se riesco a riportarla sulla carta così come l’ho sentita forse ho ancora una speranza.

Comprendere troppo gli intrecci umani non è sempre una buona cosa, comprendere non è sempre una buona cosa. Solo che girarsi dall’altra parte non mi è possibile. Non mi è proprio possibile.

Tolgo le asprezze, spennello ombreggiature, l’acqua aiuta a non marcare troppo i contorni, toglie alcuni ostacoli. Non posso smettere di farlo, non posso smettere di comprendere, posso farlo meglio. Posso solo cercare di farlo meglio. La stanchezza, l’amarezza, l’arrabbiatura, tirano calci che mi fanno vacillare eppure intingo il pennello nel colore che sento amico con gocce che l’aiutano a scivolare sul foglio e sia quel che sia.

Dormirò il mio sonno, anche stanotte, senza timore.

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(663) Basilico

Ho sempre apprezzato il basilico, non ho mai mangiato volentieri il pesto. Vado a scoprire dopo anni e anni e anni che mangiare le foglie del basilico mi provoca enormi e dolorosissime coliche. Questo per dire che pensavo fosse innocuo e invece per me è veleno.

M’è successo anche con certe persone. Pensavo mi facessero bene, ho scoperto che mi stavano avvelenando. E non è successo una volta sola, ci sono cascata più spesso di quanto io stessa sia disposta ad ammetterlo.

Una volta pensavo che più sbagliavo e più ero sbagliata, dopo anni e anni e anni di errori ho cambiato idea. L’ho fatto per non dovermi togliere di mezzo, probabilmente – lo chiamerei istinto di sopravvivenza.

Questo pensiero parte dal basilico e come al solito si butta a testa bassa nella vasca senza fondo della mia mania introspettiva, d’altro canto funzionano così questi miei giorni, ma penso sia più giusto guardare me stessa e tirare fuori da me le cose piuttosto che puntare il dito contro gli altri e tirare fuori le loro cose. Non sono un’invadente per natura, lo divento quando mi si lascia lo spazio, quando mi si invita a esserlo.

Da me si può arrivare all’intero Genere Umano con solo un balzo: capita spesso che ci nutriamo di qualcosa che pensiamo ci stia facendo bene e invece ci sta togliendo poco a poco, a volte anche senza dolore evidente, la vita. Accorgersene in corso d’opera è normale, far finta di nulla e arrivare alla morte pur di non ammettere che ci siamo sbagliati è da idioti.

Non ci sbagliamo perché siamo sbagliati, ma per un mero calcolo delle probabilità. Ci sono sempre più probabilità che quel che crediamo si riveli un’illusione di quelle che si scoprono come solide verità. E comunque sia: il basilico non lo mangio più, al massimo ne apprezzo l’aroma.

Ho imparato, sembra. E con soltanto una poderosa colica. I messaggi diretti son quelli che danno i migliori risultati, a quanto pare.

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(662) Tolleranza

tollerare v. tr. [dal lat. tolerare, affine a tollĕre “levare”] (io tòllero, ecc.). – 1. a. [mostrare pazienza e rassegnazione di fronte a fatti o situazioni spiacevoli: t. un’ingiustizia] ≈ accettare, (fam.) mandare giù, (fam.) sciropparsi, sopportare, (non com.) sorbettare. ↑ arrendersi (a), cedere (a), rassegnarsi (a), subire. ‖ consentire, permettere. ↔ insorgere (contro), opporsi (a), reagire (a), respingere, ribellarsi (a), rifiutare. b. [con riferimento a persona, accettare a malincuore la sua presenza] ≈ (fam.) mandare giù, reggere, (fam.) sciropparsi, sopportare. ↔ apprezzare, gradire. c. [considerare con indulgenza punti di vista, comportamenti e sim. diversi dai propri] ≈ accettare, accogliere, ammettere, comprendere. ↔ contrastare, opporsi (a), respingere, rifiutare. d. [non essere contrario all’uso di qualcosa e sim.: t. l’uso di droghe] ≈ ammettere, autorizzare, consentire, permettere. ↔ interdire, proibire, punire, vietare. 2. (estens.) [mostrare una buona resistenza a disagi fisici o materiali: t. il caldo] ≈ reggere, resistere (a), sopportare. ↔ patire, soffrire. 3. (estens.) [considerare la possibilità di uno scarto da quanto precedentemente fissato: t. un piccolo ritardo] ≈ ammettere, consentire. ↑ (fam.) chiudere un occhio (su), passare sopra (a). ‖ giustificare, scusare. [⍈ CAPIRE]

Tollerare è un verbo che non mi convince. In certe occasioni lo trovo appena inevitabile, ma quando si tratta di “mandare giù” o di “sopportare” credo sia pericoloso. Se ti imponi di accettare, non è accoglienza, è un countdown che finisce nello sbrocco – quello brutto per di più. Diventi una pentola a pressione e il risultato è già scritto.

In più di un’occasione ho abbracciato la tecnica della tolleranza e non è mai finita bene. Non so fingere, neppure per mio tornaconto. Se una cosa non mi va giù, non mi va giù e basta. Metti anche il caso che mi sia infognata nelle ragioni sbagliate, non migliora la situazione se ingoio il rospo e faccio buon viso a cattivo gioco. Rimando soltanto il momento della verità. Il che è peggio perché nel frattempo ho covato malessere.

Detto questo: ci sono delle cose o delle persone che sanno essere profondamente fastidiose e andarci a patti è un diavolo di casino. Appurato ciò bisogna trovare il modo di sistemare le proprie posizioni senza dover per forza rinunciare alle nostre sacrosante ragioni. Quando si tratta di cose viene più facile, con le persone ci sono complicazioni e conseguenze a non finire. Con le persone bisogna tirar fuori risorse che ci costano fatica: comprensione, empatia, accoglienza. Grande fatica.

Non è mai, credo, una lotta contro l’altro, ma una lotta contro il fastidio che un comportamento o un’abitudine o un’indole ci scatenano. Il fatto che siamo comunque diversi, anche quando siamo fin troppo simili, non facilita di certo le cose. Eppure, sono sempre più convinta che tollerare il fastidio sia una certezza di rissa futura. Ci dobbiamo appellare, dunque, al concetto di tolleranza zero? Eh, mi viene da ridere. E se togliessimo come concetto quello proprio di tolleranza e lo sostituissimo con quello relativo a compromesso?

compromesso² s. m. [dal lat. compromissum]. – 1. (giur.) [accordo con cui le parti si impegnano a stipulare un futuro contratto, spec. di compravendita] ≈ (accordo) preliminare. 2. (estens.) a. [accordo in cui ciascuna delle parti rinuncia a qualcosa: venire, arrivare a un c.] ≈ accomodamento, transazione. b. [rinuncia ai propri principi: una vita di compromessi] ≈ cedimento, ripiego. 3. (fig.) [fusione di elementi diversi: un c. tra il vecchio e il nuovo] ≈ ibrido, (fam.) via di mezzo.

Sì, mi rendo conto ci siano dei rischi pure in questo caso, ma le cose possono cambiare, le persone raramente lo fanno… si aggiustano o si guastano del tutto, ma diverse non potranno mai esserlo. Esattamente come non potremmo essere noi diversi da noi stessi. Sarebbe buttarsi in braccio all’insanità mentale, no?

Ogni volta che ho pensato di poter tollerare senza esplicitare il mio malessere in proposito l’ho fatto per non ferire qualcuno o per non far scoppiare una situazione che già stava in bilico. Ho pensato che prendendomene il peso avrei evitato lo scatafascio, mi sbagliavo. Mi sono procurata ferite brutte in nome di una tolleranza forzata, ho buttato giù muri a suon di testate e potevo evitarmelo se non mi fossi data all’accettazione scellerata.

Il compromesso, quello buono, quello efficace, quello giusto, tiene conto di ogni parte in causa. Si preoccupa di distribuire il fastidio affinché non risulti insopportabile per nessuno. Impone delle regole che avvicinano alla convivenza e non allontanano gli animi facendoli rodere nel silenzio. In fin dei conti, siamo fatti per vivere uno accanto all’altro, non ci sono abbastanza picchi sull’Himalaya per accoglierci come eremiti… facciamocene una ragione.

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(661) Moltitudine

Quando è troppo è troppo. Una moltitudine per me è sempre troppo. Preferisco poche cose per volta, poche persone per volta, pochi pensieri per volta, poco insomma. Nel poco riesco a destreggiarmi meglio, riesco a fare meglio.

C’ho messo un bel po’ a rassegnarmi che contenevo moltitudini (grazie Walt Whitman) e che andava bene così. Temevo per la mia autenticità, eppure una cosa non va a inficiare l’altra – ho scoperto in età matura.

Man mano che accettavo la mia moltitudine riuscivo a individuare quella altrui, un po’ destabilizzante ma un cambiamento opportuno per la sopravvivenza. E a un certo punto il giudizio quello brutto cade, ci si sente persi, sembra che tutto sia lecito e tutto plausibile. L’età avanza e recuperi i filtri, riprendi in mano il tuo metro per misurare e valutare secondo altri criteri: quel che per te va bene ed è giusto e quello che non lo è. Dai per scontato che non sia un parere universale, è soltanto il tuo. Questo ti permette di ripercorrere il concetto di “moltitudine” con una certa serenità nell’anima. Segui la voce che ti rassicura: “Va tutto bene”.

A volte le credi, altre meno, ma lei non smette di restarti accanto e intanto il tempo passa.

Ci sono diversi strati dentro di me, alcuni me li sono dimenticati sotto la polvere, altri li ho archiviati perché non mi servono più. Faccio fatica a buttarli, e non lo so il perché. Un dato di fatto è che troppe cose e troppa gente mi creano ancora fastidio, troppo rimane troppo per me. Forse perché ho imparato come stare immersa nel niente. O forse me la sto soltanto raccontando, mah!

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(660) Lordo

Il peso lordo delle cose non dovrebbe essere trascurato. Certo che poi è il peso netto che ci interessa, ma il peso lordo è il carico completo ed è fondamentale tenere ben presente che gli si aggiunge la tara e dobbiamo valutare l’insieme per capire se possiamo prenderci carico di tutto oppure va al di là delle nostre forze. 

Spesso il carico  è troppo. Noi pensiamo di poterlo fare, ma più che altro lo vorremmo e ci auguriamo di poterlo fare. Ci illudiamo di essere abbastanza forti, abbastanza capaci, abbastanza attrezzati. E non è che se arriviamo fino alla fine è perché lo siamo davvero, ma soltanto perché siamo stati ostinati, coriacei e stakanovisti – forse persino masochisti. Insomma, alla fine siamo stremati e ci domandiamo: “Ne è valsa la pensa?”. Quando te lo domandi, la risposta è ovvia: “No”. E ti senti un idiota.

Che noi possiamo fare quasi tutto – noi Esseri Umani – se lo vogliamo davvero, è un dato di fatto. Ma che tutto quello che ci mettiamo in testa di fare sia la cosa giusta per noi non è affatto detto. Anzi.

Non ho mai valutato con criterio il peso lordo, lo davo per scontato, facevo conto che siccome mi sentivo forte lo potessi maneggiare, domare, modellare mentre le cose si sviluppavano. Sono arrivata fino in fondo, sempre, senza darmi la possibilità di mollare prima perché sarebbe stato quello il vero fallimento: mollare anzitempo. La tara delle cose ha finito per seppellire ogni entusiasmo, ogni scintilla, ogni tremore, ha soffocato tutto dentro di me – tutto tranne la ragione. La colpa è mia, me ne devo prendere la responsabilità.

Mai sottostimare il peso lordo delle cose. Mai.

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(659) Pavone

C’è solo il pavone che può permettersi di fare il pavone. Primo perché lo è, e nessuno lo può confutare, e secondo perché è bellissimo e anche questo è inconfutabile. Chiuso il discorso.

Parliamo di cosa dovremmo fare davanti a chi pavone non è ma lo fa. Tu stai lì e lo guardi sfoggiare una miserevole boria e ti vien voglia di dargli una testata. Non lo fai. Un po’ perché il mal di testa conseguente te lo vuoi evitare, un po’ perché la violenza se puoi te la risparmi. Ma ti rimane la voglia, quello sì.

I vanagloriosi sono un popolo vasto, vastissimo. Un vero e proprio ammasso di decerebrati che fa sfoggio di tutto quello che non possiede: intelligenza, sensibilità, eleganza, stile. Questi gap incolmabili sono enormi buchi neri che si palesano a chiunque sia dotato di un minimo di decenza, pudore, buongusto (oltre che intelligenza, sensibilità, eleganza e stile), e lo spettacolo è impressionante. Non ci si può credere di quanto sia profonda la pochezza d’animo di questi campioni di ben poca umanità. 

Trovare un modo efficace per far chiudere loro la coda una volta per tutte ed evitare in contemporanea la violenza fisica, secondo me, non è umanamente possibile. Non la capiscono che sono fuori luogo, che sono disgustosi, che sono dei cialtroni senza sostanza, che sono tenuti per decoro a starsene zitti. Non la capiscono. Non possono. Averne compassione, forse, è la strada. Ma per riuscirci bisognerebbe essere evoluti, io non lo sono. Io mi fermo alle mani che prudono e alla voglia di mollargli una testata sul naso. Mi fermo lì, al pensiero. Ma non perché sono buona, soltanto perché non voglio sprecare energie preziose. Mi ritraggo per mancanza di coraggio? O per pigrizia? O per indifferenza per le sorti del genere umano? Non lo so. 

Non sono indifferente, in realtà, forse sono soltanto stanca di fare la Don Chisciotte della situazione. E poi mi fa male la testa. 

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(658) Claustrofobia

A causa sua mi sono persa il tour dentro ai cunicoli della piramide di Cheope a El Giza. Mi rode ancora, ma non ho potuto farlo, non ho potuto neppure immaginarmi piegata e pigiata dentro quel budello maleodorante per tanti tanti tanti minuti senza via d’uscita rapida e senza nessuna certezza sul fatto che avrei potuto rivedere il cielo e respirare aria buona prima o poi. Mi sono persa un’occasione d’oro, ma mi sono salvata la vita.

Non fregherà nulla a nessuno di questo mio ricordo ridicolo e dell’allegato rimpianto, ma la questione è che sto facendo mentalmente una lista di tutte le cose che mi sono persa perché una paura o l’altra c’ha messo lo zampino e, in tutta sincerità, pensavo peggio. Davvero, pensavo peggio. Mi ha fermata più la pigrizia che la paura e – anche se non tutti saranno d’accordo con me – credo che sia meglio essere pigri che paurosi. Cioé, io mi piaccio di più se mi penso indolente piuttosto che priva di coraggio.

Ho fatto anche la lista di cose che non ho mai affrontato perché mi sembravano idiote, inutili, controproducenti, e lì sì che mi sono stupita: è lunghissima. Nessun rimpianto, penso ancora di aver fatto bene a risparmiarmi la fatica dell’attraversare quelle che mi si erano presentate fin dall’inizio epocali fail. Il dubbio che magari una o due volte io mi sia persa davvero qualcosa di bello mi rimane, ma alla fine della fiera me ne frega ben poco.

Resta il fatto che dentro la piramide non ci sono andata e che mi dispiace, ma la questione claustrofobia uno non se la può mettere in tasca a comando. Oppure sì? Ora che ci penso riesco a bypassarla se devo prendere l’ascensore, perché la pigrizia la vince con una certa prepotenza (le scale? Ma che scherzi?!), ma se mi si chiede di infilarmi in un tunnel stretto e angusto, che scende sotto terra o sale al cielo e io non ne vedo la fine…

no, punto le zampe e faccio massa come un gatto davanti a una pozza d’acqua. Miaaaaaaaaaaaaoo!

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(656) Elevazione

Quel tanto che basta per non farsi tirare dentro dalle cose e dalle persone che sguazzano nel marasma e hanno tanta voglia di includerti nei loro piani autodistruttivi. Ti fermi, inquadri la situazione, t’imponi di non vacillare, fai un bel respiro e poi ti elevi con un elegante: “Grazie, no”. 

Ok, se ti sembra un po’ troppo brusco – ma il tono della voce è tutto, ricordalo – ci si può mettere d’accordo cercando una frase più adatta. Quella che non ti provoca sensi di colpa, rimorsi o ripensamenti, quella che a dirla non t’inciampi perché liscio è il tuo pensiero in merito e limpide le tue intenzioni. 

Non serve inventarsi una scusa, basta essere assertivi. Ricordiamocelo.

Ora, però, vediamo che cosa possiamo fare per realizzare quel saltino quantico che ci permette l’elevazione. Per esempio, anche se io non faccio proprio testo in quanto equilibrio mentale, io mi prendo un caffè al guaranà perché ha un buon sapore, è energetico, e lo bevo in una tazzona termica che mi posso portare ovunque. Tipo copertina di Linus. Un’altra cosa che faccio per distaccarmi dal marasma e restare ferma su una posizione neutrale per farmi un’idea riguardo l’origine del marasma. Se è qualcosa che proprio non mi appartiene mi è facile dire no, ma è anche vero che attiriamo le cose che ci mettono in crisi apposta per poterle superare, quindi l’attrattiva a volte è forte. Mettiamo in conto anche che non sempre ho voglia di accrescere la mia consapevolezza – non ambisco all’Illuminazione in questa attuale vita – mi piaccio anche quando sono nel dormiveglia e posso sognare per i cavoli miei, quindi facendomi un paio di domande mi sgamo abbastanza in fretta. 

La parte più difficile è tenere botta una volta che ho deciso da che parte stare – ovvero dalla mia – perché le insistenze, le invadenze, le reminiscenze, i sensi di colpa maledetti ecc. ecc. intaccano enormemente la mia assertività. Allora lì, udite udite, posso usare la mia arma segreta: la pigrizia.

Sì, lo so, ai più sembra essere un difetto, ma ogni cosa la si può considerare una medaglia con doppia faccia e vi assicuro che la pigrizia è l’unica capace di potenziare la mia assertività. Quel forte “non c’ho voglia proprio per un caxxo” che sento rimbalzarmi dentro al cervello – per propagarsi a ogni nervo del mio corpo – mi ha salvato spesso da catastrofi annunciate che stavo per abbracciare soltanto per non sentirmi un verme per non averlo fatto.

Contenere moltitudini, mio caro Whitman, è un casino. Penso tu lo sapessi, ma penso anche che riuscivi a maneggiarle molto meglio di me. I miei limiti non aiutano, me ne rendo conto. Vabbé… e-l-e-v-a-t-i-o-n!

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(655) Ritorno

Il bisogno di spostarmi da un luogo all’altro è sempre stata la spinta che mi ha permesso di bypassare la mia pigrizia e anche alcune mie paure. Proprio queste paure, non ricevendo da me nutrimento, si sono andate ridimensionando e alcune sono del tutto sparite. Ho sperimentato chi sono quando viaggio, quando mi tolgo dalla mia comfort zone e, mano a mano che crescevo, sono venuta a patti con certe mie idiosincrasie e le tremende ansie – massì, mettiamoci dentro anche loro. 

Mi piace tornare a casa e ricomporre i pensieri, al sicuro nel mio ambiente, dove trovo le persone che amo e gli oggetti che parlano di me. Sto bene dove sto, ma…

Prendere l’auto e andare, è una delle cose più belle che posso immaginare per me. Guidare, la libertà più cara. Anche prendere un aereo e oltrepassare confini territoriali che l’uomo ha deciso per sé e i suoi simili è un privilegio enorme. Andare, anche lontano, e poi ritornare.

Se rimani troppo attaccato al tuo luogo, se non alzi lo sguardo, se non ti apri e se non ti rendi vulnerabile, come puoi incontrare il mondo? No, non sto dicendo che se non ti muovi non capisci il mondo, perché menti sopraffine hanno capito bene il mondo anche quando il mondo sembrava essere grande come un fazzoletto. La comprensione del mondo la si fa scavando e proiettandosi in cielo.

L’incontro con il mondo è un’altra cosa. Magari mentre lo incontri non ci capisci un’acca, ti si incasinano le sinapsi, ti vien voglia di scappare via, ma… poi, quello che hai assorbito inconsapevolmente ti ritorna, riaffiora in superficie per farsi guardare meglio, farsi gustare meglio. Questo accade a ogni mio ritorno a casa, sempre.

Per me ogni viaggio non ha mai un solo ritorno e neppure una sola andata. Sarà che sono nata strana, ma questa cosa la vivo come una delle mie caratteristiche migliori.

[Sì, ne ho altre e non lo dico per vantarmi, è proprio un dato di fatto. Così io, così ogni Essere Umano, ovviamente]

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(654) Incantesimo

Vi è mai capitato? Di sentirvi come storditi, fuori centro, allucinati (senza esservi dopati in alcun modo)? Non in un modo brutto però, come se foste usciti da un luogo incantato di malavoglia, con ancora attaccata addosso quell’atmosfera che vi ha fatto stare così bene? Ecco, così. Esattamente.

La realtà richiama all’ordine. Quale ordine poi? Chi lo sa. 

Piombare nell’ordine che ci è proprio dopo che siamo stati innamorati persi per due settimane non è il massimo della vita. Sembra piuttosto la morte del cuore e del cerebro. Ecco, quasi così. Quasi esattamente così.

Bisognerebbe allora evitare gl’incantamenti? Mah. 

Rassegnarsi a un beige uniforme per ricoprire le pareti di casa è sconfortante, tocca inventarsi qualcosa per attutire il colpo, morbido ma non troppo, che regga il colpo di coda del ritorno e dell’ineluttabile. Buttarsi sul cibo spazzatura? A volo d’angelo. Immergersi nella seconda stagione di Luke Cage? Diamolo per scontato. Ma potrebbe non bastare.

Tocca rimettersi al lavoro. Tocca tirare fuori una buona idea e concentrarsi su quella. Tocca ignorare l’ordine per ricreare il disordine di ciò che si compone piano piano per mostrarti la sua forma soltanto dopo un po’ che gli hai dedicato l’anima. Bisogna correre ai ripari e iniziare subito, senza pensarci troppo, senza calcolare i se e i ma e i forse e i perché. Dopo, dopo, dopo!

Bisogna. Ora!

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(653) Jazz

Un ricamo, un volo con ritorno e nuovo volo, un dare per raccogliere altrove, un passo e poi un altro in direzione arzigogolata, ma efficace. Tenere il ritmo a suon di Jazz è un’impresa. Ma si può fare.

Devi solo essere disposto a rischiare un po’. Ti affidi al Cielo e a quel che verrà.

In questi giorni sto vivendo un’avventura Jazz che non mi sarei manco mai immaginata, a raccontarla ora mi vien difficile perché ne sono immersa fino oltre il collo e le parole vanno dove vogliono senza chiedermi il permesso. Non ho voglia di fermare i pensieri, non ancora. Allora perché sono qui a scrivere? Perché il mio impegno l’ho preso sul serio, mi ero promessa che nonostante tutto lo avrei fatto, anche quando completamente incapace di tenere le briglie in mano – nonostante non abbia bevuto un solo goccio d’alcool. Eccomi qui, allora.

Avere la festa nel sangue, le orecchie alla Dumbo che sventolano seguendo note e voci. Così mi sento.

E mi rendo conto che si tratta di uno stato d’animo benedetto che dovrei metterlo al sicuro per tirarlo fuori quando l’energia scarseggia, quando il grigio sale al trono usurpando il potere, quando le risorse mancano così come manca l’aria. Dovrei pensarci ora, ma come si fa?

Rincorrere il cuore che saltella? Domare i neuroni che sfrigolano? Ma perché? Lascia che il caos faccia il suo lavoro, ci sarà altro tempo per rimettere in ordine.

And all that jazz!

Come on babe, why don’t we paint the town, and all that Jazz
I’m gonna rouge my knees and roll my stockin’s down
And all that Jazz
Start the car, I know a whoopee spot
Where the gin is cold but the piano’s hot
It’s just a noisy hall, where there’s a nightly brawl
And all – a-that – Ja-yazz
Slick your hair and wear your buckle shoes, and all that jazz
I hear that Father Dip is gonna blow the blues, and all that jazz
Hold on hon, we’re gonna bunny-hug
I bought some aspirin down at United Drug
In case we shake apart and want a brand new start
To do – a-that – Ja-yazz
No I’m no-one’s wife, but oh I love my life
And all… that… Ja-yazz… that Jazz!

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(652) Farina

Indispensabile, ci ha permesso con un pizzico di creatività e di pratica di sopravvivere per millenni. E chi lo avrebbe mai detto che lo avremmo fatto così bene? Che avremmo imparato a usare la farina per alzare il livello di mera sopravvivenza a livello gourmet 2.0? La storia che ci racconta la farina ha dell’incredibile, secondo me, e non finirà mai.

Pensando a tutto questo, non so come sono arrivata a pensarci perché non ricordo da dove sono partita, ho iniziato a valutare quanto quello che poi facciamo nella nostra vita sia impastare la nostra farina – fonte di nutrimento in trasformazione – per farne qualcosa che risulti: buono, sostanzioso, diversificato. Ognuno di noi ha la sua ricetta per arrivare al risultato che più gli pare, dandosi la possibilità di risistemarla a seconda della necessità, dell’occasione, delle possibilità. 

Provo grande ammirazione per chi si è impastato per bene la propria esistenza, golosa di carpire segreti che mi sono ancora preclusi e che potrebbero aiutarmi a fare meglio. A volte, sotto, ci sono dei piccoli atti coraggiosi che potrebbero passare inosservati ai più e che hanno saputo creare un ambiente ideale per nuove e fortunate situazioni. L’importante è tirarsi su le maniche, alla farina aggiungere acqua e altri ingredienti che sappiamo indispensabili (sale, lievito ecc.), e di buona lena impastare. Farlo noi, non farlo fare a un robot. Farlo noi, metterci la nostra forza, la nostra volontà, la nostra tenacia. Sappiamo farlo, sappiamo come farlo, dobbiamo solo scavalcare due metri di pigrizia atavica, e che sarà mai?!

La ricetta ce l’abbiamo, non usarla sarebbe un vero peccato, no? 

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(651) Purezza

Squarci di Essenza Celeste rimasti impigliati tra le maglie del nostro ipertrofico ego che riescono a farsi beffe di noi e sberluccicano in superficie: questa è la purezza per me. La si può trovare ovunque in giro, ma non troppo spesso sennò la si potrebbe considerare a buon mercato e perderebbe il suo effetto wow. Inutile lamentarsi che ce n’è troppa poca, che ne siamo carenti, inutile. Se ne avessimo di più la tratteremmo come ovvia, poco preziosa, roba da sprecare. Siamo fatti così noi. Non bene, ma siamo fatti così.

La cosa bella, secondo me, è che non la cogliamo in noi, ma negli altri. Credo sia notevole questo particolare perché è il fattore incontrollabile che ci avvicina ai nostri simili: rimani colpito da quello squarcio di purezza che cogli – a sorpresa – in un altro Essere Umano e sospendi per un istante il respiro e il pensiero. Bellissimo. Poi puoi anche ricominciare a odiare tutti, non importa, intanto il dubbio ti si è insinuato dentro e non vedi l’ora che ricapiti di nuovo. Starai più attento, sarai più in ascolto, perché speri che risucceda. Siamo fatti così noi. Malgrado i nostri sforzi, siamo ancora capaci di cose piccole e splendide.

Certo che è più probabile coglierla in un bimbo, la sacrosantapurezza, ma non è detto. Riesce a uscire allo scoperto quando le difese sono basse, quando un certo buonumore ci scorre dentro, quando un raggio di sole improvviso ci bacia in fronte. Scoperti e vulnerabili rendiamo palese un flebile candore ed è fatta. Da lì la meraviglia che consegniamo al mondo, inconsapevolmente, fa aumentare la possibilità che il mondo venga da noi – tutti noi – illuminato. 

Una questione di tenebre proprio. Che stai lì con la tua fida spada laser e fai del tuo meglio affinché l’innocenza del mondo venga difesa con onore. Come se fossimo stati sparati dentro Star Wars e fossimo tanti cloni di Luke Skywalker intenzionati a risollevare le sorti dell’Alleanza Ribelle. Proprio così.

La purezza di uno sguardo che coglie senza rubare. La purezza di un ascolto senza secondi fini. La purezza di un tocco che conforta senza pesare. La purezza di un sorso d’acqua che disseta e riporta in vita. La purezza di un respiro che fluidamente va e viene senza trattenere, senza sospendere, senza togliere. La purezza di un saluto che sorride, di una presenza che ti apre a un mondo che non conoscevi e ti fa felice, di un sussurro per non disturbare, di un silenzio che non invade, di un sospiro per non lasciare perdere e restare – ancora un po’. 

Mi piacciono questi squarci che mi abbagliano ogni tanto, non credo smetterò mai di cercarli. In ogni cosa, in ogni persona. Perché siamo così, perché sono così.

 

 

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(650) Compromessi

Decisamente vero. A forza di compromessi si perde la bussola. E io sono sempre stata molto attenta a non cedere in situazioni in cui sentivo che sarebbe stato solo l’inizio e che poi sarebbero stati dolori a ritornare sulla mia strada. La mia strada, sì, perché ognuno di noi ne ha una sua e questa potrebbe anche non incrociare altre strade già troppo battute e bisogna pensarci bene a quello che si lascia o si può guadagnare ad ogni passo che compi. 

Alla mia non più verde età posso dire di aver fatto bene, ho fatto bene perché sono ancora sulla mia strada ed è la mia e io mi ci trovo in equilibrio con dignità intatta. Eppure non è che i compromessi ora non siano più un rischio, lo sono sempre. La mia visione è però cambiata, questo un po’ mi impensierisce. Mi sono accorta che certi compromessi non sono lì per portarti fuori strada, ma per farti guardare meglio la strada. Sembra complicato, ma non lo è, anzi è piuttosto semplice: le cose non sono mai soltanto quelle che vediamo dal punto in cui ci troviamo, sono sempre molto di più. Quel molto di più lo si può vedere spostandoci un po’ di qua e un po’ di là, a volte per farlo bisogna fare un passo laterale un po’ più ampio e quello potrebbe essere considerato un compromesso.

Per avanzare, diciamo nove volte su dieci, spostarsi e abbracciare un piccolo compromesso è quasi la regola perché le cose esattamente come le vogliamo noi non esistono. Non esistono proprio. Nella nostra testa ci costruiamo la situazione ideale senza prendere in considerazione la realtà e le sue dinamiche, eppure ci intestardiamo a rimanere lì ancorati mentre la vita ci sorpassa a destra e via. In questo delirio guardiamo ai compromessi come tentazioni del Diavolo e se abbiamo questa fame di purezza interiore elevata all’ennesima smettiamo di imparare per radicarci nella nostra safe zone

Quindi parliamo dell’entità dei compromessi, così diamo il giusto peso ai pro e ai contro. Piccoli compromessi: sono quelli che ci permettono di agire senza rinunciare a noi stessi – al nostro credo – e allo stesso tempo avanzare in conoscenza, in esperienza, in comprensione. Grossi compromessi: sono quelli che ci invitano – dietro lauto compenso, stile “L’Avvocato del Diavolo” – a snaturare la nostra indole, ad abbracciare una visione distorta di noi stessi e di ciò che vogliamo, a svenderci in cambio di un qualcosa che potrebbe non arrivare mai. Eccomi infine al punto: raccontarsi che certi compromessi son piccolezze soltanto per argomentare il nostro cambio di rotta e crearci degli alibi, non è una buona idea.

Quindi fuori la bilancina, Babs, e vediamo di capire da che parte pende e dove ti vuoi mettere tu. Occhio alla strada, però!

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(649) Incertezza

Il leitmotiv della mia esistenza. No no, mi rendo conto che sono in buona compagnia e che ben pochi Esseri Umani sono così fortunati da infischiarsene bellamente dell’incertezza del vivere, ma io con il mio carico di Incertezza voglio farci pace. Cioé vorrei riuscire a guardare serenamente in faccia questa montagna che mi sta davanti – e mi fissa minacciosa – e far presente le mie ragioni. Senza bisogno di discutere, possiamo trovare una base comune su cui costruire un rapporto più costruttivo, no?

Voglio dire che farmi vivere con quest’ansia famelica per tutta la vita a chi giova? A chi? Di certo non a me, ma neppure a te, Incertezza mia… vero? Visto che stiamo convivendo in un corpo solo, cara Incertezza, non è che possiamo trovare un modo meno distruttivo di gestire le cose? Facciamo che riduci il tuo spazio dentro al mio cervello di un buon 60%, e il gap lo facciamo colmare per un 10% alla pace mentale, per un 10% alla saggezza, per un 15% alla lungimiranza senza affanno e il restante 5% lo lasciamo alla follia. Secondo me potrebbe funzionare. Ti tieni il tuo bel 40% di spazio in cui muoverti, ti lascio anche qualche giorno al mese per farmi vedere i sorci verdi, ci sta, però per il restante del tempo, oh Incertezza mia!, fai silenzio, non interferisci con il normale andazzo dei miei giorni. Siamo entrambe entità ragionevoli, secondo me ce la possiamo fare. 

Perché ci sono delle cose certe nella mia vita, ci sono e ringrazio il Cielo che ci siano e mi auguro ci siano ancora per cinquant’anni buoni, ma mi domando: perché non mi bastano? Perché l’ansia me le fa dimenticare e mi butta addosso tutto l’Incerto del mondo pronto a divorarmi quando la stanchezza si fa appena appena sentire? Perché? Perché? Perché?

Va bene. Non serve neppure che io sappia il perché. L’importante è che si trovi un accordo. Ora.

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(648) Panorama

Cosa vedi fuori dalla tua finestra? 

Questa domanda mi ha accompagnato per oltre trent’anni, mi ha guidata e mi ha dato la forza di non fermarmi in luoghi dove non c’erano finestre o dove il mio sguardo non potesse spingersi oltre. Difficile da spiegare, ma è esattamente così che ho vissuto in questi anni.

Non l’ho mai detto a nessuno, non l’ho mai usato per giustificare certe mie decisioni e certe mie partenze, non l’ho mai sottovalutato e non l’ho mai zittito: ho lasciato che mi facesse strada, che si prendesse cura di me. Lo ha fatto.

Ci sono stati momenti di finestre sbarrate, di pareti cieche, di panorami squallidi e cieli bui, ma sono stati momenti perché ho agito e mi sono spostata, ho preso in mano la situazione e ho cercato un cielo meno cupo, un panorama più vasto, aprendo la mia finestra per respirare. Non sono mai ritornata indietro, sempre avanti. Senza rimpianti per di più.

Credo sia importante chiederci cosa riusciamo a vedere dalla finestra, quanta vita riesce a passare da lì per incontrarci? Credo sia fondamentale. E cercare il panorama che fa per noi, quello che ci mette in pace con le nostre storture e le nostre tristezze è un dovere oltre che un nostro diritto. Comporta un po’ di sbattimento, sì, certamente sì. E un po’ di disagio interiore, sì lo posso confermare. Ma non importa. Non importa. Non. Importa. Tutto questo serve.

Quando non ci sono finestre non c’è luce, non c’è respiro. Se chiudiamo le nostre finestre smettiamo di sentire il mondo per finire ad occuparci soltanto di noi stessi mettendo in pericolo la nostra mente, il nostro equilibrio. Se poi c’è chi trova l’Illuminazione ritirandosi a vita monastica, buon per lui. Per chi è come me non funziona. Quando sono in un luogo senza finestre so che quel luogo non è il mio. Non funziono senza poter spingere il mio sguardo oltre la finestra, mi si blocca tutto. Non so spiegarlo, ma così è. E così mi basta.

Amen.

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