(501) Maleducazione

Oggi, per la prima volta in vita mia, ho risposto a tono. Non ci ho messo neppure un secondo in esitazione, ho risposto mantenendo la mia posizione e facendo indietreggiare la maleducata senza a mia volta esserlo, maleducata intendo.

Per chi mi conosce davvero, questo exploit potrebbe essere uno shock.

Io sono quella che all’arroganza contrappone il distacco, alla prepotenza risponde con la gentilezza e alla maleducazione riserva una battuta ironica. Funzionano tutte, direi anche sempre, puntualmente, ma oggi ho cambiato tattica. Ho risposto come Dio comanda: affermando la mia persona e pretendendo il minimo rispetto sindacale. Rispetto come persona e come professionista. Non te lo chiedo, me lo prendo il tuo rispetto mettendoti al tuo posto.  Io non entro nel tuo spazio e tu non entri nel mio spazio – diceva Johnny a Baby mentre le insegnava a ballare il mambo. Il mambo così funziona, così dev’essere ballato. Amen.

Ho rimurginato tutto il giorno sul motivo scatenante del mio colpo di scena – reazionario, direi – e forse il punto è che questa persona non mi conosceva e io non conoscevo lei, non ci potevamo guardare in faccia (era una telefonata) e oggettivamente parlando il suo sbottare malamente a prescindere da chi ci fosse dall’altra parte del telefono è stato idiota. Non mi sono offesa, mi sono incazzata. Non mi sono infastidita, mi sono incazzata. Non mi sono sentita spiazzata, mi sono incazzata. Quel sacrosanto “adesso basta!” che ti fa alzare la testa, abbassare la voce portandola tutta alla gola per snocciolare le tue argomentazioni lucidamene senza perdere una battuta, senza farti interrompere finché non hai finito. 

Posso fare anche questo. Brava, Babs!

Cosa non farei mai, però, è armarmi di una pistola e sparare random a tutti i maleducati che trovo per strada. Perché non lo faccio? Perché questa cosa non posso farla? No, la potrei fare se lo volessi. Il punto è che non mi viene neppure in mente di poterlo fare. Non lo voglio fare. Non è la follia omicida che guida la mia reazione. Non è l’odio razziale, il pregiudizio, la vigliaccheria d’anima, il pensiero grezzo, la bile sovraesposta, non è questo che io alimento con il mio vivere. Tutta quella robaccia non mi appartiene, non ho imparato questo dalla vita. E non giustifico chi decide di farlo, e non evito di dargli il nome che si è guadagnato nel farlo, e non avvallo quel crimine e condanno strenuamente le invisibili firme che lo supportano.

Noi possiamo prendere una posizione, affermare la nostra presenza, dichiarare la nostra intenzione a non essere prevaricati, agire in modo da meritare e quindi – di conseguenza – pretendere il rispetto dagli altri quando viene a mancare ingiustamente. Possiamo farlo controllando le nostre paure, gestendo meglio la nostra emotività, monitorando i nostri sentimenti, respirando profondamente quando la fatica ci espone e ci rende vulnerabili. Tutto questo e molto altro possiamo fare.

Non possiamo superare il limite, però, perché soltanto un millimetro al di là della linea non c’è ragione che tenga, diventiamo noi quelli da condannare. Anzi, siamo noi quelli già condannati.  E senza appello.

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