(536) Nonchalance

Mi piacerebbe tanto saper alzare il sopracciglio, smorzare un sorriso di compatimento, e con mezzo giro su me stessa uscire dalla stanza e dalla situazione come se non fosse importante, come se avessi di meglio da fare, come se stanza e situazione non meritassero la mia presenza e quindi adieu.

Mi piacerebbe tanto, ma non ce la faccio.

Appena mi girano le palle – a torto o ragione non fa alcuna differenza – mi si legge in faccia in modo talmente dettagliato che è una fortuna non essere ancora stata rinchiusa in una cella di massima restrizione. Come Hannibal Lecter, tanto per intenderci. 

Eppure, ammiro la classe di chi ci passa sopra. Ammiro l’eleganza di chi sa che certe sporcature non li possono toccare, neppure sfiorare, e si elevano con grazia. Ammiro il savoir-faire di chi alleggerisce il carico e non si sofferma sui dettagli, scivola via e basta. Ma l’ammirazione non conta nulla, ci vuole talento, una innata predisposizione che a me manca. A comprarla un tanto al chilo ci lascerei giù un rene, non è fattibile. E quindi?

Eh. Niente. Alzerò gli occhi al cielo in cerca di ispirazione, inspirerò calma ed espirerò saggezza, fingerò di essere una damina dell’800 che sorride furbamente dietro il ventaglio. Nel frattempo indietreggerò, cercando di non inciampare, e guadagnerò l’uscita lestamente – per quanto la mia stazza lo permette – cercando di tenere chiusa la bocca. Sprangata.

Non credo funzionerà. 

No, non funzionerà.

Pace.

 

 

 

 

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